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Delitto e castigo
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E-book753 pagine13 ore

Delitto e castigo

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Info su questo ebook

“Delitto e castigo”, il romanzo più famoso di Dostoevskij, e uno dei capolavori della letteratura mondiale, narra le vicende del giovane Raskolnikov, sullo sfondo cupo e claustrofobico di una Pietroburgo degradata che diviene l’immagine esterna della desolazione interiore che abita i personaggi. Raskolnikov divide il mondo in due categorie di uomini: da una parte gli “uomini superiori” che possono stare al di là di ogni valore costituito, e dall’altra gli uomini ordinari. Lui, appartenendo alla seconda, compie un gesto estremo per dimostrare al mondo di essere un “uomo superiore”, salvo poi subire le terribili conseguenze del suo gesto e accettare la sofferenza (il castigo) che ne deriva. Nel romanzo sono tre i filoni narrativi che si intrecciano: (la vita di Raskolnikov, le vicende dei Marmeladov e le vicende sentimentali di Dunja, sorella del protagonista) e che vanno a comporre il primo grande romanzo polifonico di Dostoevskij.
LinguaItaliano
Data di uscita27 lug 2020
ISBN9788831372138

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    Anteprima del libro

    Delitto e castigo - Fëdor Dostoevskij

    Frontespizio

    Fëdor Dostoevskij

    Delitto e castigo

    ebook

    (edizione integrale)

    Titolo originale: Prestuplénie i nakazànie

    Traduzione a cura di Claudio Carini

    (traduzione effettuata da una edizione di pubblico dominio in lingua francese)

    Colophon

    ©2018 audiolibro - ©2020 Ebook - Diritti riservati

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata

    RECITAR LEGGENDO EDIZIONI

    www.recitarleggendo.it

    ISBN Ebook: 978-88-31372-13-8

    Copertina a cura di Giuseppe Rossi

    La versione in audiolibro di questo testo può essere reperita presso:

    Recitar Leggendo Audiolibri

    https://www.recitarleggendo.it/072delitoecastigo

    Indice

    Presentazione

    Fëdor Dostoevskij

    Delitto e castigo

    Parte prima

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    Parte seconda

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    Parte terza

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Parte quarta

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    Parte quinta

    1

    2

    3

    4

    5

    Parte sesta

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    Epilogo

    1

    2

    Presentazione

    Recitar Leggendo Audiolibri è una iniziativa editoriale indipendente nata nel 2004 e curata da Claudio Carini, attore di prosa con oltre quarant’anni di esperienza nel campo della lettura ad alta voce. Da questa vasta esperienza nasce la linea editoriale della Casa Editrice, prevalentemente dedicata ai grandi classici: Ariosto, Dante, Boccaccio, Petrarca, Leopardi, Omero, oltre a quei moderni che sono ormai anch’essi dei grandi classici, come Calvino, Verga, Svevo, Pirandello.

    Con lo scopo di diffondere ulteriormente le opere immortali dei grandi classici, e per dare la possibilità di seguire il testo durante l’ascolto del relativo audiolibro, Recitar Leggendo ha avviato una collana di ebook le cui traduzioni sono pensate per la lettura ad alta voce. Tutti i testi della collana ebook, infatti, sono disponibili anche in audiolibro, sia in formato CDmp3 (nelle migliori librerie) che in formato download (scaricabile dai più importanti portali di audiolibri).

    Per conoscere il mondo Recitar Leggendo visita il sito:

    www.recitarleggendo.it

    Email: info@recitarleggendo.com

    Fëdor Dostoevskij

    (Mosca, 11 novembre 1821 – San Pietroburgo, 9 febbraio 1881)

    Fëdor Michajlovic Dostoevskij, rimasto orfano della madre all’età di 16 anni, viene iscritto dal padre alla scuola del genio militare di Pietroburgo. Ma il giovane Fëdor, seguendo le sue attitudini letterarie, una volta ottenuto il diploma, rinuncia alla carriera militare per iniziare il lavoro di scrittore. Da più parti arrivano critiche incoraggianti alla sua prima opera: Povera gente che vede la luce nel 1846. Già fin da questo primo lavoro, lo scrittore sviluppa uno dei temi principali della successiva produzione: la sofferenza per l’uomo socialmente degradato e incompreso. Il suo secondo romanzo: Il sosia tratta della storia di uno sdoppiamento psichico che non ottiene però il consenso del primo romanzo. Successivamente pubblica su riviste alcuni racconti e romanzi brevi, tra i quali Le notti bianche.

    Il 23 aprile 1849 viene arrestato per partecipazione a società segreta con scopi sovversivi e imprigionato nella fortezza di Pietro e Paolo. In realtà, Dostoevskij aveva partecipato ad alcune riunioni non come attivista, ma come semplice uditore. Il 16 novembre dello stesso anno, insieme ad altri venti imputati viene condannato alla pena capitale tramite fucilazione, ma incredibilmente il 19 dicembre lo zar Nicola I commuta la condanna a morte in lavori forzati a tempo indeterminato. La revoca della pena capitale viene comunicata allo scrittore quando è già sul patibolo. Questo avvenimento lo segnerà per tutta la vita. Al trauma della mancata fucilazione vanno associate le sue ricorrenti crisi di epilessia.

    Verso l’inizio degli anni ‘60 dell’800 Dovstoevskij inizia un’attività giornalistica soggetta ad alterne fortune. Proprio in quel periodo la sua vita privata è costellata da ripetute disgrazie; nel 1864 muore la sua prima moglie e, poco dopo il fratello Michail, che gli lascia ingenti debiti da pagare. Nel 1866 scrive il suo capolavoro: ‘Delitto e castigo’, e l’anno successivo sposa la sua stenografa. Nel 1867 compie un lungo viaggio in Europa, a Firenze, dove comincia a scrivere L’idiota storia della sconfitta di un uomo «assolutamente buono». Tornato in Russia, pubblica nel 1873 ‘I demoni’. Tra il 1879 e il 1870 scrive ‘I fratelli Karamazov’, il suo romanzo più imponente e forse più ricco di drammaticità e moralità. Il romanzo ottiene subito un enorme successo. Lo scrittore è ormai famoso quando muore improvvisamente 9 febbraio 1881.

    È considerato, insieme a Tolstoj, uno dei più grandi romanzieri e pensatori russi di tutti i tempi. A lui è intitolato il cratere Dostoevskij sulla superficie di Mercurio.

    Delitto e castigo

    Delitto e castigo, uno tra i più grandi capolavori della letteratura mondiale, narra le vicende del giovane Raskolnikov, sullo sfondo cupo e claustrofobico di una Pietroburgo degradata che diviene l’immagine esterna della desolazione interiore che abita i personaggi. Raskolnikov divide il mondo in due categorie di uomini: da una parte gli uomini superiori che possono stare al di là di ogni valore costituito, e dall’altra gli uomini ordinari. Lui, appartenendo alla seconda, compie un gesto estremo per dimostrare al mondo di essere un uomo superiore, salvo poi subire le terribili conseguenze del suo gesto e accettare la sofferenza (il castigo) che ne deriva. Nel romanzo sono tre i filoni narrativi che si intrecciano: (la vita di Raskolnikov, le vicende dei Marmeladov e le vicende sentimentali di Dunja, sorella del protagonista) e che vanno a comporre il primo grande romanzo polifonico di Dostoevskij.

    Parte prima

    1

    In una caldissima sera del mese di luglio, un giovane uscì dalla stanzetta che aveva preso in affitto nel vicolo S., scese nella strada e lentamente, come esitando, si diresse verso il ponte K.

    Scendendo le scale ebbe la fortuna di non incontrare la padrona di casa. La sua stanzetta si trovava proprio nel sottotetto di un edificio alto cinque piani, e sembrava più un armadio che una stanza. La signora che gliela aveva affittata, vitto e servizi compresi, abitava in un appartamento al piano di sotto, e ogni volta che voleva uscire lui era costretto a passare davanti alla cucina della padrona, che aveva la porta quasi sempre spalancata sulle scale. Il giovane era costantemente in arretrato con l’affitto, e ogni volta che passava davanti a quella porta provava una sensazione morbosa di paura e di vergogna che gli faceva incupire il volto.

