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Italian Way of Cooking
Italian Way of Cooking
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E-book285 pagine3 ore

Italian Way of Cooking

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Info su questo ebook

Nero è un cuoco eccezionale, ma la crisi economica non lo ha risparmiato e il suo ristorante, il Gallo Nero del Chianti, è sommerso dai debiti e prossimo al fallimento. In una notte stregata accade però un evento del tutto eccezionale che risolverà i suoi problemi... creandogliene altri ben più spaventosi! Una creatura mostruosa, antica come il mondo e affamata di esseri umani, si introduce in casa sua e minaccia i suoi bambini. Nero è costretto a ucciderla, e, attratto dall'odore delle sue carni, prova l'impulso irresistibile di cucinarle e scopre che sono squisite. Prova allora a servirle di nascosto ai clienti del ristorante, ottenendo un successo oltre qualsiasi aspettativa. Inizia così la rinascita dal Gallo Nero: tenendo celato il suo segreto, in una maliosa estate toscana il cuoco si dedica alla ricerca di altre creature mostruose per ucciderle, cucinarle e servirle agli ignari avventori. La fama del ristorante e delle sue prelibatezze cresce a dismisura, così come i problemi: in fondo si tratta di Mostri, e dar loro la caccia è un'attività estremamente pericolosa, soprattutto nel momento in cui le creature capiscono l'antifona e decidono di invertire i ruoli e di far tornare la catena alimentare nel giusto ordine delle cose...! Benvenuti quindi al Gallo Nero del Chianti, grottesca sarabanda horror-culinaria fra piatti deliziosi dagli ingredienti che è meglio non rivelare, direttori di banca e serial killer, vigilesse feticiste dell'autovelox, vini pregiati e pietanze prelibate ma dagli arcani effetti collaterali, l'unico ristorante al mondo dove non si è sicuri di mangiare (cosa, poi?), o di essere mangiati...

Il romanzo contiene in appendice il "Ricettario Mostruoso": dieci ricette per cucinare altrettante creature sovrannaturali del folklore sia italiano che internazionale, tramandate da secoli e rivisitate da dieci impavidi Horror Masterchef...

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2015
ISBN9788899216269
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    Anteprima del libro

    Italian Way of Cooking - Marco Cardone

    1

    Il seno di Marica sbatteva contro il piano di lavoro della cucina, sparpagliando posate e facendo precipitare a terra mestoli e barattoli di spezie. Dietro di lei, le braghe a quadretti calate alle ginocchia e gli occhi congestionati simili a frutti carnosi, Nero si prodigava in colpi poderosi, come dovesse abbattere una parete in mattoni, invece che fare l’amore con una donna.

    Nella sala di fronte, oltre le porte a spinta, rimbombavano colpi altrettanto violenti all’ingresso del ristorante. Mirco si addossava ai battenti con tutto il peso, nel tentativo di contrastare l’assedio. Non avrebbe guadagnato due secondi.

    «O merdaiolo, facci entrare!»

    «La bucaiola di to’ ma’! L’hai capito che, co’ le buone o le cattive, noi s’entra uguale?»

    In lontananza, l’ululato di una sirena annunciò che il tempo era agli sgoccioli.

    «O Nero, sbrigati!» lo esortò Mirco.

    «Asp… Aspetta… La terza un mi vien mica via veloce» rispose il cuoco. Il timer del forno, intanto, continuava a ticchettare imperturbabile.

    «Nero, un li tengo più!»

    Una finestra andò in frantumi.

    Il cellulare sul piano di lavoro ronzò due volte, spostandosi come per allontanarsi dall’amplesso, e il display s’illuminò. Noi in anticipo. Arrivare un minuto.

    «Maremma bollita nella merda» imprecò Nero, mentre Marica gli afferrava i testicoli e spingeva indietro le natiche.

    La sirena era vicinissima.

    «Mirco… va’ via… o non sfuggirai alla sirena!»

    «Ancora un attimo!»

    Il ticchettio del forno accelerò, come sempre faceva pochi secondi prima del trillo del timer, Marica grugnì qualcosa e Nero si drizzò di scatto. Per un istante, il tempo gli parve fermarsi, come se Dio in persona stesse trattenendo il fiato.

