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Le due città
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E-book530 pagine7 ore

Le due città

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Introduzione di Vanni De Simone
Edizione integrale

Romanzo storico consacrato al realismo narrativo, Le due città mette in scena i destini di personaggi coinvolti nel vortice degli eventi della Rivoluzione francese e del successivo periodo del Terrore. Sebbene l’ambientazione, tra Londra e Parigi – le due città del titolo – differisca notevolmente dall’Inghilterra vittoriana, cui il romanziere ha quasi sempre attinto per i suoi lavori, quest’opera contiene tutti i classici temi dickensiani: dalla povertà alla nobiltà di spirito, dal sacrificio alla redenzione. Considerato dall’autore stesso uno dei suoi più riusciti esiti narrativi, Le due città è un testo che appassiona il lettore sin dalla prima pagina per il suo mescolare verità storica e finzione, ricerca erudita e capacità di rappresentazione delle sofferenze umane. Il film del 1935, diretto da Jack Conway, con Ronald Colman ed Elizabeth Allan, ricevette due nomination agli Oscar.


«Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità; il periodo della luce, e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi.»


Charles Dickens

nacque a Portsmouth nel 1812. Trascorse l’infanzia a Chatham e poi seguì il padre in un traumatico trasferimento a Londra. Della metropoli in cui visse fece il centro ispiratore della sua arte, il centro di un quadro vivo e mobile, un caleidoscopio armonico e colorato di personaggi, conflitti sociali, umori e fermenti della sua epoca. Morì nel 1870. La Newton Compton ha pubblicato Il Circolo Pickwick, David Copperfield, Grandi speranze, Oliver Twist, Racconti di Natale, Tempi difficili, Le due città e il volume I grandi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854138445
Le due città
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens was born in 1812 and grew up in poverty. This experience influenced ‘Oliver Twist’, the second of his fourteen major novels, which first appeared in 1837. When he died in 1870, he was buried in Poets’ Corner in Westminster Abbey as an indication of his huge popularity as a novelist, which endures to this day.

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    Anteprima del libro

    Le due città - Charles Dickens

    Introduzione

    Nel panorama della letteratura e della narrativa ottocentesca occidentale Charles Dickens (1812-70) rappresenta un punto d’arrivo e, al tempo stesso, di partenza, nella costruzione della figura nuova dello scrittore e già la provenienza per così dire, culturale, risulta indicativa per comprendere la fortuna e l’affermazione successive. Diversamente da Walter Scott, ad esempio, ma analogamente a Daniel Defoe, Dickens inizia come giornalista in un’epoca in cui la funzione dello stesso era soprattutto nel senso dell’orientamento e del commento della realtà e non certo in quello della velocità del dato dell’informazione. Sono gli anni della rivoluzione industriale e dei valori del vittorianesimo e dell’impero. Ci si poteva opporre, schierandosi dalla parte del socialismo nascente, come già un altro grande suo contemporaneo, William Morris, oppure accomodarsi, magari non sbracandosi, nell’alveo dei valori borghesi imperanti tentando di far riflettere il pubblico senza tuttavia spaventarlo come faceva Morris con i suoi mondi fantastici o fantascientifici. Così, dal Circolo Pickwick (1837) ai romanzi maggiori successivi (Oliver Twist, 1839; Dombey e Figlio, 1848; David Copperfield, 1850) e fino a Grandi Speranze, 1861 e Il Nostro Comune Amico, 1865, tutta la sua produzione vede un affollamento infinito di personaggi che diventano un po’ un unico grande protagonista caratterizzato da elementi ben riconoscibili e definiti. È stato più volte ribadito come «l’isterica commozione» alla quale sapeva indurre i suoi lettori nascesse in fin dei conti da un unico dato sempre ricorrente, anche quando ormai ricco e famoso era socialmente più vicino alla classe dominante che a quella d’origine, il dato autobiografico. Dickens cioè è come se narrasse continuamente le esperienze di povertà e sofferenza patite in giovane età, come se riproponesse all’infinito lo stesso mondo e lo stesso o gli stessi personaggi: la casa, le disavventure del padre finito in carcere per debiti, lo sfruttamento patito a incollare etichette su flaconi di lucido per scarpe. Insomma un trauma indelebile, una frattura della psiche ricorrente durante tutta la vita in una dinamica non dissimile da quella di Dostoevskij, nel quale pure l’elemento autobiografico è onnipresente ma assume i dati della tragicità. E il lettore, probabilmente, sapeva di trovare esattamente ciò che si aspettava ed era soddisfatto e intrattenuto, magari con l’occhio inumidito dai destini avversi di Oliver o di David.