    Non aveva un carattere timido e non era neanche un vigliacco, ma da un po’ di tempo era piuttosto teso e irritabile, molto vicino all’ipocondria. Si era talmente chiuso in sé stesso e isolato che non voleva incontrare nessuno, tanto meno la padrona di casa. Era poverissimo; eppure, negli ultimi tempi, non gli pesavano più nemmeno le ristrettezze. Aveva smesso completamente di occuparsi dei problemi quotidiani, ed era deciso a continuare così. In fondo non gli importava nulla della padrona di casa e di quello che poteva fare contro di lui. Ma non sopportava l’idea di essere fermato sulle scale e di essere costretto ad ascoltare chissà quante stupidaggini, le richieste insistenti di pagare l’affitto e tutte le minacce e le lamentele che lo avrebbero obbligato a scusarsi, a mentire… no, no: meglio sgattaiolare giù per le scale senza farsi vedere da nessuno.

    Arrivato in strada si stupì di tutta quella paura e pensò sorridendo: «È mai possibile che mi spaventi per simili sciocchezze quando ho in mente dei progetti così ambiziosi? Mmh... già... Tutto è nelle mani dell’uomo, e per vigliaccheria l’uomo si lascia sfuggire tutto dalle mani... Questo è un assioma... Che strano! Chissà di che cosa ha paura la gente? Forse la gente ha paura delle novità, delle parole nuove... Ma io chiacchiero troppo. Non concludo mai niente proprio perché parlo troppo. Anche se, in fondo, si può dire anche che parlo tanto perché non concludo niente.

    In questo ultimo mese non ho fatto altro che a dar voce ai miei pensieri, standomene sdraiato in un angolo per giorni e giorni... E adesso perché sto andando là? Sono davvero capace di fare questa cosa? Ed è forse una cosa seria, questa? Non è seria per niente. Perdo tempo con le mie fantasie, così, tanto per distrarmi! Ma sì, forse non faccio altro che giocare!»

    Faceva un caldo tremendo e c’era anche una gran calca; c’erano dappertutto impalcature, mattoni, calcina, polvere, e quel tipico tanfo estivo così familiare ai Pietroburghesi che non possono permettersi di affittare una casa in campagna. Tutto questo innervosì molto il giovane, il quale già di per sé aveva i nervi abbastanza scossi. Lo squallore era completato dall’insopportabile puzzo delle tante bettole che c’erano in quella zona, e dagli ubriachi che, nonostante fosse ancora giorno, gli si mettevano sempre in mezzo. Una smorfia di fastidio si disegnò sul volto del giovane che era decisamente bello con i suoi lineamenti fini, gli occhi scuri, la figura slanciata e più alta della media. Ma presto egli cadde come in una profonda meditazione che avrebbe potuto essere scambiata per una sorta di torpore, e continuò a camminare senza fare più caso a quanto lo circondava. Solo di tanto in tanto borbottava qualcosa tra sé, per quell’abitudine al monologo che si era riconosciuta poco prima. Si rendeva conto che i suoi pensieri si in garbugliavano, forse anche a causa della sua estrema debolezza, dato che erano già due giorni che quasi non toccava cibo.

    Era vestito in modo così trasandato che anche uno abituato a vestire sempre male si sarebbe vergognato di farsi vedere in giro con quegli stracci. D’altra parte, in quel quartiere la gente non faceva molto caso ai vestiti degli altri. La vicinanza della piazza del mercato, le tante bettole e il fatto che in quella zona ci fossero per lo più operai e artigiani che si ammassavano in quelle vie e in quei vicoli del centro di Pietroburgo, facevano sì che nessun incontro potesse risultare strano o sorprendente. In ogni modo il giovane aveva accumulato in sé tanto di quel disprezzo che, nonostante il suo carattere ombroso, non si vergognava affatto di farsi vedere vestito a quel modo. Certo, avrebbe preferito non imbattersi con qualche conoscente o qualche vecchio amico, persone che normalmente evitava di incontrare. Tuttavia, quando gli passò accanto un ubriaco che si trovava, chissà come e perché, sopra un enorme carro trainato da un gigantesco cavallo da tiro, e questo gli gridò all’improvviso additandolo: «Ehi, tu, cappellone tedesco!» - il giovane si fermò di colpo afferrando istintivamente il suo cappello. Era un cappello alto a forma di cilindro, alla Zimmerman, talmente vecchio e rovinato che aveva preso un colore rossastro, tutto bucherellato e pieno di macchie, senza più falde e piegato da un lato in modo indecente. Non provò vergogna, ma un sentimento molto diverso, qualcosa di simile allo sgomento. E borbottò turbato:

    «Lo sapevo, io! Ci avrei giurato! È la cosa peggiore che potrebbe capitare! Sono proprio sciocchezze come questa che possono rovinare tutto. Questo cappello da troppo nell’occhio... È talmente ridicolo che si vede lontano un miglio... Con questi stracci che ho addosso si abbina meglio un berretto qualunque, non questo orrore che mi sono messo sul capo. Roba così non la porta più nessuno. E la cosa più grave è che tutti se ne ricorderanno, rappresenterà un primo indizio. Bisogna passare il più possibile inosservati, sono i dettagli che contano... sono proprio i piccoli particolari di solito a rovinare tutto...»

    Aveva poca strada da fare; sapeva perfino quanti passi c’erano dal portone di casa sua: esattamente settecentotrenta. Li aveva contati, un giorno in cui ci aveva fantasticato sopra parecchio. A quell’epoca non immaginava ancora neanche lontanamente che un giorno sarebbe passato all’azione, si limitava ad accarezzare quel sogno spaventoso, pur continuando ad abbandonarsi ai suoi monologhi a proposito della sua indecisione e della sua incapacità di agire. In un certo senso si era convinto che stava andando a fare una specie di prova generale e quindi la sua agitazione aumentava ad ogni passo.

    Con il cuore in subbuglio, e scosso da un tremito, si avvicinò a un enorme fabbricato, che dava da un lato su uno stretto canale e dall’altro sulla via. Era un edificio composto di piccoli appartamenti, abitati da artigiani, sarti, falegnami, cuoche, diversi tedeschi, ragazze che vivevano per conto proprio, piccoli impiegati e così via. Era un continuo andirivieni di gente attraverso i due portoni e nei due cortili dell’edificio. C’erano tre o quattro portieri; il giovane fu molto contento di non incontrarne nessuno, e senza farsi vedere sgattaiolò subito via verso destra, su per la scala buia e stretta che lui aveva già studiato in precedenza e la cosa gli andava a genio perché in quel buio nessuno avrebbe potuto riconoscerlo. «Se ho tutta questa paura adesso, cosa farò se un giorno dovessi effettivamente passare all’ azione?...» pensò senza volerlo, avvicinandosi al quarto piano. Qui gli ostruirono il passaggio alcuni soldati in congedo, che si erano improvvisati facchini, e stavano trasportando dei mobili fuori da un appartamento. Lui sapeva che in quell’appartamento viveva un tedesco - un impiegato - con la sua famiglia, e prima di suonare alla porta della vecchia pensò: «Il tedesco sta traslocando, e quindi, al quarto piano, su questa scala e su questo pianerottolo, per un po’ di tempo, l’unico appartamento occupato sarà quello della vecchia. Meglio così… non si sa mai...» Il campanello trillò debolmente, come se fosse di latta e non di bronzo; in quelle case i campanelli sono quasi sempre così. Lui non si ricordava di quel suono, e fu come se quel trillo particolare gli ricordasse con chiarezza qualcosa... Aveva i nervi talmente scossi che fu preso da un tremito. Dopo una breve attesa, la porta si aprì a metà e da quella stretta apertura la padrona di casa lo esaminò con i suoi occhietti inquieti, che in quella oscurità sembravano due puntini luminosi. Ma, vedendo altra gente sul pianerottolo, si rassicurò e spalancò la porta. Il giovane si ritrovò in un’anticamera buia divisa in due da un tramezzo, dietro al quale stava un cucinino. La vecchia gli stava ritta davanti e lo guardava con aria interrogativa. Lei era piccola, ossuta, col naso appuntito, avrà avuto una sessantina d’anni e i suoi occhi avevano un’espressione cattiva. Era a testa scoperta e i suoi capelli, già grigi, erano spalmati di grasso. Aveva il collo lungo e sottile, avvolto in uno straccio di flanella, e nonostante il caldo, aveva sulle spalle una pelliccia giallastra tutta spelacchiata. Tossiva e gemeva continuamente. Il giovane doveva averla guardata in un modo strano, perché negli occhi di lei ricomparve un’espressione diffidente. Ricordandosi che doveva apparire il più amabile possibile, lui si affrettò a fare un mezzo inchino e disse:

    «Sono uno studente e mi chiamo Raskòlnikov; sono stato da voi un mese fa.»

