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Finis terrae - noir mediterraneo
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E-book570 pagine7 ore

Finis terrae - noir mediterraneo

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Info su questo ebook

Un parroco che sapeva troppo trovato incaprettato nella canonica del suo borgo, un comitato ambientalista che scava nei segreti di una discarica e di una centrale nucleare dismessa, una ballerina di un night sparita nel nulla, una squadra di calcio che perde per pagarsi lo stipendio, un cronista indolente che non sa come impiegare il proprio tempo, un gruppo di imprenditori che avvia una centrale a biomasse per dare futuro a se stessi, un gruppo di amiche sull'orlo di una crisi isterica per i tradimenti dei mariti, una commessa di una boutique che aspetta ancora il principe azzurro, un ex calciatore col vizio della cocaina, un faccendiere serbocroato che tratta puttane, calciatori e scommettitori come se fosse ancora un cecchino durante l'assedio di Sarajevo. Amore e odio che si rincorrono a ritmi forsennati, scavalcandosi e sovrapponendosi. E sullo sfondo lo Scirocco che avvolge una città, sospesa tra mare, laghi paludosi e macchia mediterranea, in una sorta di Finis Terrae.
LinguaItaliano
Data di uscita15 giu 2016
ISBN9788897264798
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    Anteprima del libro

    Finis terrae - noir mediterraneo - Gian Luca Campagna

    COLOPHON

    Tutti i diritti riservati

    Copyright ©2016 Oltre edizioni

    http://www.oltre.it

    ISBN 9788897264798

    Titolo originale dell’opera:

    Finis terrae

    di Gian Luca Campagna

    Collana * edeia / narrazioni *

    diretta da

    Elisa Amadori

    Diego Zandel

    progetto grafico:

    Sara Paganetto

    Prima edizione giugno 2016

    Indice

    DEDICA

    GIOVEDÌ DELLA SETTIMANA PRIMA

    VENERDÌ DELLA SETTIMANA PRIMA

    SABATO DELLA SETTIMANA PRIMA

    DOMENICA DELLA SETTIMANA PRIMA

    LUNEDÌ DELLA SETTIMANA DOPO

    MARTEDÌ DELLA SETTIMANA DOPO

    MERCOLEDÌ DELLA SETTIMANA DOPO

    GIOVEDÌ DELLA SETTIMANA DOPO

    VENERDÌ DELLA SETTIMANA DOPO

    SABATO DELLA SETTIMANA DOPO

    DOMENICA DELLA SETTIMANA DOPO

    LUNEDÌ DELLA TERZA SETTIMANA

    Davanti al mare l’idea di felicità è semplice

    (Jean Claude Izzo)

    GIOVEDÌ DELLA SETTIMANA PRIMA

    «Ancora quindici giorni e questi polletti sarebbero diventati perfetti» soffiò contrariata il donnone dagli occhi azzurri.

    Angelo Corelli cacciò un sorriso forzato, girò lo sguardo per il capannone, contemplò quella confusione che sommava bagnarole colme d’acqua bollente con carcasse di polli e galline da spennare, zucche e conserve di pomodoro.

    «Avete molti ordini in questo periodo?» domandò.

    «Aspettiamo sempre il Natale per vendere i capponi».

    «Quanto costa un pollo?» si grattugiò la barba vecchia di tre giorni.

    «Come un’anatra. Ma l’anatra dovrei venderla di più».

    «E quanto costa un’anatra?».

    «Quanto un pollo» gli rispose seria.

    «Vale a dire?» la fissò senza scomporsi.

    «Sette, sette euro e cinquanta al chilo».

    «Sia anatra che pollo» sorrise sfilando una Pall Mall azzurra dal pacchetto sgualcito, intercettato nella sahariana altrettanto stazzonata.

    «Sia anatra che pollo» confermò il donnone sbattendo il pennuto, ormai completamente glabro, contro le pareti della bagnarola.

    «Sia anatra che pollo» ripeté lui. Stavolta seriamente.

    «Scribacchino, cos’ha combinato Otello stavolta?» la donna ruppe quel siparietto accantonando l’aria distratta e fissando per la prima volta il cronista.

    «Nulla di serio» si schermò con le mani mentre ripensò a quando tre mesi prima Otello era stato colpito da Daspo per aver cosparso di letame la tribuna di tubi innocenti riservata ai tifosi ospiti, poi Corelli concentrò lo sguardo su un tappeto rosso che scendeva dalle tegole di eternit su cui erano saldati una falce e un martello. Veri. Il giornalista scosse il capo, poi carezzò il bastardello tarchiato che aveva cominciato a danzare vicino alle bagnarole.

    «Lui è Trotsky, giusto?» ammiccò.

    «Sì, è lui» rispose l’uomo, occupando un cono d’ombra vicino le casse delle conserve di pomodoro. Otello Bertin era un cristo di un metro e novanta per almeno cento chili di muscoli. Un omone che preferivi sempre avere dalla tua parte, a costo di abiurare alla tua fede calcistica e cominciare a tifare per la sua squadra.

    «A che devo l’onore, giornalista?» tagliò corto il cristo.

    «Uno sforzo di fantasia: li leggi i giornali, no?».

    «Certo. Guardo pure la tivù, anche se non ci si capisce più un cazzo con tutti quei canali e quei telecomandi, perdio» Bertin reclinò il capo e lo invitò a seguirlo. Si lasciarono alle spalle polli spennati, pomodori, bagnarole e capannone, varcarono la soglia della cascina, presero posto in cucina, l’uno di fronte all’altro, il solo tavolo a separarli.