    Diretto discendente della tradizione settecentesca (Henry Fielding, Tobias Smollett, Samuel Richardson e Laurence Sterne), Dickens incarna così senz’altro lo scrittore di massain grado di avvicinare e coinvolgere una vasta cerchia di lettori, divenendo talmente celebre da superare di gran lunga altri grandi dell’epoca, compresi Dostoevskij, per essere eguagliabile a Dumas o Sue. Si potrebbe dire che per certi versi la sua popolarità fu analoga a quella dei grandi media di intrattenimento (cinema o televisione) più che assimilabile a quella di un uomo di lettere. Questa sorta di rivoluzione che si può individuare, secondo Mario Praz, nell’affermazione del genere del romanzo a puntate, comporterà una serie di conseguenze da una parte strettamente collegate a rinnovate tecniche narrative (sospensione della narrazione, incidente alla fine d’ogni puntata, ecc.), e dall’altra ad avvenimenti di natura socio-culturale (allargamento della potenzialità di pubblico) di notevole portata. Dopo i primi decenni dell’800 il romanzo non appare più diretto solo a una cerchia ristretta di lettori ma si espanderà a tutti coloro in grado di leggere e scrivere (grazie anche al grandissimo ruolo svolto dalle biblioteche, circolanti e no). Siamo di fronte ad una sorta di «democratizzazione», per usare ancora un termine del Praz, del romanzo che farà parallelamente acquistare allo scrittore un peso e un ruolo nella società come mai prima.

    È su questo sfondo che si innesta dunque la figura di Dickens, il quale porta alle estreme conseguenze alcuni elementi universalmente e generalmente riconosciuti come caratteristici della sua poetica: sottolineatura del sentimentale e del melodrammatico, teatralità, tinte forti nel delineare i personaggi delle opere. Ma è vero altresì che a questi, che al gusto moderno risultano essenzialmente difetti e limiti, ve ne saranno altri che da allora in poi marcheranno fortemente la produzione romanzesca: la convergenza sulla rappresentazione realistica e – come nel caso specifico di Le due città, storica – e quello della denuncia sociale, tuttavia mai dichiaratamente di stampo politico. Come rileva anzi Emilio Cecchi, «al Dickens muoveva sdegno la indifferenza dei ricchi; ma gli faceva anche più paura, anzi orrore, il pensiero che un bel giorno i poveri cominciassero a farsi giustizia da sé». Dickens più che indagare le cause del sistema di sfruttamento capitalista non fa altro che mostrarne le conseguenze, l’imbarbarimento dei rapporti umani ed è questo, nota Piergiorgio Bellocchio citando a sua volta G.K. Chesterton, che gli permise di conservare «la fiducia delle classi inferiori, che continuarono ad avvertire quel profondo, confuso clamore di cameratismo e d’insurrezione che riempie tutta la sua narrazione». Così, il compromesso tipicamente vittoriano di padroni e operai uniti nella lotta veniva a trovare in Dickens una sua riuscita rappresentazione.

    Del resto tentare di individuare nei suoi romanzi figure drammaticamente alte sarebbe, oltreché fuori luogo, anche deviante. Ci sembra inutile muovergli una critica partendo da accostamenti ad autori del tutto dissimili per intendimenti e obiettivi (Walter Scott, Lev Tolstoj o Gustave Flaubert), mentre risulta assai più interessante porlo accanto a un Miguel de Cervantes, un Mark Twain o, limitatamente ad alcuni aspetti, perfino un Ippolito Nievo (quello delle Confessioni, tanto per intenderci). Ciò che fa di Dickens uno scrittore ormai da tempo assurto all’Olimpo dei classici sono esattamente le creazioni di quella sterminata folla di personaggi comici «minori», ridicoli, grotteschi, mostruosi riuniti in una folla immensa i quali giungono all’eternità in virtù del loro essere maschere, tipi, caratteri più che titani suscitatori di grandi passioni: in altre parole, non cercate Macbeth perché vi ritrovereste davanti sempre Falstaff. Crediamo che l’accusa di sentimentalismo, che viene continuamente mossa all’autore, possa essere ricondotta proprio nell’ambito della non mai superata ambivalenza della critica rispetto ai generi, ma non ai generi in quanto tali (Don Chisciotte è sempre Don Chisciotte e Gargantua è sempre Gargantua), quanto alle aspettative di un autore all’interno di una certa epoca e condizione. Si guarda cioè a Dickens sempre come a una specie di parvenu della letteratura (David Daiches, non a caso, sottolinea che le «doti intellettuali di Dickens non erano certo eccezionali; egli fu [...] il più istintivo tra tutti i grandi romanzieri inglesi [...] e il sentimentalismo fu spesso il solo modo con cui seppe affrontare difficili problemi morali».

    Ma da questo sorgono altre questioni: perché cercare a tutti i costi interrogativi morali in un autore che giocoforza non poteva che esprimere l’anima più autentica della borghesia inglese di quell’epoca, perché scandalizzarsi se oggi appare limitato. Era riuscito a smuovere perfino Marx. («Dai possessori di rendite vitalizie e titoli di Stato, che guardano con disprezzo ogni genere d’occupazione, fino ai piccoli bottegai e legulei: come li hanno bollati, Dickens, Thackeray, Charlotte Brontë» afferma in un suo scritto.) Ciò che intendiamo, in ultima analisi, è che è inutile cercare in Dickens ciò che non può esserci, mentre risulta assai più proficuo gustare e meditare, in senso storicista, come in tutti i classici del passato, su ciò che ha rappresentato nella sua epoca. Certo, non è da sopravvalutare nemmeno la componente positiva delle opere (non andò mai oltre l’esortazione a fare i buoni rivolta a chi sfruttava le classi popolari) ma ci sembra corretto insistere ancora sul fatto, come ancora rileva Daiches, che se «Tennyson fu il grande profeta della borghesia vittoriana, Dickens fu colui che la divertì». Ci pare questo in fin dei conti l’approccio più giusto (e proficuo per il lettore): andare a cercare e riscoprire tutto un universo e un mondo, anche psicologicamente connotato, di un passato ormai remoto ma del quale sono riproponibili alcuni aspetti in forma di testimonianza culturale sebbene mai politica, un mondo pieno di ingiustizie e squilibri che è tale anche oggi ma che certo oggi uno scrittore non si proporrebbe di mutare con la scrittura. O almeno, non solo, con la scrittura.