    «Ricordo, bàtjuška, ricordo bene,» disse la vecchia continuando a fissarlo con aria sospettosa.

    «E così... sono tornato per un altro affaruccio...» continuò Raskòlnikov, un po’ turbato e sorpreso da tutta quella diffidenza, e pensava:

    «Forse lei è sempre stata così, e magari l’altra volta non me n’ero accorto.»

    La vecchia rimase qualche istante in silenzio, come se riflettesse, poi si fece da parte e gli indicò una porta, dicendo:

    «Entrate, bàtjuška

    Entrò in una piccola stanza tappezzata di giallo, con gerani e tendine di mussola alle finestre, tutta illuminata dalla luce de tramonto, e in quel momento pensò, come per caso: «Anche allora, dunque, il sole splenderà così!...»; diede una rapida occhiata a tutta la stanza, per potersela ricordare bene. Ma, per la verità, non c’era nulla di particolare. I mobili, tutti molto vecchi e di legno giallo, consistevano in un divano dall’enorme spalliera convessa, un tavolo ovale davanti al divano, una pettiniera con un piccolo specchio messa vicino al muro tra le due finestre, qualche sedia lungo le pareti e due o tre stampe da quattro soldi, incorniciate di giallo, raffiguranti fanciulle tedesche che reggevano in mano degli uccellini. Tutto qui. In un angolo, davanti a una piccola icona, ardeva una lampada. Era tutto molto pulito, il pavimento, i mobili, tutto luccicava. «Opera di Lizavèta!» pensò il giovane. In tutto l’appartamento non si sarebbe potuto trovare un solo granello di polvere. «Le case delle vedove vecchie e cattive sono sempre molto pulite,» pensò ancora Raskòlnikov, e, incuriosito, diede un’occhiata alla tenda di cotonina che stava davanti alla porta che dava su una seconda, piccolissima camera, dove c’erano il letto e il cassettone della vecchia e dove lui non aveva ancora mai potuto gettare lo sguardo. Tutto l’appartamento era in quelle due stanze.

    «Che cosa volete?» disse con aria burbera la vecchietta, entrando nella stanza e piantandosi, come prima, proprio davanti a lui, e guardandolo dritto in faccia.

    «Ho portato una cosa in pegno, ecco qua!» e si cavò di tasca un vecchio e piatto orologio d’argento che sulla cassa aveva inciso un globo. La catenella era d’acciaio.

    «Ma il pegno dell’altra volta è scaduto. Il mese è finito da due giorni.»

    «Vi pagherò gli interessi per un altro mese; abbiate pazienza.»

    « Bà tjuška io sono libera di vendere il vostro oggetto fin da questo momento, se voglio.»

    «E quanto mi date per l’orologio, Aléna Ivànovna?»

    «Voi mi portate sempre cianfrusaglie di poco valore. L’ultima volta, per quell’anellino, ho sborsato due biglietti, ma si può comprare nuovo dal gioielliere per un rublo e mezzo.»

    «Datemi quattro rubli, lo riscatterò, è di mio padre. Presto avrò dei soldi.»

    «Un rublo e mezzo, e gli interessi anticipati, prendere o lasciare.»

    «Come?... Un rublo e mezzo!» esclamò il giovane.

    «Se non volete...» E la vecchia gli restituì l’orologio. Lui lo prese, talmente arrabbiato che voleva andarsene via, ma cambiò idea, ricordando che non sapeva più dove andare e che non era andato lì solo per il pegno.

    «Date qua!» disse sgarbatamente.

    La vecchia cercò le chiavi in tasca e andò nell’altra camera, dietro la tenda. Rimasto solo in mezzo alla stanza, il giovane tendeva l’orecchio e rifletteva. Sentì aprire il cassettone, e pensò: «Dev’essere il primo cassetto, lei, dunque, tiene le chiavi nella tasca di destra... tutte in un mazzo, con un anello di acciaio... E una delle chiavi è più grossa di tutte le altre, almeno di tre volte ed è dentellata; non può essere del cassettone... Quindi dev’esserci anche un baule o una cassaforte... Ecco una cosa interessante... tutti i bauli hanno delle chiavi così... Ma come è ignobile tutto questo...»

    La vecchia tornò.

    «Ecco qua, bàtjuška: calcolando dieci copeche al mese per rublo, per un rublo e mezzo mi dovete pagare un mese anticipato quindici copeche. Poi, facendo lo stesso conto, per i due rubli dell’altra volta mi dovete dare venti copeche. In tutto, quindi, fanno trentacinque copeche. Quindi, per il vostro orologio vi spettano un rublo e quindici copeche. Eccoli, prendete.»

    «Ma come! Soltanto un rublo e quindici copeche!»

    «Proprio così.»

    Il giovane non stette a discutere e prese il denaro. Guardava la vecchia e non si decideva a uscire, come se volesse ancora dire o fare qualcosa, ma non sapesse nemmeno lui che cosa...

    «Aléna Ivànovna, forse tra pochi giorni vi porterò ancora un oggetto... d’argento... Un bel portasigarette... appena me lo restituirà un amico...» Si confuse e tacque.

    «Ne parleremo quando me lo porterete, bàtjuška.»

    «Addio... Voi ve ne state sempre sola in casa, vostra sorella non c’è?» domandò con la maggior disinvoltura possibile, passando nell’anticamera.

    «E a voi che ve ne importa di lei?»

    «Dicevo così, tanto per dire... e voi, subito... Addio, Aléna Ivànovna!»

    Uscendo, Raskòlnikov era in preda ad un turbamento che aumentava sempre più. Scendendo le scale si fermò varie volte come per qualche pensiero improvviso. Una volta in strada, esclamò:

    «Dio mio! Com’è disgustoso tutto questo! Ma è possibile, possibile che io... No, è assurdo, una vera assurdità!» disse con decisione. «Come ho potuto mettermi in testa un’idea così orribile! Come posso essere così infame, lurido, schifoso, abietto, abietto! E pensare che per tutto il mese io...»

    Ma non riusciva a esprimere a parole tutto il suo turbamento. Quel senso di infinito disgusto, che aveva cominciato a opprimere e assillare il suo cuore fin dal momento in cui stava andando dalla vecchia, ora aveva preso tali proporzioni, si era svelato in modo così evidente, che non sapeva più come sfuggire alla propria angoscia. Camminava sul marciapiede barcollando come un ubriaco, senza accorgersi dei passanti, urtandoli; e ritornò in sé solo quando aveva cambiato strada. Si guardò intorno e vide una bettola lì vicino, per entrare nella quale bisognava scendere una scala fino a un interrato. Proprio in quel momento stavano uscendo dalla porta due ubriachi, che sostenendosi tra loro e insultandosi risalivano sulla strada. Senza pensarci due volte, Raskòlnikov scese giù. Non aveva mai messo piede in una bettola, ma adesso gli girava la testa, e aveva una gran sete. Aveva voglia di una birra fredda, anche perché pensava che tutta quella debolezza improvvisa fosse dovuta alla fame. Si accomodò in un angolo scuro e sporco, davanti a un tavolino tutto appiccicoso, ordinò della birra e bevve con avidità il primo bicchiere. Si sentì subito meglio e con le idee più chiare, e si disse con fiducia: «Sono tutte sciocchezze, non c’è motivo di agitarsi! Mi sono solo sentito poco bene, tutto qua! Basta un bicchiere di birra, un pezzo di biscotto, e in un attimo, la mente recupera le forze, le idee si schiariscono, i propositi si rinsaldano!» Aveva già un’aria allegra, come se si fosse liberato improvvisamente di un qualche peso, e si mise a guardare con aria amichevole i presenti. Ma sentiva che quell’improvviso ottimismo aveva qualche cosa di innaturale

    A quell’ora c’era poca gente nella bettola. Dopo i due ubriachi nei quali s’era imbattuto sulla scala, era uscita tutta una brigata di cinque uomini con una ragazza e una armonica. Una volta usciti, il locale piombò nel silenzio. Erano rimasti: un tale seduto davanti alla sua birra, già leggermente brillo, che a giudicare dall’aspetto poteva essere un piccolo borghese; il suo compagno, un tipo grasso, enorme, con una gran palandrana e la barba bianca, completamente sbronzo, che sonnecchiava sulla panca e che ogni tanto, all’improvviso, si metteva a schioccare le dita, ad allargare le braccia e a saltellare con la parte superiore del corpo senza alzarsi dalla panca, canticchiando una stupida canzoncina di cui ricordava a malapena i versi, come per esempio:

    Accarezzò la moglie per un anno intero,

    Oppure, di colpo, svegliandosi di nuovo:

    Per la Podjàèeskaja s’avviò,

    la sua bella di un tempo vi incontrò...