    «Corelli, lo sai perché qua io non ho mai avuto recinti?» e con un movimento circolare abbracciò l’intera fattoria.

    Il cronista sospirò e gettò fumo.

    «Perché sono un uomo libero. Perché sono un uomo che non ha nulla da temere, nemmeno dai rom che occupano con le loro luride roulotte i confini di quella merda di discarica. E lo sai perché? Perché io sono un vero comunista, perdio».

    «Non c’entra nulla il comunismo, Otello» sbuffò il giornalista.

    «C’entra. C’entra eccome» precisò quello.

    «Ma non t’impediva di essere amico d’un prete» non si trattenne.

    «E che c’entra? Bisogna guardare i valori degli uomini» si scaldò.

    «Appunto» sorrise vittorioso.

    «Che vuoi sapere, ficcanaso?» ringhiò.

    «Un prete a capo di un comitato ambientalista viene trovato incaprettato e il caso viene archiviato. Io sono però convinto che abbia rotto le palle a qualche signore della discarica» e continuò a tirare di fumo.

    «Alt. Non siamo un comitato, ma un movimento spontaneo: siamo uomini liberi, se ne può far parte ma anche uscirne, non ci sono tessere né tasse d’iscrizione» Otello lo interruppe deciso.

    «Ma certo» sospirò.

    «Ho io una domanda per te, giornalista» si protese minaccioso. Per fortuna, pensò Corelli, che c’era il tavolo a dividerli. Il contadino indugiò, si sfiorò la mascella, strizzò gli occhi trasformandoli in due fessure strette da bagliori castani. «Secondo te è una storia di froci?» si schiarì la voce.

    «No» gli rispose calmo.

    Bertin tirò su col naso, fece scivolare le mani sudaticce sui pantaloni. Corelli lo soppesò: per la prima volta da quando lo conosceva, quell’omone gli apparve vecchio e disorientato, col viso cotto dal sole, con quelle rughe sulla fronte che somigliavano tanto alle righe regolari di un campo rastrellato di fresco.

    «E chi è stato allora?».

    «Non si entra in casa di un prete per rapinarlo e poi lasci i quattrini» Corelli stavolta sbuffò fumo e congetture.

    «E chi è stato allora?» ripeté stizzito.

    «Io sono venuto da te per trovare risposte. Tu invece le cerchi da me» lo fissò.

    «Nessuno si è più fatto vivo da quando è stato ammazzato Don Andrea. Sono trenta giorni che nessuno ha più il coraggio di spingere i tasti di un telefonino, perdio».

    «Cos’aveva scoperto?» lo incalzò.

    «Quello che qui in città sanno tutti ma che lui forse sapeva più degli altri» sibilò.

    «Lui? E tu, Bertin? Tu, no!?» e spense la cicca nel posacenere.

    «Io?! Cosa vuoi che ti dica…» e allargò le braccia sconsolato «Vuoi che ti dica che arrivano camion che sfrecciano veloci sulla provinciale, poi vengono inghiottiti solo Dio sa dove, scaricano e ripartono? Vengono di notte, proprio come i ladri. Perché, in Questura e in Procura ‘ste cose non le sanno? Noi stiamo in mezzo alla merda dalla mattina alla sera, quindi di puzza ce ne intendiamo, ma quella che lasciano ‘sti camion io non l’ho mai sentita in quarant’anni che faccio il contadino».

    «E poi?».

    «Poi, cosa?! Che vuoi sapere, perdio?» sbuffò opponendo un catenaccio verbale che avrebbe fatto invidia a Nereo Rocco.

    «Se Don Andrea era stato minacciato, se qualcuno del comit… del movimento, pardon, aveva notato anomalie, che ne so, gente strana che si aggirava in parrocchia» gesticolò con le mani.

    «Gente strana? Corelli, ma che ti sei rincoglionito? Don Andrea oltre che a prenderlo nel culo aiutava tutti, nessuno escluso. Non voglio dire che io lo condanno per i suoi gusti sessuali, perché la sua era una condizione… cioè, non è mica una malattia quella roba lì, però… insomma, Don Andrea aiutava chi era in difficoltà qui al borgo. E non ti dimenticare che a due chilometri da qui c’è la comunità per recuperare i tossici… e mi chiedi se c’è gente strana? C’abbiamo una discarica che è in odore di mafia, anzi di ecomafia come dite voi giornalisti che la puzza non la sentite ma la scrivete soltanto, se poi muovete il culo dalla sedia della redazione forse vi accorgerete che c’abbiamo anche le industrie che gettano chissà quale merda nei canali, oltre a una centrale nucleare dismessa ma che paradossalmente conta più operai della Riso Lembo».

    I due continuarono a fissarsi. Poi, Bertin riprese: «Ora, rifammi la domanda se vedo aggirarsi qui a Villareale tipi sospetti... Questa è una terra maledetta, Corelli, che non te ne sei accorto, perdio?».

    Il cronista sbatté sul tavolo il taccuino giallo, facendo rimbalzare la biro.

    «Se il Duce venisse a sapere com’è ridotta la sua Villareale dopo i sacrifici della bonifica, si rivolterebbe nella tomba e tornerebbe a prenderci a calci nel culo» masticò amaro.

    «Palude era e palude tornerà» sentenziò Corelli.