    Afferma György Lukács, analizzando il ruolo dei grandi realisti del secolo scorso, che essi «rappresentano la società borghese che si sta definitivamente consolidando attraverso gravi crisi; rappresentano le complesse leggi che presiedono alla sua formazione, i molteplici e tortuosi passaggi che dalla vecchia società in sfacelo conducono alla nuova che sta sorgendo». L’analisi del grande critico, qui applicata nei confronti di Dickens, sembra in qualche misura spezzare un’autorevole lancia a favore di un Dickens alto offrendo spunto per una lettura alquanto inedita. Per Lukács tuttavia tale differenziazione non appare in Le due città, opera ancora pervasa di difetti piccolo borghesi quanto nel Dickens sociale. Nel romanzo infatti «scompare il nesso fra i problemi vitali dei personaggi principali e gli avvenimenti della Rivoluzione francese, che si riduce a uno sfondo romantico». L’interrogativo fondamentale che sorge è dunque fondamentalmente uno: è ancora condivisibile una tale lettura oggi?

    Per Lukács in Le due città emergono in pieno soprattutto i limiti connaturati all’autore, dall’induzione all’«isterica commozione» fino all’esaltazione irrazionalistica di stampo piccolo borghese, in altre parole né più né meno quanto avverrebbe oggi nelle telenovela, se ci è consentito osare il paragone. Ma sarebbe ingiusto, oltreché sbagliato, vederci solo questo. Opera ispirata da History of the French Revolution (Storia della Rivoluzione Francese) (1837), di Thomas Carlyle (1795-1881), un lavoro storico che presenta però molti aspetti romanzeschi e con una vivida galleria di protagonisti e personaggi di quegli eventi (da Mirabeau e Lafayette a Danton e Robespierre), Le due città (nel titolo originale A Tale of two Cities), narra le vicende del dottor Manette, un medico francese imprigionato alla Bastiglia perché scomodo testimone delle nefandezze del marchese di St. Evremonde. Ricondotto alla vita dopo diciotto anni, il dottore trova rifugio in Inghilterra. Qui, la figlia si innamora di Charles Darnay, nipote del marchese Evremonde, riparato in Inghilterra per sfuggire all’amoralità della nobiltà francese. Tornato a Parigi per tentare di salvare un servitore imprigionato, viene arrestato a sua volta e salvato all’ultimo momento da Sydney Carton, una sorta di eroe negativo che prende il suo posto sul patibolo.

    Le due città non è certo l’opera più riuscita di Dickens ma già una prima lettura del plot rivela molti degli elementi che lo hanno reso caratteristicamente grande. Unico suo vero romanzo storico (si era in precedenza cimentato con tale genere in Barnaby Rudge, 1841, ma gli avvenimenti storici restano un puro sfondo), il lettore è immediatamente colpito dall’estrema perizia teatrale dell’autore, la quale mette in piena evidenza una dote tutto sommato non così comune, il riuscire a tenere desto l’interesse, creare in continuazione un’aspettativa. Ciò è dovuto alla natura di romanzo a puntate che ben emerge nel corso del lavoro (i continui colpi di scena marcano probabilmente la scansione originaria delle puntate) e l’uso sapiente dell’agnizione finale. Si può dire che Le due città rientra in quello che Robert Scholes e Robert Kellogg definiscono «romanzo storico artistico», e che i due critici tengono separato da un altro genere, lo «storico scientifico». Mentre il primo mantiene trama e personaggi, nel secondo tali qualità narrative sono subordinate a considerazioni impersonali di forze economiche e sociali. È questo un punto di grande interesse e oggetto di controversie critiche. Se, ancora Lukács, sostiene che «Dickens, nel mostrare le cause e gli effetti, colloca in primo piano gli aspetti puramente morali, (e) scompare il nesso tra i problemi vitali dei personaggi principali e gli avvenimenti della Rivoluzione francese, che si riduce a uno sfondo romantico», i due critici inglesi rilevano che Le due città è «uno studio storicamente esatto» e, se paragonato al suo nume ispiratore, la French Revolution di Carlyle, risulta che il secondo oggi «può dirsi del tutto trascurato mentre il primo è ancora un numero obbligato del programma delle scuole medie superiori anglosassoni».