    Ma nessuno condivideva la sua allegria; il suo taciturno compagno guardava tutti quegli scatti con ostilità e diffidenza. C’era anche un altro tipo, il cui aspetto poteva essere quello di un funzionario in pensione. Se ne stava seduto in disparte, davanti al suo bicchiere, bevendo un sorso ogni tanto e guardandosi intorno. Anche lui sembrava piuttosto agitato.

    2

    Raskòlnikov non era abituato alla folla, anzi, come si è già detto, negli ultimi tempi non amava la compagnia. Ma ora, improvvisamente, si sentiva attratto dalle persone. Era come se in lui ci fosse qualcosa di nuovo; provava un forte desiderio di compagnia. Era stanco di quel mese passato in quella tetra ed angosciosa solitudine e aveva voglia di un po’ di aria nuova, di ambienti nuovi, qualunque essi fossero; e si tratteneva con piacere in quella bettola, nonostante fosse così squallida.

    Il padrone del locale stava in un’altra stanza, ma veniva spesso in quella principale, scendendo da una scaletta; la prima cosa che si notava erano i suoi eleganti stivali ingrassati, con grandi risvolti rossi. Indossava una palandrana e un panciotto di raso nero, unto e bisunto; era senza cravatta e aveva il volto spalmato d’olio come una serratura. Dietro il banco stavano un ragazzetto sui quattordici anni e un altro più giovane, che serviva ai tavoli. C’erano cetrioli affettati, biscotti scuri e pesce tagliato a pezzettini; il tutto mandava un pessimo odore. Si soffocava, al punto che non si poteva stare a lungo seduti, e ci si poteva ubriacare soltanto a respirare quel tanfo di vino.

    Capita, a volte, di incontrare degli sconosciuti che ci interessano improvvisamente fin dal primo sguardo, anche prima di scambiare una sola parola. Raskòlnikov ebbe proprio un’impressione del genere nei confronti del cliente che sedeva un po’ in disparte e somigliava a un funzionario a riposo. Il giovane, in seguito, ricordò più volte quella prima impressione, alla quale diede quasi il significato di una premonizione. Continuava a guardare in direzione del funzionario, anche perché questi, a sua volta, lo guardava fisso e si intuiva che aveva una gran voglia di attaccar discorso. L’impiegato guardava invece gli altri ch’erano nella bettola, compreso il padrone, come se fosse abituato a vederli, con un’aria nello stesso tempo annoiata e altezzosa come se si trattasse di persone di condizione e di mentalità inferiore, con le quali, secondo lui, non valeva la pena di parlare. Era un uomo che aveva già passato la cinquantina, di media statura, robusto, brizzolato e con una vasta calvizie; il suo volto era gonfio a causa della costante ubriachezza, giallo, quasi verdastro, e sotto le palpebre gonfie luccicavano due occhietti arrossati, stretti come fessure ma pieni di vita. Aveva qualcosa di molto strano; nel suo sguardo brillava come una sorta di fervore misto a intelligenza, insieme però ad una luce di follia. Indossava una vecchia marsina nera, tutta rattoppata e ormai senza bottoni. Ne restava attaccato solo uno, e lui lo teneva allacciato, non rinunciando, evidentemente, alle buone abitudini. Dal panciotto di cotone sporgeva un davanti della camicia tutto sgualcito, unto e pieno di macchie. Aveva il volto rasato al modo degli impiegati, ma non era rasato di fresco, tanto che cominciava a spuntargli una peluria grigiastra. Anche nei suoi modi traspariva un’attitudine burocratica. Sembrava però un tipo molto inquieto, a volte si arruffava i capelli, e a volte, come preso dalla malinconia, appoggiava il capo alle mani, con i gomiti appoggiati sulla tavola sporca e appiccicosa. Finalmente, guardò dritto in faccia Raskòlnikov e disse con voce alta e ferma:

    «Sono forse indiscreto se oso entrare in conversazione con voi, illustrissimo signore? Malgrado il vostro modo semplice di vestire, la mia esperienza mi fa riconoscere in voi un uomo istruito. Io ho sempre apprezzato l’istruzione unita ai buoni sentimenti. Sappiate inoltre che io sono un consigliere titolare. Il mio cognome è Marmelàdov, consigliere titolare. Posso chiedervi se siete mai stato funzionario?»

    «No, sono uno studente...» rispose il giovane, abbastanza stupito sia dal tono retorico del discorso, sia dal modo così diretto con cui era stato interpellato. Quel fugace desiderio di poco prima di avere contatti con la gente, sparì subito appena quell’estraneo si rivolse a lui, e provò subito quel sentimento di irritazione e repulsione verso qualsiasi estraneo che mostrasse l’intenzione di entrare in contatto con lui. Il funzionario esclamò:

    «Uno studente, quindi, o forse ex studente? Proprio come pensavo! Esperienza, egregio signore, una lunga esperienza!» e in segno di vanto si toccò con un dito la fronte. «Siete stato studente o avete già frequentato una facoltà! Ma permettete...» Si alzò barcollando, prese il vassoio, il bicchiere e si sedette un po’ di traverso, al tavolo del giovane. Era alquanto brillo, ma parlava scioltamente e con proprietà di linguaggio, confondendosi solo di tanto in tanto in certi punti e perdendo il filo del discorso. Si era gettato su Raskòlnikov quasi con irruenza, come se non avesse parlato con nessuno per un mese intero. E cominciò, quasi solennemente:

    «Egregio signore, la povertà non è vizio, e questo è vero. So che anche l’ubriachezza non è una virtù, ed è ancor più vero. Ma la miseria, egregio signore, la miseria è un vizio. In condizioni di povertà si può conservare intatta la nobiltà dei propri sentimenti, ma nella miseria nessuno ci può riuscire. Quando si è precipitati nella miseria non si viene nemmeno buttati fuori a bastonate, ma si viene semplicemente spazzati via da ogni consorzio umano con la scopa, per aggravare l’offesa; ed è giusto così, perché nella miseria nera io per primo sono pronto a offendere me stesso. Ecco perché tanta gente si dà al bere! Egregio signore, circa un mese fa il signor Lebezjàtnikov ha picchiato la mia consorte, e la mia consorte è molto diversa da me, capite? Permettetemi inoltre di domandarvi, così, per semplice curiosità: vi è mai capitato di passare la notte sulla Neva, sui barconi da fieno?»

    «No, non mi è mai capitato,» rispose Raskòlnikov. «Che volete dire?»

    «Ebbene, io vengo da là, ed è già la quinta notte...»

    Si riempì il bicchierino, bevve e si fece pensieroso. Effettivamente, qua e là si vedeva della paglia sul suo vestito e perfino tra i suoi capelli. Probabilmente non si cambiava e non si lavava da cinque giorni. Le mani, in particolare, erano sudice, unte, arrossate, con le unghie nere.