    «Quanto credi che potremo tirare avanti ancora con l’agricoltura? Qui un politico, sotto le elezioni, ha soprannominato queste distese coltivate come la futura Food Valley: si è preso più vaffanculo che voti» e si pulì il naso col palmo della mano callosa. «È tutto inquinato» mormorò. «Lo sai che una settimana fa c’è stato un continuo andirivieni di camion che portavano ghiaia e segatura?» grugnì.

    «Ghiaia e segatura?!» Corelli scosse la testa. Non capiva.

    «Le mischi alla calce e ottieni una mistura per tentare di impermeabilizzare. Ma che impermeabilizzi, perdio? Lo sai quanto percolato di monnezza penetra nel terreno? E lo sai dove percolano quelle scorie di rifiuti tossici?».

    «Nelle falde acquifere» soffiò con un filo di voce.

    «Bravo, giornalista: nelle falde acquifere. E lo sai con quale acqua allaghiamo le nostre risaie, innaffiamo i nostri ortaggi, il nostro granturco, le nostre viti?».

    Andò avanti, senza attendere risposta: «Food Valley, si pavoneggiò quell’idiota. Se l’avessi qui lo strangolerei con le mie mani, perdio» sputò sul pavimento fissando il cronista con due occhi che sembravano due bulbi incandescenti.

    *

    Il tuorlo cominciò a soffriggere. Fu in quell’istante che andarono a cozzare lungo le pareti di ceramica due bulbi bianchi con venature verdi, si mischiarono presto al rosso e non tardarono a cacciare fumo. Silvia versò lentamente mezzo bicchiere d’acqua minerale all’interno della padella per stemperare il bollore di quella poltiglia. Cercò con lo sguardo la terrina dove Francesco aveva tagliuzzato i pomodori essiccati ma non scorse quella del prezzemolo unito al basilico. Sospirò, poi individuò il misto vegetale sopra il tavolo. Quando chiedeva un aiuto al figlio in cucina questo era sempre a metà. L’impegno di Francesco era sempre al cinquanta per cento: nello studio, nei lavoretti estivi e nelle consegne domestiche. Per fortuna Irene era più giudiziosa e responsabile. Nella casseruola seguì con lo sguardo l’amalgamarsi degli ingredienti con l’albume che abbracciava pomodoro, cipolla e prezzemolo.

    «Mamma, io esco. Torno stasera. Ciao». Francesco non attese la risposta, tirò a sé la porta mentre i passi già risuonavano sulla rampa delle scale del condominio.

    «Ma ti ho preparato il pranzo!» gli urlò dietro la donna. Socchiuse gli occhi, sbirciò l’orologio da parete e realizzò che aveva ancora un’autonomia di ventisette minuti prima di precipitarsi alla boutique. Staccò un post-it e lo fissò sul frigorifero lasciando un messaggio alla figlia. Corse in bagno, s’umettò con un poco di ovatta sul viso per eliminare tracce di sudore, si spruzzò la lacca sui ricci in preda al vapore della cucina e afferrò veloce la trousse. Ricacciò dentro un singhiozzo quando si fissò allo specchio: vide una donna spaventata, stanca e depressa, dove tutte le aspirazioni della vita si erano frantumate. Fissò il display sul telefonino cellulare: in ventuno minuti doveva raggiungere il centro di Villareale. Sorrise: sempre in ritardo. Almeno in questo nella vita era stata coerente. Il ritardo aveva scandito tempi e modi della sua esistenza, con le sue scelte sbagliate e affrettate.

    Mentre accese il quadro dell’utilitaria pregò Iddio che almeno Irene potesse avere la possibilità di scegliere. Ma la Yaris balbettava. Sbatté il palmo sulla fronte. Ecco perché Francesco era uscito da casa veloce come un razzo. Aveva lasciato in profondo rosso l’auto e non voleva sorbirsi le lamentele materne. E lei intanto era in ritardo. E il distributore di benzina più vicino distava cinque chilometri: una follia coprire quella distanza con quel poco tempo che le era rimasto, e pensare che la signora Letizia si era raccomandata di aprire la boutique in perfetto orario, almeno in quel primo giorno che anticipava uno scorcio di stagione estiva. «Arriveranno i turisti per questo weekend di sole, non facciamoci cogliere impreparate: dimostriamo che anche in provincia siamo professionali come nelle grandi città» aveva sorriso. E certo. Telefonare a Irene non sarebbe servito a nulla, non le avrebbe risparmiato insulti coloriti. E nemmeno a Umberto, il suo amante, che in quel momento era di sicuro impegnato in una riunione col dottor Lembo per decidere strategie su come investire e guadagnare milioni in più con riso, mais e la nuova centrale a biomasse che avrebbero inaugurato a giorni. Figurarsi se avesse chiesto soccorso a Gerardo, l’ex marito. Che schiattasse, ovunque si trovasse.

    Intuito femminile, rise. Scese dall’auto e si diresse decisa verso il garage, attraversò il cortile condominiale ancheggiando coi pantaloni rossi bootcut che le fasciavano il sedere ancora da pin-up. Sorrise, a quarantuno anni era ancora una donna attraente. Aprì il garage e scrutò la parete degli attrezzi, occhieggiò alla fine quello che cercava: s’impossessò della sega elettrica che Gerardo anni fa non aveva reclamato, strappò qualche pagina dalla pila di Vogue che oscillava vicino alla mountain bike, le usò a mo’ di guanto e svitò il tappo con una torsione secca del polso. Vi lasciò cadere quasi per inerzia il naso, le narici furono assalite dall’odore stagnante della miscela, un mix stomachevole di etanolo e olio lubrificante che galleggiava nella pancia di quell’arnese dentellato. Ora si trattava di trasbordarlo in un recipiente a becco per poi agire direttamente nel serbatoio dell’auto. Rimediò nel cofano della Yaris una bottiglia d’acqua minerale semivuota e attuò l’osmosi. Lasciò cadere la motosega sul cemento, calò la porta basculante del garage, sculettò ruotando la bottiglia dal contenuto verde giallastro, augurandosi che il motore della Yaris non s’ingrippasse ingoiando quella miscela. Cacciò il collo della bottiglia dentro il serbatoio e ne sculacciò il fondo fino a versarne l’ultima stilla. Si catapultò nell’abitacolo e lasciò cadere la bottiglia in una pozzanghera d’acqua.