    Opera insomma controversa e contraddittoria, con grandi pregi e molti limiti che tuttavia non inficiano il dato di fondo della sua riuscita e godibilità. Perché Le due città induce comunque alla riflessione, perché risulta un abilissimo punto d’incontro tra la tecnica del colpo di scena – dato costante in tutta la letteratura del secolo scorso – e l’imperativo morale (moralistico, a volte). In altre parole, a voler tracciare una ideale linea di demarcazione tra opposte tendenze della critica, vedremmo quanto è marcata l’ambivalenza con cui questa ha giudicato il romanzo. Rileva ancora a tale proposito Orwell in Charles Dickens¹ che il suo radicalismo è della specie più nebulosa ma tuttavia esso c’è. È questa la differenza tra l’essere moralisti e l’essere politici. (Dickens) non ha mai proposizioni costruttive e nemmeno una ben definita conoscenza del tipo di società che attacca ma solo un’intuizione emotiva per la quale dev’esserci qualcosa di sbagliato. Tutto ciò che riesce a dire, alla fine, è «Portati bene» [...]. Dickens, in ultima analisi, appartiene (anche) a quella grande corrente narrativa che vede schierate opere che vanno da La Capanna dello Zio Tom fino a Via col Vento, da I Promessi Sposi ad Anna Karenina ma senza tutti i pregi o tutti i difetti dell’una o dell’altra. Dickens ha cioè la peculiare caratteristica di non stare mai del tutto da una parte e mai del tutto dall’altra, sia nel bene che nel male. Grande bozzettista con altrettante grandi doti drammatiche (se non drammaturgiche: è stato trasposto nel cinema e nella televisione in ogni tempo e luogo), supremo talento narratore che spinge forse troppo sul pedale dell’anima più che su quello dell’analisi psicologica – tecnica che in quel periodo raggiunge i massimi vertici nella letteratura francese e russa – Dickens resta un autore su cui soffermarsi ma soprattutto da gustare tout court: un autore giammai riconducibile alla mera archeologia letteraria, uno come Manzoni, come Dumas, come Cervantes.

    Vanni De Simone

    ¹ George Orwell, in Critical Essays, 1946.

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1812. Charles Dickens nasce a Portsmouth il 7 febbraio.

    1815. John Dickens, padre di Charles, impiegato all’ufficio paghe della Marina, viene trasferito a Londra.

    1817. John Dickens è trasferito a Chatham, dove il piccolo Charles trascorre il periodo più felice della propria infanzia.

    1821. Scolaro alla William Giles’s School, Charles scrive, «alla matura età di 8-10 anni», la tragedia Misnar, the Sultan of India.

    1822. John Dickens è di nuovo trasferito a Londra, e va ad abitare al 16 di Bayham Street, Camden Town.

    1824. Mentre la sorella Fanny è iscritta alla Royal Academy of Music, il piccolo Charles, anche su pressioni della madre, viene abbandonato al lavoro in una fabbrica di lucido da scarpe, Warren, sulle sponde del Tamigi. Questo gli dà il senso di una contaminazione col mondo basso e criminale. Il padre è rinchiuso nella prigione per debitori di Marshalsea. Charles alloggia presso una famiglia di amici, prima a Camden Town e poi a Lant Street, più vicino alla prigione del padre. Dopo pochi mesi, uscito John Dickens di prigione, la famiglia si trasferisce a Somers Town.

    1825. Charles Dickens si iscrive alla Wellington House Academy.

    1826. John Dickens ottiene un impiego giornalistico.

    1827. Charles si impiega presso lo studio legale Ellis e Blackmore. Per evadere dalla routine degli impieghi legali, studia stenografia da autodidatta.

    1830. Si invaghisce di Maria Beadnell, la cui famiglia tratta snobisticamente il giovane e lo induce ad interrompere il rapporto, nel 1833. Ottiene l’impiego di reporter parlamentare grazie anche allo zio.

    1832. Tenta il mestiere dell’attore.

    1833. «The Monthly Magazine» pubblica il suo primo racconto: A Dinner at Poplar Walk.

    1834. Giornalista al «The Morning Chronicle». Conosce la futura moglie, Catherine Hogarth. Pubblica altri bozzetti su «The Monthly Magazine».

    1836. Escono Sketches by Boz, First Series, e Sketches by Boz, Second Series, i suoi primi volumi. Si sposa e conosce John Forster che rimarrà forse il suo più fedele amico e primo, importantissimo biografo. Inizia a pubblicare Pickwick Papers in parti mensili, metodo a cui rimarrà sostanzialmente fedele per il resto della sua opera.

    1837. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Oliver Twist.

    1838. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Nicholas Nickleby.

    1840. Assunta la direzione di una nuova rivista, «Master Humphrey’s Clock», su di essa inizia la pubblicazione, in 40 puntate, settimanali, di The Old Curiosity Shop.

    1841. Su «Master Humphrey’s Clock», inizia la pubblicazione, in 40 puntate, di Barnaby Rudge.

    1842. Esce American Notes, risultato del suo primo viaggio negli Stati Uniti, e inizia la pubblicazione di Martin Chuzzlewit.