    Quel suo discorso sembrava aver risvegliato l’attenzione generale, anche se controvoglia. Dietro il banco i ragazzi si misero a ridacchiare. Il padrone sembrava che fosse sceso apposta dal piano di sopra per ascoltare quel tipo stravagante, e si sedette un po’ in disparte, sbadigliando pigramente, ma con una certa gravità. Si vedeva che Marmelàdov, da quelle parti, era piuttosto popolare. E probabilmente quel suo modo di parlare alquanto lambiccato derivava dalle frequenti chiacchierate in quella bettola con degli sconosciuti. In certi bevitori abituali questa abitudine diventa una necessità, in special modo per quelli che in famiglia vengono maltrattati. Proprio per questo, quando sono in compagnia di altri bevitori fanno di tutto per conquistarsi l’approvazione e la stima degli altri.

    Il padrone gli disse ad alta voce:

    «Di’ un po’, buontempone. E perché non lavori, perché non vai in ufficio, se sei un funzionario?»

    «Perché non vado in ufficio, egregio signore?» ribatté Marmelàdov, rivolgendosi a Raskòlnikov, quasi fosse stato lui a chiederglielo, «perché non vado in ufficio? Credete forse che il cuore non mi pianga per questo mio inutile vagabondare? Quando un mese fa il signor Lebezjàtnikov picchiò con le sue mani la mia consorte, e, io stavo buttato da qualche parte ubriaco fradicio, credete che non ne abbia sofferto? Perdonate, giovanotto, vi è mai capitato... ehm... anche solo di chiedere soldi in prestito senza speranza?»

    «Sì, mi è capitato... ma come sarebbe a dire senza speranza?»

    «Cioè, completamente senza speranza, sapendo già da subito che non si otterrà nulla. Ecco, per esempio voi sapete già da prima e con assoluta certezza che un tipo, un rispettabilissimo cittadino non vi darà neanche un soldo; e perché poi, mi domando, dovrebbe darvene? Tanto, sa benissimo che non glieli restituirete. Forse per compassione? Ma il signor Lebezjàtnikov, sempre al passo con le idee nuove, spiegava proprio l’altro giorno che ai nostri tempi la compassione è perfino proibita dalla scienza, e che così si sta facendo in Inghilterra, dove c’è l’economia politica. E dunque io mi domando: perché mai dovrebbe darvene? Ebbene, pur sapendo in anticipo che non vi darà nulla, voi tuttavia vi mettete in cammino e...»

    «Ma perché andarci?» interruppe Raskòlnikov.

    «Ma perché non sapete a chi rivolgervi! Ognuno dovrà pur avere un posto dove andare. Poiché in certi momenti bisogna assolutamente avere un posto dove andare! Quando la mia unica figlia andò la prima volta a farsi iscrivere alla polizia, anch’io andai... Perché mia figlia vive col biglietto giallo...» egli aggiunse come tra parentesi, guardando il giovane con una certa inquietudine. «Non è nulla, egregio signore, non è nulla!» s’affrettò a dichiarare apparentemente con calma, quando i due ragazzi scoppiarono a ridere dietro il banco e perfino il padrone accennò un sorriso. «Non è nulla! Questo crollare di teste mi confonde le idee, tutti sanno tutto e i segreti vengono sempre a galla, prima o poi, e io considero tutto questo non con disprezzo, ma con rassegnazione. Ebbene: sia pure! ‹Ecce homo!› Permettete, giovanotto: potete voi... Ma no, per esprimermi in modo più efficace: non: potete voi, ma: oserete voi, guardandomi in questo momento, affermare che io non sono un porco?»

    Il giovane non rispose nulla. L’oratore riprese molto serenamente e perfino con una certa aria di dignità, aspettando che le risatine intorno si spegnessero. «Ebbene io sarò anche un porco, ma lei è una signora! Io ho l’aspetto di una bestia, mentre Katerìna Ivànovna, la mia consorte, è una persona istruita ed è figlia d’un ufficiale dello Stato Maggiore. Sì, sì, lo ammetto, io sono un perditempo, ma lei ha un cuore nobile, ed è stata educata ai più nobili sentimenti. Eppure... oh, se avesse avuto pietà di me! Egregio signore, egregio signore, ogni uomo dovrebbe avere un posto dove andare, ogni uomo dovrebbe avere un posto dove si prova pietà per lui! Katerìna Ivànovna, invece, benché magnanima, è ingiusta... E benché io stesso comprenda che quando mi tira per i capelli lo fa solo per compassione, poiché (non mi vergogno a ripeterlo) lei mi tira per i capelli, giovanotto,» confermò in tono ancora più dignitoso, udendo di nuovo delle risatine intorno a sé, «ma, Dio mio, se almeno una volta lei... Ma no! No! Tutto questo non serve a nulla, ed è inutile parlarne! Non serve a nulla!... Poiché già più d’una volta il mio desiderio è stato soddisfatto, già più volte sono stato compatito, e tuttavia... la mia natura è questa, non ci posso fare nulla: io sono un animale!»

    «Altro che!» osservò sbadigliando il padrone.

    Marmelàdov batté con forza il pugno sulla tavola.

    «Questa è la mia natura! Lo sapete, sapete voi, caro signore, che mi sono bevuto perfino le sue calze? Non le scarpe, giacché questo sarebbe ancora in certo qual modo nell’ordine delle cose, ma le calze, mi sono bevuto le sue calze! E mi sono bevuto anche la sua sciarpa di pelo di capra che le avevano regalato, ed era proprio sua, non mia; e abitiamo in un buco freddo e umido, e quest’inverno lei s’è raffreddata e ha cominciato a tossire: a tossire sangue, già. E abbiamo tre figli piccoli, e Katerìna Ivànovna sfacchina da mattina a sera, strofina e fa il bucato e lava i bambini, perché lei è abituata fin da piccola alla pulizia, e lei è debole di polmoni ed è predisposta alla tubercolosi, e io tutte queste cose le sento. Credete che non le senta? E più bevo, più le sento. Proprio per questo bevo, perché nel bere io cerco compassione e sentimento... Bevo perché voglio soffrire il doppio!» E, come in preda alla disperazione, chinò la testa sul tavolo. Poi proseguì risollevandosi:

    «Giovanotto, sul vostro viso io leggo come una specie di tristezza. L’ho notata appena siete entrato e per questo vi ho rivolto la parola. Poiché, raccontandovi la storia della mia vita, non voglio mettermi in ridicolo di fronte a questi cialtroni che mi conoscono da tempo, ma mi rivolgo a un uomo sensibile e istruito. Dovete sapere che la mia consorte è stata educata in un istituto provinciale per fanciulle nobili, e che alla licenza ballò con lo scialle in presenza del governatore e di altri personaggi, cosa per la quale ricevette la medaglia d’oro e un attestato di lode. La medaglia... be’, la medaglia l’abbiamo venduta... già da un pezzo... ehm... mentre l’attestato di lode sta ancora nel suo baule, e anche recentemente lei lo ha mostrato alla padrona di casa. E benché abbia, con questa padrona, litigi a non finire, tuttavia ha voluto far bella figura almeno davanti a qualcuno parlando dei bei tempi andati. E io non la condanno, non la condanno assolutamente, perché questa è l’ultima cosa che le è rimasta dei suoi ricordi, mentre tutto il resto è andato in polvere! Sì, sì; è una signora impulsiva, superba e inflessibile. Lava il pavimento con le sue mani e mangia pane nero, ma non ammette che le si manchi di rispetto. Proprio per questo non ha voluto chiudere un occhio sulla villania del signor Lebezjàtnikov, e quando questi l’ha picchiata, s’è messa a letto non tanto per le botte ricevute, quanto per il dispiacere. Quando la presi lei era già vedova, con tre bambini, uno più piccino dell’altro. Il primo marito era un ufficiale di fanteria e si era sposata per amore ed era fuggita insieme a lui dalla casa paterna. Lo amava alla follia, ma quello s’era dato al gioco, finì sotto processo e morì. Negli ultimi tempi la picchiava; e benché lei non glielo perdonasse, cosa di cui sono sicuro per via di certi documenti, ebbene, ancora oggi lui lo ricorda con le lacrime agli occhi e me lo rinfaccia, e io ne sono contento, ne sono contento, perché almeno nella sua immaginazione lei qualche volta è felice... Dopo la morte del marito lei era rimasta in un distretto lontano e selvaggio dove abitavo anche io, e lei era in un tale stato di miseria e di disperazione che non posso descrivere nemmeno io, nonostante ne abbia viste di tutti i colori. Nessuno dei parenti ne volle sapere nulla. E poi lei era troppo orgogliosa, troppo fiera... Allora, egregio signore, allora io, vedovo a mia volta, e con una figlia quattordicenne, mi offrii di prenderla in moglie, perché non potevo assistere a un simile strazio. Potete immaginare a quale punto di disperazione era arrivata se ha accettato di sposare me, una come lei, così bene educata e istruita! Ebbene, mi sposò! Piangendo e singhiozzando e torcendosi le mani, ma mi sposò! Perché non sapeva dove andare. Capite, capite, egregio signore, che cosa vuol dire non aver più dove andare? No! Questo voi ancora non lo capite... E per un anno intero io ho fatto il mio dovere coscienziosamente e santamente, senza nemmeno toccare questo (indicò con il dito il mezzo litro), poiché ho del sentimento, io. Ma non servì a nulla; e finì che persi il posto, e anche questo non per colpa mia, ma per modificazione di organici, e allora sì che lo toccai!... Sarà già un anno e mezzo che noi, dopo tante vicissitudini e vagabondaggi, siamo in questa splendida capitale, piena di tanti monumenti. E qui avevo trovato un posto... L’avevo trovato, e di nuovo l’ho perso. Capite?... E questa volta l’ho perso per colpa mia, perché è riaffiorata la mia vera natura... E adesso abitiamo in un buco, nella casa di Amàlija Fedorovna Lippevèchzel, ma non so davvero come facciamo a vivere e a pagare l’affitto. Oltre a noi, ci abitano molti altri... Una vera baraonda, un posto ignobile... eh, sì... proprio così... E nel frattempo mia figlia, quella avuta dal primo matrimonio, è cresciuta, e preferisco non parlare di quanto l’ha fatta soffrire la matrigna. Perché anche se Katerìna Ivànovna è piena di nobili sentimenti, è una signora impulsiva e irascibile, e ha certi scatti di nervi... Già. Ma lasciamo stare questo! Come potete immaginare Sònja non ha ricevuto una vera educazione. Avevo provato, quattro anni fa, a fare con lei un po’ di geografia e di storia universale, ma siccome io stesso non ero ferrato, e non avevo neanche dei buoni libri … ora non ci sono più neanche quelli … beh, insomma, tutto l’insegnamento finì ben presto. Ci fermammo a Ciro il Persiano. Poi, raggiunta un’età più adulta, ha letto qualche romanzo; anche di recente, un libretto avuto dal signor Lebezjàtnikov, la Fisiologia di Lewis - lo conoscete? -, l’ha letto con grande interesse e ce ne ha perfino parlato un poco. La sua istruzione è tutta qui. E adesso, mio egregio signore, voglio rivolgervi una domanda di carattere privato: secondo voi, una fanciulla povera ma onesta può guadagnare a sufficienza con un lavoro onesto? Una ragazza onesta e senza doti particolari non riesce ad arrivare nemmeno a quindici copeche al giorno, caro mio! E per di più il consigliere di Stato Ivàn Ivànovic Klòpštok - l’avete mai sentito nominare? - non solo non le ha ancora dato i soldi per avergli cucito mezza dozzina di camicie di tela d’Olanda, ma l’ha perfino scacciata insultandola, col pretesto che il collo delle camicie non aveva la misura giusta ed era cucito storto. E intanto i bambini soffrono la fame... E Katerìna Ivànovna si torce le mani e cammina su e giù per la stanza e le vengono le macchie rosse sulle guance, come accade sempre con questa malattia: ‹Brutta mangiapane a tradimento, te ne stai qui in casa con noi, mangi e bevi e ti godi il caldo›; che cosa volete che beva e che mangi poi, quando perfino i bimbi sono tre giorni che non hanno nulla da mangiare! Io, quella volta, ero a letto... beh, sì, lo ammetto, ero ubriaco fradicio, e sento la mia Sònja che dice (non è tipo da rispondere, e ha una vocina così flebile... è biondina, col visetto sempre pallido, magrolino), sento che dice: ‹Katerìna Ivànovna, dovrei proprio andar a fare una cosa simile?› Ma Dàrja Fràncovna, una donna malvagia e nota alla polizia, già per tre volte aveva chiesto informazioni per mezzo della padrona di casa. ‹Che c’è,› risponde Katerìna Ivànovna, rifacendole il verso, ‹che c’è da custodire? Bel tesoro davvero!› Voi però non fatele colpa, non fatele colpa, egregio signore, non fatele colpa! Queste parole non sono state dette con freddezza, ma con i sensi sconvolti, sotto l’effetto della malattia, e mentre i bimbi affamati piangevano, e poi furono dette più per offendere che nel loro preciso significato... Perché Katerìna Ivànovna ha un carattere così, e appena i bimbi piangono, anche se piangono per fame, subito comincia a picchiarli. E verso le sei vidi Sònecka alzarsi, mettersi in testa un fazzoletto, indossare la mantellina e uscire di casa, per tornare poi dopo le otto.

    Appena rientrata, va dritta da Katerìna Ivànovna, e senza parlare le mette davanti, sul tavolo, trenta rubli d’argento. Non aprì bocca, non guardò nessuno; prese il nostro grande scialle verde di drap de dame (abbiamo uno scialle così, di drap de dame, che serve per tutti), si coprì la testa e il viso con quello e si distese sul letto con la faccia verso la parete; ma le sue piccole spalle e tutto il suo corpo sussultavano... Io ero coricato come il giorno prima, nello stesso stato... E subito dopo, caro giovanotto, vidi Katerìna Ivànovna avvicinarsi al letto di Sònecka, anche lei senza dire una sola parola, e passare tutta la sera così in ginocchio accanto a lei; e le baciava i piedi, non voleva alzarsi, e alla fine si addormentarono così tutte e due insieme, abbracciate... Sì, e io stavo a letto, ubriaco.»

    Marmelàdov tacque, come se la voce gli si fosse spezzata. Poi, riempì bruscamente il bicchierino, bevve e si schiarì la voce.

    «Da allora, mio caro signore,» proseguì dopo una pausa, «da allora, per un caso disgraziato e per la denuncia di gente malevola, - cosa a cui ha contribuito in modo speciale Dàrja Fràncovna, con il pretesto che qualcuno non le avrebbe dimostrato il dovuto rispetto, - da allora mia figlia, Sònja Semenovna, è stata costretta a prendere il biglietto giallo e quindi le è stato impossibile rimanere con noi. Anche la padrona, Amàlija Fédòrovna, non lo volle permettere (e dire che fu proprio lei la prima a favorire Dàrja Fràncovna), e anche il signor Lebezjàtnikov... ehm... Fu appunto a causa di Sònja, che ci fu quello scontro con Katerìna Ivànovna. Sul principio lui stesso aveva messo gli occhi addosso a Sònecka, e a un tratto si insuperbisce: ‹Come potrei io, persona così istruita, abitare nello stesso alloggio con una di quelle?› Ma Katerìna Ivànovna non gliela fece passare liscia, provò a difenderla... e già sapete come è andata a finire... E adesso Sònecka viene a trovarci più che altro di sera, aiuta Katerìna Ivànovna come può... Lei sta in affitto nell’appartamento del sarto Kapernaumov; lui è zoppo e balbuziente, e anche tutta la sua numerosa famiglia è balbuziente. Perfino sua moglie è balbuziente... Vivono tutti in una stanza, mentre Sònja ne ha una sua a parte, divisa con un tramezzo... ehm, è proprio così. Gente poverissima e balbuziente... proprio così. Un mattino, appena alzato, mi misi addosso i miei stracci, levai le mani al cielo e mi avviai da Sua Eccellenza Ivàn Afanàsevic. Sua Eccellenza Ivàn Afanàsevic; lo conoscete? No? Allora non conoscete un sant’uomo! È tenero come la cera... Come la cera davanti al volto del Signore; si scioglie come la cera! Si mise persino a piangere, dopo essersi degnato d’ascoltare tutto. E mi dice: ‹Senti, tu, Marmelàdov, già una volta hai deluso le mie aspettative... Però farò in modo di farti riassumere sotto la mia responsabilità personale,› proprio così ha detto, ‹ricordalo! E ora va’ pure!› Io, mentalmente, gli baciai la polvere delle scarpe, giacché egli non lo avrebbe permesso, essendo un funzionario molto colto e di idee politiche moderne; tornai a casa, e appena dissi che ero stato ripreso in servizio e che avrei avuto di nuovo uno stipendio, Signore Iddio! che cosa successe allora...»