    *

    Il piccolo rotante cadde in acqua con un leggero tonfo. Nemmeno il tempo di chiudere l’archetto che con uno scatto rapido l’orata piombò sul gambero e con una torsione di novanta gradi lo ghermì famelica. La canna cominciò a flettersi e il pesce iniziò le sue evoluzioni in aria disegnando un’ellissi quasi regolare, costringendo Lorenzo, impantanato con gli stivali a coscia nelle acque del Lambroso, a mantenere un equilibrio sempre più precario.

    Il giovane cercò gli occhi del pesce mentre bloccava la preda stringendola in una morsa secca. Forse due chili, due chili e trecento, la osservò. Scaraventò l’orata nel retino sul greto e seguì il falco pellegrino che sembrava ricalcare la linea d’orizzonte delimitata dal tetto del deposito di scorie della centrale nucleare, che a quell’ora della mattina racchiudeva in un cono d’ombra buona parte del pontile, occupato da diversi pescatori seduti. Pescare tenendo i piedi saldi sul cemento non era mai stata la sua passione, preferiva immergersi nell’acqua salmastra con gli stivali e lasciarsi catturare dagli odori contrastanti di alghe, rami putrefatti e foglie marce. Così la sfida non era più impari: cacciatore e preda erano nello stesso ambiente. Era la stessa risposta che vomitava quando si trovava a giustificare perché in gioventù aveva partecipato per tre anni di fila alla corsa di San Firmino a Pamplona: nell’encierro lui e il toro correvano a perdifiato su quella lingua di ottocento metri che li separavano dall’arena. Il toro, guidato dai campanacci delle vacche, senza vaselina negli occhi e cotone conficcato nelle narici, lui armato solo di un Diario de Navarra arrotolato nella destra. E con una robusta dose di sangria che scorreva nelle vene. Fu in quel terzo anno che Lorenzo dovette rinunciare a tutti i sogni di gloria: a cinque metri dall’ingresso dell’arena fu sollevato, gli sembrò di restare sospeso per qualche secondo in aria, volteggiò quasi, o fu solo una sensazione, indurì i muscoli quando si unì alla sabbia mista a terriccio, inalò polvere atterrando col mento e avvertì, alla fine, quella lama a cono conficcata nel ginocchio, accogliendola tra carne, muscoli e ossa. Fu in quel momento che ululò. Quando toccò terra, realizzando che il ginocchio era compromesso. Carriera finita proprio quando si era affacciato sui campi dei grandi campioni: il corno destro di Diablo, un seicento chilogrammi di fasce muscolari allevato nei corral dell’Extremadura, gli aveva reciso in un colpo solo il legamento collaterale fibulare, il menisco laterale e il legamento crociato anteriore. Così il ginocchio sinistro lo aveva abbandonato. Sul letto dell’ospedale mister Bellotto lo aveva fissato pietoso dopo avergli mollato un ceffone. Poi, gli aveva voltato le spalle. A lui, che gli aveva salvato culo e panchina quando contro l’Ascoli aveva parato un rigore a tempo scaduto. Ma era il suo destino: la solitudine dei numeri primi, un gioco beffardo per chi nel calcio recita il ruolo del portiere. E da solo era rimasto per davvero dopo quella disavventura. Zoppo, senza una squadra, senza un futuro. L’ultima guasconata di Lorenzo Pagnossi, aveva titolato la Gazzetta all’indomani della notizia battuta dalle agenzie spagnole che avevano scoperto l’identità di quel giovane mescolato alla fiesta di San Fermìn. Gli eccessi erano stati da sempre la sua regola di vita, da quando a diciassette anni aveva perso i genitori in un incidente automobilistico. E la sua vita era continuata tra i campi. Campi arati. Campi profumati. Campi con pali. Il suocero si divertiva a deriderlo quando gli intimava che la palatura del vigneto sarebbe toccata solo a lui. Testadicazzo. Durante la rieducazione motoria gli era rimasta vicino solo Cinzia, che lo convinse a sposarla e a occuparsi dell’azienda vitivinicola del padre. E la sua vita era di nuovo cambiata. Ancora una volta. A soli venticinque anni.

    A fare l’agricoltore s’era ridotto, a immergere le mani nella terra, a discutere quale filare adottare per quella stagione, se valorizzare la massima pendenza delle colline o se posizionare i pali perpendicolari rispetto al terrazzamento. Lui, che credeva che il vino nascesse direttamente nelle bottiglie. Non aveva mai pensato che per produrre quel rosso si dovesse anche faticare. E poi il vecchio Morlacchi s’era messo in testa di ottenere il migliore Amarone mai prodotto e assaggiato, alla faccia dei veneti rimasti nella Valpolicella. Era riuscito a piantare lo scorso anno Corvina, Rondinella e Molinara sulle collinette dell’azienda Morlacchi. Il vecchio pazzo aveva deciso di concentrare su un unico ettaro le sue nostalgie venete, fantasticando che prima del grande viaggio avrebbe assaggiato il miglior Amarone. E a lui, al genero spiantato, all’ex portiere dai guanti d’oro ma tollerato perché marito dell’amata figlia, toccava il lavoro sporco: dopo aver trascorso l’autunno a spalmare merda matura sul terreno ecco che in quei giorni avrebbe dovuto concimarlo con azoto, fosforo e potassio, più colmare le carenze nutrizionali delle viti con una robusta irrigazione a base di boro, ferro e manganese.