    Poi, di colpo, tutto riprese vita: il timer suonò, la sirena raggiunse il piazzale all’esterno con uno sdrucciolio di gomme, la porta del locale si spalancò e, mentre una piccola folla di anziani inferociti si riversava nel ristorante travolgendo Mirco, Nero strinse le tette di Marica, incrociò gli occhi e venne.

    Due mesi prima

    8 luglio. Domenica.

    Colline del Chianti.

    Il sole era calato sotto la linea scura dei pendii, sui quali si stagliavano ordinati filari di cipressi. La porzione ancora azzurra di cielo era ridotta a una piccola striscia a occidente; oltre, le prime stelle facevano capolino. Nella penombra viola della campagna toscana d’inizio estate, una figura si spostava rapida e furtiva tra la vegetazione di quell’estremità meridionale del Chianti, dove il bosco cedeva il passo a tratti di erba medica e distese di girasoli.

    Al riparo in uno sparuto gruppo d’alberi, la creatura alzò il muso e fiutò l’aria frizzante della sera, carica del profumo delle ginestre e invasa dal frinire assordante dei grilli. Il suo stomaco rumoreggiò.

    Ripartì in direzione di una vigna, ne oltrepassò con un balzo la recinzione e si tuffò fra i grappoli ancora verdi. Dai filari si levarono frullii di ali e nugoli di zanzare. Emerse dal vigneto, risalì il fianco della collina fino a una cintura di bassi cespugli di ginepro e lì si acquattò. Sulla sommità del colle si ergeva un casale in pietra su due livelli, che irradiava una luce dorata dalle finestre del pianterreno. Il piano superiore, ad eccezione di un’unica finestra da cui filtrava un tenue chiarore, era invece immerso nell’oscurità.

    Le narici della creatura si dilatarono e un sottile filo di saliva le discese da un angolo della bocca. Osservò per qualche istante il piazzale deserto attorno alla cascina, disseminato di piccole torce che danzavano nella brezza leggera, poi spostò i rami e scattò in avanti.

    «Cinque, quattro…»

    La lama batteva sul tagliere come una mitragliatrice, lasciando dietro di sé sottili fette di carota.

    «Tre, due…»

    L’ortaggio fu spazzato via e un altro ne prese il posto.

    Toc, toc, toc.

    «Uno…»

    La carota divenne un domino di tessere arancioni nello spazio dell’ultimo secondo.

    «Stop!» esclamò Francesca. Nero sollevò il coltello, ne passò i due lati sul grembiule e lo lanciò di lato, senza guardare. La lama attraversò la cucina e si abbatté con un tonfo su un tagliere appeso al muro, dove rimase a ondeggiare. I sei spettatori esplosero in applausi e grida di approvazione.

    «E ora paga!» disse Mirco, colpendo la spalla del ragazzo alla sua sinistra.

    «Ahia!» fece Rocco. «C’è bisogno di alzare le mani?»

    Francesca allargò le braccia e tutti si zittirono. «Dichiaro ufficialmente battuto il vecchio record e proclamo il nuovo: tredici carote in dieci secondi!»

    Mattia batté le mani ed emise un versetto di gioia. «Bravo babbo!» Suo fratello maggiore, Andrea, guardava il padre con ammirazione non minore.

    «Hai sentito?» chiese Mirco a Rocco, aprendo e chiudendo la mano nel gesto italiano che coniuga all’imperativo il verbo sganciare.

    «Non vale!» protestò l’altro. «C’è un pezzo ancora intero!»

    «Non ci provare, siciliano! Paga e niente storie.»

    Rocco cavò una banconota dalla tasca e la consegnò all’aiuto cuoco, che la dispiegò con aria goduta e la baciò.

    «Va bene bischeri,» disse Nero, «lo spettacolo l’è finito. Ai posti di combattimento, che tra poco arrivano ‘clienti.» O, almeno, era quanto si augurava.

    Francesca e Rocco lasciarono la cucina trasportando cestini di pane sciapo, posate e tovaglioli di stoffa, Mirco tornò dietro ai fornelli. Nero si avvicinò al tagliere appeso, punteggiato dei segni dei lanci passati, e staccò il coltello.