    1843. Scrive il racconto natalizio, archetipo di un genere, A Christmas Carol (a cui seguono, fino al 1848: The Chimes, The Cricket on the Hearth, The Battle of Life, e The Haunted Man).

    1844-5. Visita l’Italia.

    1846. Esce Pictures from Italy. Prende avvio Dombey and Son, in 20 puntate, che dà inizio alla sua fase matura dopo la crisi produttiva degli anni precedenti.

    1849. Inizia la pubblicazione di David Copperfield (in 20 puntate).

    1850. È direttore di una nuova rivista, «Household Words», che attraverserà tutti gli anni Cinquanta.

    1852. Inizia la pubblicazione di Bleak House (in 20 puntate).

    1854. Esce Hard Times, in numeri settimanali.

    1855. Inizia la pubblicazione di Little Dorrit (in 20 puntate).

    1855. Acquista la casa di Gads Hill, nei pressi di Chatham, ammirata nelle passeggiate dell’infanzia assieme al padre. I giri di letture delle proprie opere, iniziati per beneficenza e poi trasformati in vere e proprie iniziative commerciali, acquistano ritmi più intensi.

    1859. Assume la direzione della nuova rivista «All The Year Round», dove pubblica A Tale of two Cities.

    1860. Su «All The Year Round» inizia la pubblicazione di Great Expectations.

    1864. Inizia la pubblicazione di Our Mutual Friend (in 20 puntate), ultimo suo romanzo concluso.

    1865. Coinvolto in un incidente ferroviario, rischia che sia scoperta la sua relazione extraconiugale con l’attrice Ellen Ternan.

    1868. Pubblica su «The Atlantic Monthly» il racconto George Silverman’s Explanation.

    1870. Inizia la pubblicazione di The Mistery of Edwin Drood, del quale solamente sei numeri sono pubblicati, dei dodici previsti. Provato da una serie di stressanti letture pubbliche, muore a Gad’s Hill, il 9 giugno.

    bibliografia generale

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    LIBRO PRIMO

    Resuscitato

    I. Il Periodo

    Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità; il periodo della luce, e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte – a farla breve, gli anni erano così simili ai nostri, che alcuni che li conoscevano profondamente sostenevano che, in bene o in male, se ne potesse parlare soltanto al superlativo.

    Un re dalla grossa mandibola e una regina dall’aspetto volgare sedevano sul trono d’Inghilterra; un re dalla grossa mandibola e una regina dal leggiadro volto sul trono di Francia. In entrambi i paesi ai signori dalle riserve di Stato del pane e del pesce era chiaro più del cristallo che tutto in generale andava nel miglior ordine possibile e nel più duraturo assetto del mondo.

    Era l’anno di Nostro Signore millesettecentosettantacinque. In quel periodo, felice al pari di questo, erano concesse all’Inghilterra delle rivelazioni spiritiche. La signora Southcott aveva raggiunto da poco prosperamente il suo venticinquesimo anniversario, e la sua sublime apparizione era stata annunciata da un soldato profetico della Guardia del Corpo con la predizione che tutto era pronto per lo sprofondamento di Londra e di Westminster. Lo spettro di Cock-lane taceva soltanto da dodici anni precisi, dopo aver conversato a furia di picchi, appunto come l’anno scorso quegli spiriti, che, con una sovrannaturale mancanza d’originalità, si misero anch’essi a conversare a furia di picchi. Semplici messaggi di natura terrestre erano giunti ultimamente alla Corona e al Popolo inglese da un congresso di sudditi britannici in America, ed essi, strano a dirsi, si dimostrarono più importanti per il genere umano di quante comunicazioni fossero mai ricevute per mezzo di qualche spirito della stessa genia di quello di Cock-lane.

    La Francia, dopo tutto meno favorita in fatto di materie spiritiche, di sua sorella dallo scudo e dal tridente, scivolava facilmente giù per la china, stampando carta moneta e spendendola. Sotto la guida dei suoi pastori cristiani, si dilettava, inoltre, d’imprese così umane da condannare un giovane ad avere le mani recise, la lingua strappata con le tenaglie, e il corpo ad esser arso vivo, perché non s’era inginocchiato riverente nella pioggia a una sudicia processione di frati, che gli passava davanti, a una distanza d’una cinquantina o una sessantina di passi. È abbastanza probabile che, quando quell’infelice fu suppliziato, già crescessero degli alberi nei boschi di Francia e di Norvegia, contrassegnati dal boscaiolo il Destino, per essere abbattuti e segati in tante tavole da comporne un apparato mobile, fornito di un sacco e una lama, terribile nella storia. È abbastanza probabile che sotto le rozze tettoie di alcuni coltivatori delle gravi terre intorno a Parigi lo stesso giorno stessero al riparo dal cattivo tempo, rudi carri, sudici di fango campagnolo, annusati intorno intorno dai porci e visitati dai polli, che la Morte falciatrice aveva già designati come i veicoli della Rivoluzione. Ma quel boscaiolo e quella falciatrice, benché lavorino continuamente, lavorano in silenzio, e nessuno li sentì aggirarsi col loro passo feltrato; tanto più che sospettare che fossero in faccende sarebbe stato tradimento ed empietà.