    *

    Grazia glielo aveva detto. Senza tanti giri di parole. Era stata impietosa davanti al bar mentre lui sopprimeva la cicca sotto il tacco della scarpa, pronto per il primo caffè della giornata.

    «Ti stai trascurando» gli aveva sussurrato. Poi era esplosa guardandolo diritto negli occhi e infischiandosene di chi avesse attorno: «Hai gli abiti che puzzano. Fa qualcosa, perché se io sono tua amica e le cose te le dico, gli altri, che non sono tuoi amici, ridono di te e delle tue disgrazie». Era bastata quest’analisi che Corelli aveva nascosto le lacrime, era corso nell’appartamento e dopo una doccia rigenerante s’era rifugiato in una mezza bottiglia di quel rum agricolo che gli aveva regalato Aimée, la mulatta martiricana che a tempo pieno era una statuaria stripper all’Iguana Blue mentre a tempo perso era una prostituta nella sua mansarda etnica alla periferia di Villareale. Una calda compagnia a chilometri zero, come l’amava definire Corelli, data la distanza minima tra i condomini dove i due risiedevano. Come cliente affezionato, Corelli si era visto recapitare dal ritorno del viaggio nell’isola natia una bottiglia con un’etichetta scolorita. Il giornalista non aveva detto nulla, aveva svitato quel tappo di plastica consumata, con l’aroma pungente che gli aveva aggredito le frogie. Corelli aveva capito subito che quel liquido ambrato era un distillato di prim’ordine. Gli aveva strizzato l’occhio e mezzo collo della bottiglia era scomparso nelle sue fauci: sapore forte e di spessore, pulito, con un retrogusto di frutta cotta e colmo di sfumature di vecchia quercia, legno in cui quel nettare era stato cullato per almeno un lustro. Ecco, dopo le parole di Grazia s’era rifugiato in quella bottiglia di ambrosia. Benedette le puttane e il loro cuore, aveva mormorato tra sé Corelli. E ci si era attaccato. Affanculo al dottor Ferretti. Affanculo al losartan.

    Affanculo all’ipertensione.

    Affanculo.

    Affanculo a Patrizia.

    Affanculo.

    Si sarebbe ubriacato ma aveva ricevuto la chiamata dalla segreteria del questore per la conferenza stampa delle undici. Emanava un sapore forte e gradevole, di fiori secchi e marmellata di prugne. Da intenditori, per dirla tutta. Si reggeva anche in piedi, se era per quello. Ma lo tradiva l’occhio da pesce lesso. Corelli viveva la Questura come un porto franco, come se ne facesse parte nel ruolo di tappezzeria aggiunta. Appena ne varcava la soglia accennava un saluto con lo sguardo al tipo in guardiania, poi sfilava dalla sahariana una Pall Mall e se la incastrava tra gli angoli della bocca con strafottenza, ingoiava le scale consumando quei corridoi dalle maioliche scheggiate. L’ispettore Carminati lo aspettava insieme al questore Marcelli nella sala conferenze, ma Corelli, sotto l’effetto del rum caraibico prodotto nel rispetto delle nuove regole d’Appellation d’Origine Contrôlée, aveva imboccato un altro corridoio: se volevi avere notizie diverse da quelle degli altri colleghi che senso aveva starsene ad ascoltare la velina degli sbirri impomatati davanti alle telecamere e ai taccuini? Nella ricerca da segugio con le narici dilatate individuò Arcangelo Costantini, appuntato che aveva vissuto buoni momenti sportivi nello judo indossando la maglia delle Fiamme Oro ma che ormai riavvolgeva l’epica sul tatami prestando la sua fisicità nei servizi di scorta a privati dalla dubbia moralità ma coi portafogli gonfi. Con due matrimoni falliti alle spalle e davanti a una convivenza forzata che gli toglieva il sonno, Costantini era costretto a ritagliarsi ampi spazi per un secondo lavoro che spesso diveniva la prima occupazione, a discapito di quello Stato che aveva giurato di servire fedelmente.

    «Mi fai accendere, Corelli?» gli chiese appena se lo trovò davanti.

    «A patto che mi dai notizie di prima mano» gli sussurrò mentre si armò dello zippo.

    «E cos’è? Un ricatto?!» sorrise a denti stretti.

    «No. Un equo scambio di informazioni. Mentre tu te ne andrai a zonzo per uffici cercando un accendino, io avrò tutto il tempo per reperire notizie su un certo Aristide Camerota» e sbuffò fumo e arroganza.

    «Tu sei nato sbirro, Angelo. L’ho sempre saputo io» sibilò dopo un attimo di smarrimento.

    «No. Fortunate coincidenze» e ciccò sul pavimento.

    «Spara. Che vuoi sapere?» tagliò corto l’agente.

    «Quello che il questore non direbbe mai in una conferenza».

    «Presto detto: il ragazzo che ha causato l’incidente guidava sotto gli effetti di cocaina, ne era talmente imbottito che quando hanno cercato di sedarlo a momenti scoppiava la siringa…» e frenò una grassa risata.