    «Che ganzo, voglio imparare anch’io», disse Andrea.

    «Il tu’ babbo l’è cresciuto co’ coltelli per le mani» intervenne Lapo. «Ma tu, bellino, da grande dovrai fare di meglio che il cuoco di provincia come il tuo povero, vecchio genitore.» Nero alzò il dito medio e lo mostrò all’amico.

    «Per esempio? Che c’è di meglio di fa’ ‘i cuoco?» chiese Andrea.

    «Oh, beh, ci sono mestieri importanti, da cui dipende i’ destino del mondo. Fare il Chianti Classico, per esempio!»

    Nero mimò un manrovescio, Andrea e l’amico sghignazzarono.

    «Anch'io voglio fa’ il cuoco» disse Mattia, «e lanciare ‘coltelli come i’ mi’ babbo! Che fanno: BUM!» precisò, con l’entusiasmo dei suoi cinque anni.

    «Voi diventerete quel che vorrete» disse Nero, che in realtà pensava l’esatto contrario. «A patto che diate retta a’i’ babbo. E sapete cosa sta per dire ora, vero?»

    I bambini misero su due bronci identici. «D'anda’ a letto», risposero in coro.

    «Esatto. Io ho da fare, vi porta Francesca.»

    «Posso tenere accesa la luce?» chiese Andrea.

    «Dieci minuti.»

    «Evvai!»

    «Se avete bisogno, sapete i’ che fare. Ma ricordatevi che i’ babbo lavora: chiamate solo se c’è un incendio o vi sta per mangiare un mostro!»

    «Se avessi un cellulare…» disse Andrea.

    «Niente telefonini ‘a bambini, che fanno diventa’ grulli.» Nero s’indicò la guancia e si chinò; ricevette, nell’ordine, un bacio e una scoreggia salivosa, seguita da una risata. Tentò uno scapaccione affettuoso, ma Mattia era già sgusciato via, seguito dal fratello. Li guardò scomparire oltre la doppia porta a spinta che conduceva alla sala del ristorante, diretti all’appartamento soprastante, e provò un misto di amore struggente e frustrazione. Nel tempo, le cose che amava e aveva desiderato si erano allontanate dalla visione ideale dei suoi sogni giovanili. Trasportate nella realtà, erano diventate catene. I figli, la famiglia, il ristorante: tutto distorto e trascinato in un vortice che aveva inghiottito anni e speranze. Guardava i suoi bambini e, per quanto li amasse, vedeva due piccole, meravigliose prigioni, che lo legavano a quella vita. Non aveva mai pensato a cosa avrebbe fatto se non ci fossero stati, ma credeva che anche solo sapere di poter mollare tutto sarebbe stato bello. Sarebbe stato confortante. Poter lasciare alle spalle le responsabilità, i clienti che non arrivavano, l’ex moglie, le tasse e tutta l’intera, dannata, Italia.

    «Sei fortunato» disse Lapo. «I tu’ figlioli sono due meraviglie. L’è raro, di questi tempi. Soprattutto con la mamma che si ritrovano. Senza offesa, eh.»

    «Nessuna offesa: l’è una stronza, lo sanno tutti. A dì ‘i vero, l’unico che un se n’era accorto ero io.»

    «Suvvia, non te la prendere. Quelle così fighe ti rincoglioniscono, si sa.»

    Nero si concesse una risata amara. Era vero, erano bastate un paio di cosce lunghe e due occhi verdi da strega, ad ammaliarlo per sette anni. Anche quando aveva capito che non era la persona che credeva, non era riuscito a lasciarla. «Comunque hai ragione: sono due bravi bambini, nonostante i genitori.»

    «Se non altro, Adele te li lascia senza storie. Stanno molto da te.»

    «Sì, ma un crede’ che l’è buon cuore: quella ha in testa la palestra, la zumba e il bischero di Firenze che se la tromba. Non dico che non voglia bene a’ su’ figlioli, ma un so mica se fa più piacere a me o a lei, quando me li lascia.»