    In Inghilterra v’era appena tanto ordine e sicurezza che se ne potesse tenere l’amor proprio nazionale. Audaci depredazioni da parte di uomini armati e grassazioni da strada maestra avvenivano ogni notte nella stessa capitale: si avvertivano pubblicamente le famiglie di non abbandonar mai la città senza portare per precauzione i mobili nei magazzini del mobiliere; il grassatore notturno era di giorno un bravo cittadino, che freddava senz’altro con una palla in fronte, dando poi di sprone al cavallo, il compagno di mestiere da lui fermato che lo aveva riconosciuto chiamandolo a nome: la diligenza era assaltata da sette masnadieri, e il conduttore ne uccideva tre; ma poi era anche lui ucciso dagli altri quattro, «perché nonaveva più munizioni», e quindi la diligenza era tranquillamente svaligiata: quel gran potentato, che era il capo della città di Londra, era fatto fermare e depredato a Turnham Green da ununico grassatore, che spogliava l’insigne personaggio in presenza di tutta la sua scorta: i carcerati delle prigioni londinesi s’azzuffavano coi loro carcerieri, e la maestà della legge scaricava fra essi tromboni carichi di palle e pallini: i ladri tagliavano croci di diamanti al collo di nobilissimi signori nelle sale di Corte: i moschettieri correvano a San Giles in cerca di mercanzie introdotte di contrabbando, ma la plebaglia sparava sui moschettieri, e i moschettieri sparavano sulla plebaglia, senza che nessuno pensasse che l’uno o l’altro di questi avvenimenti avesse un carattere molto fuor del comune. Intanto, il boia, sempre affaccendato e sempre peggio che inutile, era continuamente richiesto: ora ad appendere lunghe file di delinquenti di varia specie, ora ad appiccare il sabato uno scassinatore che era stato colto in flagrante il martedì; ora a marchiare a fuoco la mano di dozzine di persone a Newgate, e ora ad accendere un falò di opuscoli alla porta di Westminster Hall; oggi, ad accorciare la vita di un atroce assassino, e domani quella d’uno sciagurato ladruncolo impadronitosi dei pochi soldi d’un contadinello.

    Tutte queste cose, e migliaia d’altre simili, avvenivano entro e alla fine di quel caro e vecchio anno millesettecentosettantacinque. In mezzo ad esse, mentre il boscaiolo e la falciatrice lavoravano inavvertiti, quei due dalle grosse mandibole e quelle due dall’aspetto volgare e dal leggiadro volto procedevano con sufficiente splendore, portando alti nella mano i loro divini diritti. Così l’anno millesettecentosettantacinque conduceva le loro Grandezze e miriadi di umili creature – fra le altre quelle di questa cronaca – per le strade che si stendevano innanzi a loro.

    II. La diligenza

    Era la strada di Dover che si stendeva, una notte di venerdì in novembre, innanzi al primo dei personaggi con cui questa storia ha da fare. La strada di Dover, rispetto a lui, si stendeva oltre la diligenza di Dover, che s’arrampicava faticosamente su per il monte Shooter. Egli camminava nel fango accanto alla diligenza, come gli altri passeggeri, non perché lui e gli altri provassero il minimo gusto a far quattro passi a piedi in quelle circostanze, ma perché l’erta, il fango, i finimenti e la diligenza erano tutti così pesanti, che i cavalli s’erano già fermati tre volte, oltre ad aver tirato una volta la carrozza attraverso la strada, col sedizioso intento di riportarla indietro a Blackheath. Ma le redini, lo staffile, il cocchiere e il conduttore, con unanime slancio, avevano fatto valere l’articolo di guerra che s’opponeva a un disegno, assai favorevole, d’altra parte, all’argomento che alcuni animali sono dotati di ragione; e l’attacco aveva capitolato, tornando al dovere.

    Con la testa abbassata e la coda tremante, i cavalli sguazzavano attraverso la densa mota, impantanandosi e inciampando ad ogni passo, come se le loro articolazioni andassero in pezzi. Ogni volta che il cocchiere li faceva fermare e concedeva loro un po’ di riposo, con uno stanco «Uh... uh... ehi!» il cavallo di destra scuoteva violentemente la testa e tutto ciò che c’era di sopra – da bestia insolitamente energica, come per dire che la carrozza non si poteva trascinare fin su. Ogni volta che il cavallo di destra faceva quello strepito, il passeggero sussultava, da quel nervoso passeggero che era, e si sentiva lo spirito turbato.

    In tutti gli avvallamenti fumava la nebbia, che aveva, nel suo abbandono, errato su per il monte come uno spirito malvagio che cercasse indarno riposo. Vischiosa e gelida, si snodava lenta per l’aria in spire che si seguivano e s’accavallavano visibilmente, come le onde d’un mare agitato. Era abbastanza densa da nascondere, salvo il suo proprio sviluppo e poche braccia di strada, ogni oggetto ai fanali del veicolo; in essa, come se fosse formata tutta dai cavalli affaticati, vaporavano le loro esalazioni.