    Marmelàdov si fermò di nuovo, a causa della forte agitazione. In quel momento entrò nella bettola un gruppo di ubriachi, e vicino all’ingresso si udirono le note di un organino preso a nolo e la vocetta infantile di un ragazzetto sui sette anni, che cantava la canzone della Piccola fattoria. In tutta la bettola ci fu un gran baccano. Il padrone e i garzoni si occuparono dei nuovi avventori, Marmelàdov, senza badare a loro, ricominciò a raccontare. Sembrava esausto, ma quanto più l’alcool gli saliva alla testa, tanto più diventava loquace. I ricordi del recente ritorno in servizio sembravano averlo rianimato e anche il suo volto, ora, pareva raggiante. Raskòlnikov ascoltava attentamente.

    «Questo, signore mio, è accaduto cinque settimane fa. Sì... Signore, Iddio, appena l’hanno saputo loro due, Katerìna Ivànovna e Sònecka, è stato come se mi avessero assunto al regno dei cieli. Prima non sentivo altro che ingiurie, adesso, invece, camminavano in punta di piedi e cercavano di far star zitti i bambini: ‹Sst! Fate silenzio! Semën Zachàryc si è stancato al lavoro, sta riposando!› Prima che andassi in ufficio mi davano il caffè, facevano bollire la panna! Cominciarono a comprare della vera panna, capite? Dove presero undici rubli e cinquanta copeche per darmi una divisa decente, davvero non lo so... stivali, magnifici davanti di camicia di calicò, e l’uniforme di servizio, tutto della più splendida qualità, con undici rubli e mezzo! Quando il primo giorno tornai dall’ufficio vidi che Katerìna Ivànovna aveva preparato due piatti, minestra e poi carne salata con rafano, cosa di cui, fino ad allora, non si era avuta nemmeno l’idea. Lei di vestiti non ne ha... proprio nemmeno uno; eppure, quella volta, sembrava che dovesse andare in visita, si era messa tutta in ghingheri, e non che avesse niente, ma lei, dal nulla, sa cavar fuori tutto, così; si pettina, non che indossasse nulla di speciale, intendiamoci, un collettino pulito, delle sopramaniche, e ti viene fuori una donna tutta diversa, ringiovanita, imbellita. Sònecka, la mia colombella, l’aiutava soltanto con i denari, e diceva: ‹quanto a me, per un po’ è meglio che non capiti troppo spesso da voi, o caso mai alla sera, perché nessuno mi veda›. Capite? Capite? Dopo mangiato andai a farmi un sonnellino, e allora, ci credereste? Katerìna Ivànovna non resse più: appena una settimana prima aveva litigato a morte con la padrona, con Amàlija Fedorovna, e adesso l’invitò a prendere una tazza di caffè. Se ne stettero sedute due ore a parlottare: ‹Adesso Sem ë n Zachàryc ha ripreso servizio e riceve lo stipendio, e si è presentato lui stesso da Sua Eccellenza, e Sua Eccellenza in persona è uscito fuori e ha fatto aspettare tutti gli altri, e ha accompagnato Sem ë n Zachàryc, sotto braccio, davanti a tutti, fino al suo studio.› Capite? capite? E gli disse: ‹Naturalmente io, Sem ë n Zachàryc, ricordo bene i vostri meriti, e sebbene andiate soggetto a questa frivola debolezza, visto che ora mi fate una promessa, e tenuto conto del fatto che senza di voi qui le cose vanno male (sentite, sentite, dunque!), spero che manterrete la vostra parola...› Ebbene, vi assicuro che lei tutte queste cose se le era inventate, ma non per leggerezza, ma così, solo per vantarsi! Anzi, è proprio lei a credere a tutte queste cose che immagina, così, per consolarsi, ve lo giuro! E io non mi sento di condannarla, no, non la condanno davvero!... Quando poi, sei giorni fa, le ho portato il mio primo stipendio tutto intero - ventitré rubli e quaranta copeche - mi ha chiamato tesoruccio: ‹Ah, tesoruccio mio! Tesoruccio mio!›; e questo a quattr’occhi, capite? Be’, francamente, non credo di essere tanto bello, che razza di marito sono io? Eppure, mi ha pizzicato la guancia, dicendomi: ‹Che bel tesoruccio sei!›»

    Marmelàdov s’interruppe, voleva sorridere, ma ad un tratto cominciò a sussultare. Ma riuscì a controllarsi. Quella bettola, il suo aspetto trasandato, le cinque notti passate sui barconi da fieno, la bottiglia, e insieme quell’amore morboso per la moglie e la famiglia sconcertavano Raskòlnikov, il quale lo ascoltava con attenzione, ma con un certo senso di malessere. Si pentiva di essere entrato in quella bettola.

    Dopo essersi ricomposto, Marmelàdov esclamò: «Egregio signore, egregio signore! Forse tutto questo vi farà ridere, come gli altri, e io vi infastidisco con la stupidità di tutti questi miserabili dettagli della mia vita domestica; ma a me non fanno ridere per niente! Perché, tutte queste cose, io le sento... E tutta quella paradisiaca giornata e anche tutta la sera le trascorsi anche io facendo chissà quanti castelli in aria: cioè, come avrei sistemato tutto quanto, sistemato i bimbi e procurato la tranquillità a lei, e tolto la mia unica figlia da quella sua condizione disonorata per farla tornare in famiglia... E tante, tante altre cose... È perdonabile, caro signore. Tuttavia …» Marmelàdov sembrò trasalire improvvisamente, sollevò il capo e fissò il suo ascoltatore, «tuttavia il giorno seguente, dopo tutti questi sogni (cioè precisamente cinque giorni fa), verso sera, con un astuto inganno, come un ladro nella notte, io ho rubato a Katerìna Ivànovna la chiave del suo baule, ho preso tutto ciò che restava dello stipendio che io stesso le avevo dato, non ricordo più quanto fosse, ed eccomi qua, guardatemi, guardatemi tutti! Sono cinque giorni che manco da casa, e mi stanno cercando, l’impiego è andato a farsi benedire, la mia uniforme è rimasta in una bettola presso il Ponte Egiziano, e in cambio mi hanno dato questi stracci ... e tutto è finito!»

    Marmelàdov si batté la fronte, digrignò i denti e, chiudendo gli occhi, appoggiò i gomiti sul tavolo. Dopo un minuto, il suo volto si trasformò di colpo, e guardò Raskòlnikov con una specie di cinismo forzato, e disse ridendo:

    «E oggi sono andato da Sònja e le ho chiesto dei soldi per bere! Eh, eh, eh!»

    «E te li ha dati?» gridò qualcuno dei nuovi venuti, mettendosi a ridere a squarciagola. E, sempre rivolto solo a Raskòlnikov, disse:

    «Ecco, questo mezzo litro l’ho pagato con i soldi che mi ha dato lei, mi ha portato trenta copeche, me le ha date con le sue mani, ed erano le ultime, non aveva altro, l’ho visto io stesso... Non ha detto nulla, mi ha solo guardato in silenzio. Non è sulla terra, ma lassù... che si ha così pietà degli uomini, e li si compiange, ma senza rimproveri, senza rimproveri! Ma fa ancora più male, fa molto più male, quando non ti si rimprovera!... Trenta copeche. Eppure, lei ne ha bisogno! Voi che ne dite, caro signore? Lei, adesso, deve badare molto alla pulizia e ha bisogno di soldi... Capite? E deve anche comprare un po’ di pomate, non può farne a meno; sottane inamidate, scarpette scollate, per mettere bene in mostra il piedino quando deve attraversare una pozzanghera. Capite, capite, signore mio, cosa significa questa pulizia? Ebbene, io, io, suo padre carnale, queste trenta copeche me le sono intascate per andare a bere! E bevo! E me le sono bevute!... Chi potrà aver pietà di uno come me? Voi avete pietà di me oppure no? Eh, eh, eh, eh!» Fece per versarsi da bere, ma il mezzo litro era finito. Il padrone che si trovava lì vicino disse:

    «E perché si dovrebbe aver pietà di te?»