    «Tanto varrebbe tu prendessi l’affido.»

    «See… e secondo te lei rinuncerebbe all’assegno mensile? Lapo, sei più grande di me ma, a volte, sei così coglione che, a una gara di coglioni, tu arriveresti pe’ secondo…»

    L’altro si guardò le scarpe e ridacchiò. Poi riprese a parlare, ma Nero non lo stava più ascoltando.

    Oltre la finestra dalla cucina piena di vapore e pentole che sobbollivano, il paesaggio era una monocromia di macchie viola d’intensità diversa. Eppure, fra i bassi profili dei cespugli, gli parve di scorgere qualcosa. Avanzò verso il vetro e strinse gli occhi. Al limitare del piazzale un ramo frustava l’aria, come fosse stato piegato e rilasciato. Sondò l’oscurità per qualche secondo.

    Lapo lo richiamò alla realtà «… ma mi ascolti? Te ti sei incantato?»

    Nero guardò di nuovo oltre la finestra, ma la notte aveva approfittato di quei pochi attimi per ingoiare ogni cosa. «Sì, scusa, m’era parso di vedere… nulla, non importa. Che tu dicevi?»

    «Dicevo che, per mantenere i tu’ figlioli e la sanguisuga della tu’ ex moglie, devi servirne di clienti… E, per farlo, ti serve i’ vino giusto.»

    «Lapo, ho la cantina piena di Chianti, vedrai. Se tu vòi vendermi qualche riserva super pregiato de’ tuoi, un è i’ momento. C’ho certi cazzi… Ho più creditori che capelli. E poi c’è la storia delle tasse del 2011.»

    «Senti, puoi pagarmelo quando tu lo vendi. Te ne do un po’ di bottiglie, ma un dirlo a’ giro, d’accordo? Un posso fa’ da banca de ‘i vino per tutti i ristoratori squattrinati della Toscana.»

    Nero annuì, mentre girava con un mestolo una zuppa di fagioli e farro che cuoceva a fuoco lento nella terracotta. Se non doveva pagare, era più che lieto di arricchire la sua cantina con l’ennesimo Chianti, nessun problema.

    «E poi, chi l’ha detto che l’è un Chianti?» domandò Lapo, con un sorriso malizioso.

    «Un mi dirai che ti sei messo a fare supertuscan pure tu?»

    «E perché no? Ho messo su un vino che tu vedrai. Altro che Sassicaia e Frescobaldi».

    «See… Vabbè.»

    «Non ci credi? Tu m’offendi…»

    «Lo sai che credo solo a quel che vedo. E assaggio. Ce l’hai qui, questa meraviglia?»

    Lapo sorrise e, con un gesto da prestigiatore, tirò fuori una bottiglia da chissà dove.

    «Che poi, proprio quando anche ‘grandi marchi tornano al DOC, tu ti metti a fa’ un supertuscan. Vabbè, dai, stappa.»

    Lapo versò un dito a testa e gli lanciò uno sguardo di sfida. Nero ficcò il naso dentro il bicchiere. Il vino era ancora chiuso, aveva bisogno di mezz’ora buona per dispiegare tutte le sue sfumature ed era troppo presto per dire qualcosa su finezza, armonia e franchezza del bouquet. Ciò nonostante emanava già un profumo complesso, indecifrabile come un indovinello in una lingua straniera, eppure tanto intenso e persistente da pungere le narici e far allagare la bocca di saliva.

    «E per me nulla?» domandò Mirco, che stava tagliando a coltello un prosciutto di cinta senese. Nero afferrò un canovaccio e glielo tirò. «La maiala di to ma’! Quante volte t’ho detto che i’ prosciutto va mangiato appena tagliato!»

    Lapo ridacchiò, mentre il ragazzo s’infilava in bocca una fetta rossa bordata di grasso bianchissimo. «A be-e ‘osì?» domandò.

    Nero prese il coltello preferito, lo fece ruotare in aria, lo afferrò dalla punta e lo alzò come per lanciarlo. Mirco corse a nascondersi in dispensa.

    «O Nero, sempre a gioca’ con ‘sti coltelli, e dai!» disse Lapo. «Per me lo tratti troppo a culo, quel poraccio.»