    Altri due passeggeri, oltre l’uno già menzionato, arrancavano su per la collina accanto alla diligenza. Tutti e tre erano avviluppati fino agli zigomi e fin sulle orecchie, e portavano grossi stivaloni. Nessuno dei tre avrebbe potuto dire, da ciò che vedeva, che aspetto avessero gli altri due; e ciascuno era celato agli occhi dello spirito dei due compagni quasi da tanti indumenti quanti agli occhi del corpo. In quei giorni i viaggiatori erano molto restii ad attaccar conoscenza, perché chiunque in viaggio poteva essere un brigante o in combutta coi briganti. Era la cosa più probabile di questo mondo, che ogni stazione di posta e ogni albergo potevano presentar qualcuno col grado di capobanda a cominciar dall’albergatore, giù giù fino all’ultimo mozzo di stalla. Così fra sé e sé pensava il conduttore della diligenza di Dover, quel venerdì notte del millesettecentosettantacinque, su per la collina di Shooter, mentre se ne stava ritto al suo posto di dietro battendo i piedi, e tenendo l’occhio e la mano sul trombone carico che gli stava dinanzi allungato su sei o sette pistoloni parimenti carichi e su uno strato proporzionato di coltellacci.

    La diligenza di Dover era nella sua solita divertente condizione: che il conduttore sospettava dei passeggeri, ogni passeggero sospettava a uno a uno dei compagni e del conduttore, tutti si guardavano con reciproca diffidenza, e il cocchiere non era sicuro che dei cavalli: sul conto dei quali avrebbe potuto giurare, mettendo la mano sul Vecchio e Nuovo Testamento, che non erano in grado di compiere il viaggio.

    «Uh... uh!», disse il cocchiere. «Su, su! Un altro po’ e sarete in cima, bestie del diavolo! Ho avuto un bel da fare a condurvi fin quassù!... Giuseppe!»

    «Ehi!», rispose il conduttore.

    «Che ora fai, Giuseppe?»

    «Più delle undici e dieci.»

    «Per l’inferno!», esclamò il cocchiere irritato, «e non ancora su. Tst!... eh! Avanti!»

    Il cavallo riottoso, spronato decisamente dalla frusta, fece un violento sforzo e fu imitato dagli altri tre. Ancora una volta la diligenza di Dover avanzò pesantemente, fra gli stivaloni dei passeggeri che le sguazzavano a fianco. Essi s’erano fermati quando la carrozza s’era fermata, e le tenevano la più stretta compagnia. Se uno dei tre avesse avuto l’ardire di proporre a un altro di precederla un po’ nella nebbia e nel buio, si sarebbe messo nella lieta situazione di buscarsi immediatamente una palla nello stomaco come un volgarissimo assassino di strada.

    L’ultimo sforzo portò la diligenza alla sommità della collina. I cavalli si arrestarono per riprender fiato, e il conduttore smontò per frenare le ruote alla discesa e aprire lo sportello ai passeggeri.

    «Tst! Giuseppe!», esclamò il cocchiere, in tono d’avvertimento, guardando giù da cassetta.

    «Che vuoi, Maso?»

    Origliarono entrambi.

    «S’avvicina un cavallo a galoppo, Giuseppe.»

    «A gran galoppo, mi sembra, Maso», rispose il conduttore, staccandosi dallo sportello e arrampicandosi rapidamente al suo posto. «Signori, in nome del re, tutti quanti!»

    Con questo frettoloso appello, alzò il cane del trombone e si mise sull’offensiva.

    Il passeggero ricordato da questa narrazione era sul predellino nell’atto di entrare; gli altri due dietro di lui, nel punto di seguirlo. Egli rimase sul predellino, mezzo fuori, mezzo dentro; i due rimasero sulla strada, sotto di lui. Tutti guardarono dal cocchiere al conduttore, e dal conduttore al cocchiere, ascoltando. Il cocchiere guardava indietro e il conduttore guardava indietro: anche il riottoso cavallo di destra aveva aguzzato le orecchie e guardava indietro, senza contraddire.

    La quiete seguita alla cessazione dello sforzo e dello strepito della diligenza, aggiunta alla quiete della notte, fece l’effetto d’un profondissimo silenzio. L’ansito dei cavalli comunicava un movimento di tremore alla vettura, e le dava come un senso di agitazione. I cuori dei passeggeri battevano forse abbastanza forte da essere uditi; ma in ogni modo quella paura silenziosa parlava a chiare note di persone senza fiato e che trattenevano il fiato, con le pulsazioni precipitose dell’attesa.

    Lo strepito furioso d’un cavallo al galoppo si fece più forte.

    «Ehi la!», gridò il conduttore, con quanto più fiato aveva. «Ferma, o sparo!»

    La corsa fu immediatamente frenata, e fra molto sciaguattio, si sentì una voce umana nella nebbia: «È questa la diligenza di Dover?».

    «Che t’interessa?», ribatté il conduttore. «Tu chi sei?»

    «È questa la diligenza di Dover?»

    «Perché vuoi saperlo?»

    «Cerco un passeggero, se è quella.»

    «Chi?»