    «A che ti riferisci?».

    «All’incidente avvenuto l’altra notte a Reggio Cartesio. Martino Manzoni prima s’è benzinato in diversi bar shortini uno dietro l’altro, poi s’è caricato con un bel po’ di polvere bianca, così alla guida della sua Smart ha tamponato l’auto di Paola Terenzi, che se l’è cavata con un bello spavento».

    Già, sbuffò Corelli: lo scontro automobilistico in un crocevia appena fuori Villareale che aveva coinvolto un giovane balordo e la moglie dell’ingegner Umberto Terenzi, direttore generale della Riso Lembo. Il giovane dopo l’incidente s’era dato alla fuga mentre la donna aveva svegliato tutto il vicinato con le sue urla isteriche. «E?…» proseguì Corelli.

    «Lo abbiamo pizzicato proprio stamattina alle 8 a casa sua. Sotto il materasso aveva nascosti dodicimila euro in contanti e dosi da far felice la metà di Villareale» sghignazzò.

    «Non so come sono fatti dodicimila euro in contanti figuriamoci dosi di cocaina per coprire il fabbisogno di mezza città» scrollò le spalle.

    «Ma io ho una mia personale teoria» e appoggiò i glutei al muro in atteggiamento spavaldo.

    «Cioè?» non si scompose Corelli, pronto a ricevere la notizia bomba.

    «Che la signora Terenzi sia un’abituale consumatrice di borotalco».

    «E quindi?». Uff, e sai che novità, masticò il giornalista.

    «Che quello l’abbia tamponata apposta per spaventarla, magari per un debito non pagato. E sotto gli effetti di sostanze psicotrope che ne hanno alterato la sua psicofisicità, lui ha…».

    «Parli come se recitassi un rapporto dattiloscritto» lo canzonò.

    «Secondo me avevano un conto in sospeso» sentenziò stizzito.

    Martino Manzoni doveva rispondere di omissione di soccorso, lesioni e danni a cose, guida senza patente, conduzione dell’auto in stato di sovreccitazione. Senza dimenticare la detenzione ai fini di spaccio di tutta la polverina magica ritrovata in casa sua.

    «Grazie per la ricostruzione ma non è questo il caso a cui sono interessato» gli sorrise sornione Corelli.

    «Ho capito. Vuoi notizie su Lara Petrescu, la cubista dell’Iguana Blue... bel pezzo di figa...» e schioccò la lingua come se avesse davanti la giovane che piroettava nuda attorno al palo.

    «Lara?! Perché?! È scomparsa?» inarcò il sopracciglio destro.

    «Da una settimana. È da una settimana che è sparita» e allargò le braccia.

    «Se ne sarà tornata a Timisoara».

    «A fare la parrucchiera? Qui guadagnava migliaia di euro con gli extra».

    «Cazzo, sei bene informato. Lo sai che la prostituzione è un reato in Italia, Arcangelo?» ironizzò.

    «Ma per favore, Corelli... Sai le volte che ti ho visto lì dentro?» e gli sfiorò il braccio in tono confidenziale.

    «E chi lo nega. Offro spesso da bere alla mia amica Aimée» scrollò le spalle «Tu, piuttosto... mica è un posto per poliziotti in borghese che poi spariscono nei camerini per spalleggiare boss in cerca di emozioni...».

    «Te lo ripeto: tu sei sbirro dentro, Corelli» serrò la mascella.

    «E tu vedi misteri dappertutto. Lara avrà trovato il suo principe azzurro o se ne sarà tornata in Romania a fare la cuafeza. Comunque, non è Lara che m’interessa» lo fissò serio.

    «Mortacci tua, Corelli… ma che cazzo stai a cerca’, allora? Ma se pò capì?!» e congiunse le mani in maniera interrogativa.

    «Indovina un po’» lo sfidò.

    «Non mi dire che stai in fissa ancora per quella storia di froci…» si batté il palmo sulla fronte.

    «Ti faccio notare che il frocio accoppato era un prete». Corelli agitò il pacchetto di Pall Mall per pescare una sigaretta.

    «E quindi?» Costantini sollevò le spalle.

    «Sii serio, per una volta. Tu che vedi misteri dappertutto, anche in un tamponamento tra tossicomani e nella fuga di una ragazza stanca di far sfruttare la propria figa ad altri, non scorgi nulla di anomalo in quel delitto?» lo fissò, tra lo stupito e il divertito, mentre s’accese la sigaretta.

    «E cosa vuoi che possa vederci di poco chiaro in una storia tra froci?» insisté.

    «Lo hanno trovato pestato e incaprettato» gli ricordò come per smuovergli l’intuito addormentato.

    «Un gioco erotico tra innamorati finito male, un classico delitto passionale...» argomentò scuotendo il capo con sufficienza.

    «Davvero?» corrugò la fronte.

    «Alcentopercento» e rafforzò il concetto formando due cerchi con pollici e indici.

    «Credi che si sia suicidato?» lo sbeffeggiò.

    «Sei uno stronzo, Corelli. Ma chi cazzo ti credi di essere? Sei un giornalista mica un poliziotto. E sei anche un cronista di provincia» lo insultò.

    «Se gli sbirri non fanno il proprio mestiere, tocca che lo facciano i giornalisti. Anche quelli di provincia».

    «Ma che cazzo cerchi? Si può sapere?!» alzò la voce.

    «Sei davanti a un omicidio e non fai una piega, Costantini. Lo sai che esiste il reato di omissione di atti d’ufficio?».