    «Macché! Anzi, lo tengo solo perché l’è ordinato come uno svizzero e tiene bene i conti» confidò Nero, riducendo la voce a un sussurro. «Ma come si cucina, non gl’entra in testa», gridò. «Gl’entra più facilmente in culo, che in testa!»

    «Dai, non cazzeggiare: assaggia.»

    Nero alzò il largo bicchiere e osservò il vino rosso in controluce. «Interessante…» Agitò il calice e il liquido disegnò sul vetro cerchi che colarono lenti verso il basso, in gore ampie e consistenti: il corpo era bello spesso. Assaggiò. La sensazione ruvida sulla lingua e vellutata sul palato lo fece sorridere. Era un’autentica delizia. Ancora alcolico, del resto era appena stappato, però già molto sapido.

    «Allora?»

    «Mmm… Fruttato, soffice… una nota acidula ma anche amabile… abbastanza equilibrato», disse Nero, con gli occhi socchiusi. «Ottima persistenza» aggiunse. «Non è malaccio, te lo concedo.»

    «O Nero: ma va' a cacare…»

    Denti lavati, pigiami indossati, con un piccolo aiuto a Mattia da parte di Francesca, e, finalmente, sotto le lenzuola. Il babbo doveva lavorare e ad Andrea non dispiaceva per nulla che fosse Francesca ad accompagnarli. "È davvero bella", aveva pensato una volta, e aveva sentito muoversi in profondità qualcosa di sconosciuto. E poi, se Nero non controllava, i dieci minuti per il giornalino passavano più lentamente…

    Dopo che la ragazza fu scesa, alla luce della lampada, Andrea s’immerse nel primo numero della nuova serie di Zombie Genocide, in cui, stando alla copertina, ogni domanda avrebbe trovato risposta. La mamma non voleva leggesse quei fumetti, ma il babbo glieli comprava lo stesso, di nascosto. Secondo lui, lo faceva perché si sentiva in colpa per via del poco tempo che passavano assieme, ma la sostanza non cambiava: Zombie Genocide era ganzissimo. Certo, ogni tanto faceva sogni dei quali avrebbe fatto a meno, però era roba da grandi, non come i cartoni che vedeva con Mattia. In Zombi Genocide i morti viventi mangiavano la gente per davvero. Cioè, per finta, ma per davvero.

    La prima vignetta mostrava Anna, una protagonista, che portava alla bocca qualcosa. "È questa l'emozione che avverti, prima di mangiare la carne di un tuo simile", diceva la didascalia. La donna esitava, cercava di resistere e metteva un’ansia tremenda, anche perché aveva un figlio piccolo e veniva il dubbio che fosse proprio lui, quello che stava per mangiare.

    Andrea deglutì un groppo di saliva. L’idea di qualcuno divorato da un mostro gli faceva venire voglia di chiudere il fumetto, ma sarebbe stata una cosa da bambino piccolo, mentre lui era grande.

    Voltò pagina.

    In un flashback, Anna sentiva un rumore in strada, guardava dalla finestra e vedeva una sagoma nera, immobile. Andrea si morsicò il labbro inferiore.

    Da qualche parte, nella casa, qualcosa si mosse.

    Andrea trasalì e Mattia smise di far combattere i suoi dinosauri. «Ho sentito un rumore», disse, guardando il fratello più grande. Il letto di Mattia era di fronte al suo, proprio accanto alla porta che si affacciava sul corridoio immerso nell’oscurità.

    «Non è nulla» lo rassicurò Andrea, poco convinto. All’improvviso gli scappava forte la pipì, ma ad alzarsi dal letto non ci pensava proprio. La mano gli corse alla biglia di vetro, poi si ritrasse.

    Un posso chiama’ i’ babbo... Penserà che sono un cagasotto.

    Un’esplosione di musica ad alto volume dal piano di sotto li sorprese, spaventandoli. Il trambusto durò pochi istanti, poi ci fu un breve silenzio, dopo il quale attaccò a volume più basso una canzone famosa.

    «Hai visto? L’era solo musica.»