    «Il signor Jarvis Lorry.»

    Il passeggero di cui s’interessa questa narrazione mostrò subito che quello era il suo nome. Il conduttore, il cocchiere e gli altri due passeggeri gli lanciarono un’occhiata di diffidenza.

    «Non ti muovere di là», grido il conduttore alla voce nella nebbia, «perché se io commettessi un errore, non lo vedresti riparato vivo. Il signore che si chiama Lorry risponderà immediatamente.»

    «Che c’è?», domandò il passeggero, quindi, con voce dolce e tremebonda. «Chi mi vuole? Sei tu, Jerry?» («Non mi piace la voce di Jerry, se è Jerry», brontolò fra sé il conduttore. «È più rauco di quanto mi vada a genio, questo Jerry.»)

    «Sì, signor Lorry.»

    «Che c’è?»

    «Un dispaccio per voi di là. Da T. e Compagni.»

    «Conduttore, io conosco questo messaggero», disse il signor Lorry, scendendo sulla strada, aiutato con maggiore prontezza che cortesia dagli altri due, che entrarono immediatamente nella diligenza, chiusero lo sportello, e alzarono il finestrino. «Si può fare avvicinare; non v’è alcun timore.»

    «Lo spero, ma non si è mai sicuri», disse il conduttore, in sdegnoso soliloquio. «Ehi, tu?»

    «Bene, dunque?», disse Jerry, più rauco che mai.

    «Vieni avanti al passo! Hai capito? E se hai delle fondine alla sella, bada di non avvicinarvi la mano. Io sono un diavolo se sbaglio, e i miei sbagli prendono la forma del piombo. Vediamo, dunque, chi sei.»

    La figura d’un cavallo e d’un cavaliere lentamente s’avanzarono, entro la nebbia che si faceva più rada, verso il fianco della diligenza ov’era ritto il passeggero. Il cavaliere s’inchinò, e, levando gli occhi al conduttore, consegnò al passeggero un foglietto piegato. Il cavallo era senza fiato, e lui e il cavaliere erano coperti di fango, dagli zoccoli al cappello.

    «Conduttore!», disse il passeggero, nel tono tranquillo di chi attende a una faccenda normale.

    Il vigile conduttore con la destra sul calcio del trombone sollevato, la sinistra alla canna e l’occhio sul cavaliere, rispose con accento brusco: «Signore!».

    «Non v’è nulla da temere. Io appartengo alla banca Tellson. Voi dovete conoscere la banca Tellson di Londra. Io vado a Parigi per affari. Una corona di mancia: posso leggere questo biglietto?»

    «Se mai, fate presto.»

    Il passeggero lo aprì alla luce del fanale di quel lato, e lesse, prima in silenzio e poi forte: «Aspettate la signorina a Dover. Vedete, conduttore, non è lungo, Jerry, di’ che la mia risposta è stata: Resuscitato»

    Jerry sussultò sulla sella: «La più strana risposta», disse con la sua voce più rauca.

    «Riporta indietro il biglietto, e si saprà che io l’ho ricevuto, meglio che se avessi scritto. Cerca la via migliore. Buona notte.»

    Con queste parole il passeggero aprì lo sportello della diligenza ed entrò; senza alcuna assistenza dei compagni di viaggio, che avevano in fretta nascosto gli orologi e le borse negli stivali, e in quel momento facevano finta di dormire. Senz’altro scopo definito che di sfuggire al rischio di dover fare qualunque altra specie di movimento.

    La diligenza, cinta da gravi ghirlande di nebbia, si mise di nuovo in moto per la discesa. Il conduttore rimise subito il trombone nell’apposita cassetta, e dopo aver osservato tutto ciò ch’essa conteneva, e aver mirato le altre pistole che portava incastrate alla cintola, guardò una cassetta più piccola sotto il sedile, nella quale v’erano pochi strumenti da fabbro, un paio di fiaccole e la pietra con l’acciarino. Era fornito di tutto l’occorrente, perché nel caso che il vento avesse spento i fanali, cosa che accadeva di tanto in tanto, non c’era che da chiudersi dentro la diligenza, badar che le scintille della pietra focaia e dell’acciarino non s’appiccassero alla paglia, per procacciarsi un lume con abbastanza sicurezza e facilità (ad aver fortuna) nel breve termine di cinque minuti.

    «Maso!», si udì sottovoce dall’imperiale della diligenza.

    «Ehi, Giuseppe.»

    «Hai sentito la notizia?»

    «Certo!»

    «Hai capito qualcosa, Maso?»

    «Un bel nulla, Giuseppe.»

    «Una bella combinazione», meditò il conduttore, «perché anch’io non ci ho capito un bel nulla.»

    Jerry, lasciato solo nella nebbia e nella tenebra, era smontato, intanto, non solo per far riposare il cavallo esausto, ma per tergersi il fango dal viso e scuoter l’acqua dalle falde del cappello, capaci di contenerne un boccale. Dopo esser rimasto con le briglie sul braccio tutto inzaccherato, appena non s’udì più lo strepito delle ruote e la notte si rifece silenziosa, si voltò e s’avviò per la discesa.

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