    «Ah sì? E da quando? Da quando c’è un atto che mi obbliga ad agire senza ritardo per indagare sulle voglie di un prete pedofilo?» lo guardò sprezzante.

    «Chissà se esisterà il reato di omissione d’indagine che punisce gli sbirri che hanno i chemiorecettori in letargo perenne» lo salutò mentre gli voltò le spalle.

    *

    Silvia contava sul ritardo perenne. Quello era divenuto una costante nella sua vita. Seppure col piede a mattonella sull’acceleratore per raggiungere la boutique, pregava che i semafori lungo il tragitto si colorassero tutti di rosso. Rosso significava che era costretta ad arrestarsi come contemplava il codice della strada, quindi aveva il tempo necessario per usufruire della sala trucco all’interno dell’abitacolo. In realtà quella era una costante: usciva di casa sempre senza un filo di trucco poiché considerava i momenti trascorsi in auto come un tempo morto. I gesti che abbracciava il make-up erano meccanizzati e registrati nella memoria, con la pratica erano divenuti robotici. Tra il ristorante del Chiattone e la villa del suo Umberto s’impossessò del correttore per cercare di camuffare con una tonalità chiara le occhiaie che campeggiavano fiere. Strizzò l’occhio a se stessa: quel correttore antiocchiaie lo aveva raccattato due giorni prima nel camerino della boutique, abbandonato sbadatamente da una cliente.

    Sentì delle urla in una lingua sconosciuta ma familiare. Non si scompose e continuò a guardare dallo specchietto ma dirigendo lo sguardo verso il lunotto: un indiano con un turbante e una lunga barba nera in sella a una scalcinata bicicletta le stava augurando una pessima mattina. Forse gli aveva tagliato la strada, ma non c’era dolo sorrise tra sé, quindi era giustificata. Si armò del fondotinta idratante, premette un poco di quella crema sottratta di nascosto alla figlia e se la uniformò con rapidi movimenti circolari sulle guance e sulla fronte con una spugnetta grassa già di suo.

    L’ombretto numero 22 comparve d’incanto tra le dita mentre aggrediva una curva con la quarta inserita: aveva frugato nella trousse per cercare il colore giusto e aveva optato per una tonalità neutra, si passò il rosa con maestria per spegnere le tracce di sonno arretrato e caricare gli occhi di un’energia cosmetica per affrontare il resto della giornata. Si passò il colore con l’indice poiché aveva smarrito il pennellino, sbandando a ottanta chilometri orari mentre percorreva la provinciale in uno dei tanti momenti estetici trascorsi nell’abitacolo della Yaris.

    Sfiorò le pinze per le sopracciglia, il suo arnese multiuso, utile anche per segare l’esatta metà di una rosetta da farcire.

    Poi scorse anche le tonalità verde e blu: magari prima di abbassare la saracinesca della boutique si sarebbe anche potuta colorare in modo più vivace per vivere un momento allegro con qualche amica, dando per scontato che anche quella sera Umberto sarebbe rimasto recluso in casa dalla moglie a recitare la parte del marito ideale. Ormai il ruolo dell’amante le stava stretto, ma non aveva senso comportarsi come una quindicenne isterica. Si era data un limite temporale: voleva trascorrere un’estate all’insegna della serenità, a Umberto avrebbe pensato in autunno.

    Tirò un sospiro di sollievo: era quasi arrivata alla fine del percorso in sala trucco. Sbirciò l’orologio: le 14.57. Al diavolo se apriva la boutique con qualche minuto di ritardo. Mancava ancora il fard per completare l’opera, così si spennellò gli zigomi con decisi movimenti circolari. Uff, è un lavoro ‘sto trucco, sbottò osservando soddisfatta il risultato allo specchietto retrovisore.

    Adocchiò un parcheggio vicino alla farmacia e con una sgommata tagliò la strada a uno scooter, con le ruote anteriori che avevano oltrepassato il marciapiede. Scese dall’auto, si guadagnò un fischio d’approvazione di un ragazzo, afferrò la borsa, ne estrasse la lacca spray e lasciò partire una spruzzata sui ricci. Sbirciò l’orologio incastonato sul cruscotto della Yaris: le 15 spaccate. Mai avrebbe creduto di farcela. Piroettò su se stessa e si diresse verso la boutique sfilando sulla passerella dell’american bar: la scortarono sguardi da voluttà porcina, complimenti repressi e borbottii da casa di tolleranza. Scosse la testa: una donna rischia incidenti a ripetizione per truccarsi in auto per apparire più fresca quando poi alla fine tutti si concentrano a guardarle solo il culo.

    Sulla porta della boutique la signora Letizia, appoggiata allo stipite, la fissava senza espressione. Silvia abbozzò un sorriso, istintivamente incollò gli occhi sul quadrante della farmacia, lasciò cadere la borsa sui sampietrini e lanciò un sospiro. Erano le 16. Nella notte era scattata l’ora legale e lei, come ogni anno, era stata coerente nell’errore perseverato: aveva dimenticato di portare le lancette avanti di un’ora.