    Mattia non sembrava più tranquillo. «E se l’è un mostro?»

    «I mostri non esistono» rispose Andrea, ostentando sicurezza. Poi tirò fuori una gamba da sotto le lenzuola, per andare ad accendere la luce in corridoio.

    Il parquet mandò uno scricchiolio.

    Andrea rimase immobile con il piede sul pavimento.

    «L’è un mostro!» sussurrò il fratello.

    «L’è solo il legno che scricchiola», disse Andrea, ancora più piano.

    Altro rumore. Poi altri due, vicini. Mattia si nascose sotto le coperte. Andrea afferrò la biglia e la scagliò per terra.

    La sfera di vetro picchiò sul pavimento e si allontanò con saltelli sempre più vicini, poi rotolò nel buio finché il suono del vetro che scorreva sul legno si arrestò. Un istante dopo, la biglia ricominciò a picchiare per terra.

    Toc toc, toc.

    «Babbo, sei tu?» domandò Andrea, con un filo di speranza nella voce. Forse era solo suo padre, fermo nel buio a leggere un messaggio sul telefonino. Forse aveva raccolto la biglia, forse gli era caduta…

    Occhi gialli in fondo al corridoio.

    Respiro profondo.

    Rumore di zoccoli sul pavimento.

    Qualcosa correva verso di loro.

    «La verità l’è che un riesco più ad acquistare la prima scelta e sono all’osso con i’ personale», disse Nero. «Lavoro come un mulo e non basta uguale, vedrai. Figurati che Francesca serve a’ tavoli, pulisce, aiuta co’ dolci e fa pure da babysitter a’ mi’ figlioli. Senza qualità perdo clienti, senza clienti non posso permettermi la qualità, capisci? Un è che qui tu puoi lanciarlo più di tanto, questo tuo nòvo vino.»

    Lapo sospirò. «O Nero, forse un mi so’ spiegato: sono io che ti fò un favore, non i’ contrario. Così arricchisci la cantina senza impegnarti. Devi risollevarti, così la smetti con ‘ste serate messicane di merda.»

    «Portano clienti» si giustificò Nero. Non c’erano ristoranti messicani in zona e i cazzo di nachos e salsette vendevano. Non era disposto a cucinare solo quello, ma smarcarsi dalla concorrenza una volta a settimana era un toccasana. Non che avesse nulla contro la cucina tex-mex, solo credeva non fosse ciò che un cuoco italiano doveva fare. Men che meno, un cuoco toscano.

    Abbassò lo sguardo nel bicchiere, come si aspettasse di trovarvi le parole giuste. La verità era che il suo amico lo compativa, e lui non sapeva se accettare, mandarlo al diavolo, rifiutare con dignità o che altro. «Grazie», si limitò a dire, mentre la vergogna se lo mangiava.

    «Suvvia, un fa’ così, che ti conosco. Te sei un cuoco straordinario, lo sai bene.» Nero fece una smorfia. «Lascia fare, che l’è così. Solo che di affari un capisci una sega. Senza offesa, eh.»

    «Figurati.»

    «Vedilo come un investimento: quando tu sarai uno di quegli chef famosi, e io so che lo sarai, ricambierai il favore. Per ora, beviamoci su.»

    Nero sorrise e toccò con il bicchiere quello dell’amico.

    «Deh, parlano d’i’ killer enalotto», disse Lapo, indicando la televisione in un angolo della cucina, sintonizzata sul TG. Lo schermo mostrava scene di repertorio ormai familiari: carabinieri sotto il cavalcavia dov’era stata trovata la prima vittima, investigatori in tute bianche e inquadrature degli schizzi di sangue. Poi, però, ne seguirono di nuove.

    … rinvenuta la testa nel parcheggio, carbonizzata, mentre il cadavere…

    «Maremma mutilata, un altro!» imprecò Lapo. «Ci mancava solo un nuovo mostro di Firenze.»

    … la vittima, un uomo non ancora identificato, pare non avere nulla in comune con le altre. Il che la rende perfetta per quello che, ormai, è noto come il killer enalotto, per l’apparente casualità delle uccisioni e la mancanza di alcuna relazione tra…

    «C’è da

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