    Tutti scoppiarono a ridere e volò perfino qualche insulto. Lo ingiuriavano tutti, anche quelli che non erano stati ad ascoltarlo, solo a vedere la figura del funzionario a riposo.

    «Pietà di me? Perché aver pietà di me?!» urlò d’un tratto Marmelàdov, alzandosi con un braccio proteso, in preda a una vera e propria esaltazione, come se non avesse aspettato che quelle parole. «Perché aver pietà, dici tu? Sì! Perché aver pietà di me?! Bisogna crocifiggermi, inchiodarmi sulla croce, altro che aver pietà di me! Ma crocifiggimi pure, giudice, crocifiggimi, e dopo avermi crocifisso abbi pietà di me! E allora io stesso verrò da te per essere messo in croce, poiché non di letizia ho sete, ma di lacrime e dolore!... Tu credi, oste, che questo tuo mezzo litro si sia trasformato in dolcezza? In fondo a questo mezzo litro io cercavo dolore, lacrime e dolore, e l’ho assaporato, l’ho avuto; ma colui che di tutti ha avuto pietà, e che tutti e tutto ha compreso avrà pietà di noi: egli è l’unico, egli è il giudice. Verrà in quel giorno e chiederà: ‹Dov’è la figlia che si sacrificò a una matrigna cattiva e tisica, e ai teneri figli altrui? Dov’è la figlia che ebbe pietà del padre suo terreno, ubriacone impenitente, senza aver orrore della sua bestialità?› E dirà: ‹Vieni! Io ti ho già perdonato una volta... Ti ho perdonato... E anche ora ti vengono perdonati i tuoi molti peccati, perché hai amato molto...› E perdonerà la mia Sònja, la perdonerà, so bene che la perdonerà... Me l’ha detto il mio cuore poco fa, quand’ero da lei!... E giudicherà e perdonerà tutti, i buoni e i cattivi, i saggi e i mansueti... E quando avrà finito con tutti, allora parlerà anche con noi, e ci dirà: ‹Uscite anche voi! Uscite, ubriaconi, uscite voi, deboli, uscite voi, viziosi!› E noi usciremo tutti, senza vergognarci, e staremo dinanzi a lui. Ed egli ci dirà: ‹Siete dei porci! Voi avete l’aspetto di animali, ma venite anche voi!› E i saggi e le persone ricche di buon senso protesteranno: ‹Signore! Perché accogli costoro?› Ed egli risponderà: ‹Perché li accolgo, o saggi, perché li accolgo, o voi ricchi di buon senso? Perché non uno di loro se ne è mai creduto degno...› E ci tenderà le sue mani, e noi baceremo quelle mani, e piangeremo... e finalmente capiremo tutto! Tutti capiranno... anche Katerìna Ivànovna... anche lei capirà... Signore, venga il regno tuo!»

    Si abbandonò sulla panca, stremato e sfinito, senza guardare nessuno, profondamente assorto e quasi dimentico di quello che lo circondava. Per un minuto ci fu in tutta la bettola un silenzio profondo, perché le sue parole avevano provocato una certa impressione, ma ben presto si levarono di nuovo risate e ingiurie:

    «Ci ha giudicati!»

    «Le spara grosse!»

    «Ehi, funzionario dei miei stivali!»

    E così via. Poi, sollevando il capo e rivolgendosi a Raskòlnikov, Marmelàdov disse a un tratto:

    «Signore, andiamocene, accompagnatemi... Casa Kozel, nel cortile. Ora devo tornare... da Katerìna Ivànovna...»

    Già da un pezzo Raskòlnikov avrebbe voluto andarsene; quanto a dargli aiuto, ci aveva già pensato da solo. Le gambe di Marmelàdov erano molto più deboli della sua lingua e s’appoggiò pesantemente al giovane. C’erano da fare duecento-trecento passi. L’ubriacone era sempre più turbato e spaventato man mano che si avvicinava a casa, e mormorava:

    «Non è di Katerìna Ivànovna che ho paura adesso, e nemmeno del fatto che comincerà a tirarmi per i capelli. Che volete che contino i capelli!... una sciocchezza, i capelli! Ecco cosa dico io! Anzi, è meglio se mi tira i capelli, non è di questo che ho paura. Io... ho paura dei suoi occhi; degli occhi, sì... E ho paura anche delle sue macchie rosse sulle guance... E ho paura anche del suo respiro... Hai mai visto come si respira con questa malattia... quando ci si agita? E ho paura anche del pianto dei bambini... Perché, se Sònja non ha procurato loro da mangiare, non so davvero cosa accadrà! Non so! Delle botte, invece, non ho paura... Sappi, signore, che le botte non solo non mi fanno male, ma, anzi, quasi mi fanno piacere... Io stesso non posso farne a meno. Meglio così. Che mi batta pure, che si sfoghi... meglio così... Ma ecco la casa. La casa di Kozel. Un fabbro, un tedesco, uno ricco ... Su, accompagnami!»

    Entrarono dal cortile e salirono al quarto piano. Man mano che salivano la scala era sempre più buia. Erano già quasi le undici, e benché in quella stagione, a Pietroburgo, non sia mai completamente notte, in cima alla scala c’era una grande oscurità.

    Proprio in cima c’era una piccola porta aperta, tutta affumicata. Un mozzicone di candela rischiarava una stanza poverissima, lunga una decina di passi; dalla porta la si poteva vedere tutta. C’era un gran disordine, con oggetti sparpagliati dovunque, soprattutto cenci di bambini. Sul fondo, in un angolo, era teso per traverso un lenzuolo tutto bucherellato, dietro il quale, probabilmente, c’era un letto. C’erano in tutto due sedie e un divano ricoperto di un’incerata tutta strappata; di fronte, un vecchio tavolo da cucina, di pino non verniciato e senza niente che lo coprisse. Sull’orlo del tavolo, in un candeliere di ferro, finiva di ardere un moccolo di sego. Marmelàdov aveva una stanza a parte, e non un angolo di stanza; la sua camera, però, era di passaggio. L’uscio che dava nelle stanze successive – che potevano essere anche definite gabbie -, in cui si divideva l’appartamento di Amàlija Lippevechzel, era socchiuso. Da dentro venivano chiasso, grida e risate. Si sarebbe detto che stesso giocando a carte e bevendo tè. Arrivavano anche frammenti di parolacce sguaiate.

    Raskòlnikov riconobbe subito Katerìna Ivànovna. Era una donna molto smagrita, esile, alta e slanciata, con dei capelli biondo scuro ancora molto belli, e con le guance effettivamente macchiate di rosso. Andava su e giù per la sua stanzetta con le braccia conserte, le labbra riarse, il respiro disuguale e rotto. Gli occhi luccicavano come per la febbre, ma lo sguardo era tagliente e fisso, e il suo volto da tisica faceva un’impressione di grande pena alla debole luce del mozzicone di candela. A Raskòlnikov parve che avesse una trentina d’anni, non aveva l’età di Marmelàdov... La donna non sentì né vide i due che entravano: sembrava immersa in una specie di torpore. Nella stanza si soffocava, ma lei non aveva aperto la finestra; dalla scala veniva un gran puzzo, ma la porta che dava sulla scala non era stata chiusa; dalle stanze interne, attraverso l’uscio socchiuso, giungevano ondate di fumo di tabacco, ma lei tossiva senza chiudere l’uscio. La bimba più piccola, che avrà avuto sei anni, dormiva sul pavimento, tutta raggomitolata e con la testa affondata nel divano. Un ragazzo, che avrà avuto un anno di più, tremava tutto e piangeva nell’angolo. Probabilmente era appena stato picchiato. La bambina più grande, che avrà avuto nove anni, alta e sottile come un fiammifero, vestita solo di una misera camicia tutta strappata e una vecchia mantellina di drap de dame gettata sulle spalle nude (che forse le avevano fatto due anni prima perché non

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