    *

    Anticipare e portarsi avanti era scritto nel suo Dna. Agli appuntamenti amava arrivare prima degli altri. E questo gli tornava utile quando abbrancava il pallone nelle uscite, anticipando il suo avversario. Lorenzo afferrò la cesta adagiata sullo sperone di roccia, sbirciò le tre orate che ancora si dimenavano disperate mentre i quattro cefali erano già rassegnati a scortare patate tagliuzzate alla julienne. Nella vita ci si divide in chi sta dentro la cesta e chi invece sta fuori, chi le reti le fa, chi le reti le salva: elementare assioma della vita e del calcio, rifletté. Sedersi quella sera a cena col vecchio Morlacchi e i suoi amici equivaleva a stare dentro la cesta, a non avere una possibilità di fuga, a sottostare a progettualità borghesi, a recitare il ruolo del marito felice e fortunato accanto a Cinzia. Lorenzo si caricò la canna da pesca e s’inerpicò per un sentiero nascosto da eucalipti e pini marittimi mentre poco più in là gli ulivi rigavano la piana. S’aprì un varco tra i cespugli che delimitavano la parte alta del litorale. Sulla spiaggia quattro ragazzini tiravano calci a un pallone, come pali di fortuna avevano utilizzato due fusti abbandonati chissà da chi. A meno di un chilometro sorgeva la centrale nucleare, niente di più facile che quei bidoni provenissero da lì: è come nascondere l’immondizia di casa sotto il tappeto della sala da pranzo, scosse il capo Lorenzo. Poi, rifletté e arrivò alla conclusione che forse l’Arpa avrebbe dovuto vietare anche la pesca in quel tratto di mare. Arrestò il passo e fissò la cesta col bottino pescato, sperò che le carni fossero colme di piombo e cobalto, che il vecchio Morlacchi le addentasse con voracità e che i veleni facessero il loro decorso. Rise. Imboccò un sentiero puntellato di palme nane e dall’alto abbracciò con lo sguardo la scogliera, i laghi salmastri e il molo. Sul litorale riconobbe le maglie della squadra del Villareale che sgambettava sulla battigia per un richiamo di forza muscolare, sentì vibrare il fischietto del preparatore atletico e gli incitamenti dell’allenatore. Il Villareale militava in terza serie ed era impelagato nella lotta per evitare un’amara retrocessione, dopo che l’undici allenato da Mariotti era partito per guardare tutti dall’alto. Mariotti lo aveva avuto come allenatore in seconda quando aveva giocato una vita fa ad Ancona, un uomo senza un’idea che fosse una, un tecnico che rispecchiava l’uomo. Con lui in panchina il destino era già scritto: retrocessione certa. Lo sanno anche i bambini che fanno le formazioni sulla spiaggia a pari e dispari: per vincere ci vuole un buon portiere e un buon centravanti, chi i gol li evita e chi li fa, in questo modo mezza squadra è fatta. Concetti che a Mariotti non erano mai entrati in quella zucca vuota. Immerso tra passato e presente, col futuro in letargo, superò la macchia mediterranea, discese verso i declivi, sormontati in lontananza dalle ciminiere della Riso Lembo e dalle nuove strutture cilindriche della centrale a biomasse, poi virò sulle colline dominate dai tendoni delle viti. Le sue viti, quelle che aveva concimato per tutta una stagione con lo sterco. Nei pressi della cantina riconobbe la figura del suocero che parlottava con due uomini. Sospirò, soltanto la sua presenza lo agitava, come se fosse un centravanti che sta lì, fermo, apparentemente svagato, in agguato, pronto a castigarti appena riceve il più sporco dei palloni. Ma se guidava un suv, se vestiva Neil Barrett, se beveva Amarone e Sassicaia come fossero Coca-Cola, se poteva permettersi una vacanza ogni quindici giorni doveva sempre ringraziare quel vecchio bastardo.

    «Lorenzo, vieni qui» gli ordinò con tono neutro.

    Il giovane si trascinò per raggiungerli, poi cacciò un sorriso di circostanza.

    «Ti presento l’assessore Silvio Marsupi, delegato alle attività produttive della Provincia e il dottor... mi scusi, come ha detto che si chiama?» corrugò la fronte il vecchio Morlacchi.

    «Sono Denis Zappacosta, dell’istituto zooprofilattico sperimentale della Regione» gli rispose seccato mentre l’assessore stringeva la mano a Lorenzo.

    «Piacerelorenzopagnossi...» mormorò.

    «Il portiere?!...» lo indicò sorpreso Marsupi.

    «Sì, è lui» accorciò le presentazioni il suocero «E non si capisce perché debba mantenere il suo cognome visto che ha sposato una Morlacchi».

    Zappacosta e Marsupi sorrisero imbarazzati. «Se volete scusarmi...» bofonchiò Lorenzo ritirandosi verso la cascina.

    «Non tardare. Abbiamo ospiti di riguardo a cena»: più che un invito le parole del suocero somigliavano a un ammonimento.

    «Vecchio bastardo, te la farò pagare, quanto è vero Iddio» sussurrò Lorenzo mentre immaginò che avrebbe sfogato tutta la sua rabbia repressa sul dirigente della Cremese da cui attendeva novità prima di cena nel parcheggio del supermercato.

    *

    «Allora, novità?».

    «Novità?! Quelle le chiedo io a te». Corelli guardò interrogativo l’amico oste.

    «Tortorelli ha riassorbito la botta al ginocchio sinistro?».

    «Sono venuto per pranzare, Fabrizio» gli fece notare piccato.

    «Non lo sai forse che conversare mentre si mangia facilita la digestione?» lo riprese bonariamente.

    «Che passa oggi il convento?» tagliò corto Corelli. Riempirsi lo stomaco gli sembrava un’ottima idea, sia per eliminare l’emicrania incombente sia per alleviare la malinconia che l’aveva assalito dopo che uscendo dalla Questura si era imbattuto in Patrizia, la

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