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Il cavaliere, la strega e... Antologia di racconti fantasy e fantastici
Il cavaliere, la strega e... Antologia di racconti fantasy e fantastici
Il cavaliere, la strega e... Antologia di racconti fantasy e fantastici
E-book193 pagine2 ore

Il cavaliere, la strega e... Antologia di racconti fantasy e fantastici

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Info su questo ebook

Il filo conduttore dei racconti che compongono l’antologia è il “Fantastico” declinato in alcuni dei generi in cui si articola.

Si parte da un’ironica rilettura dei romanzi cavallereschi con il personaggio di Giovannarturo Cuore Ardito di Rocca Alta, paladino un po’ sopra le righe pur nella sua fedeltà ai principi della “Cavalleria”, e si continua con l’Urban Fantasy le cui protagoniste sono giovani streghe che vivono come ragazze dall’aspetto normale in una città moderna.

Si spazia poi dal Fantasy classico, che vede l’eterna contrapposizione tra il Bene e il Male, allo Steampunk, venato da qualche sviluppo romance, con vicende ambientate sulla Terra e su altri pianeti del sistema solare.

Alcuni racconti, infine, rientrano a pieno titolo nel puro filone “favolistico” poiché accompagnano il lettore in un mondo che all’apparenza sembra simile al nostro, ma le cui dimensioni, in realtà, oltrepassano il limitato orizzonte dei sensi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2015
ISBN9788867824700
Il cavaliere, la strega e... Antologia di racconti fantasy e fantastici

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    Anteprima del libro

    Il cavaliere, la strega e... Antologia di racconti fantasy e fantastici - Marco Bertoli

    casuale.

    Chi è il cattivo?

    Giunto sulla cima della collinetta spelacchiata Giovannarturo Cuore ardito di Rocca Alta trattenne le briglie di Fulmine di guerra, il suo fido destriero, e sospirò.

    I dardi a picco del sole rovente di mezzodì arrostirono il giovane ventunenne racchiuso in un lucido guscio d’acciaio mentre gli occhi verde smeraldo scrutavano rassegnati il desolante panorama che si stendeva ai piedi della ridicola altura. Soltanto un boschetto di alberi rachitici interrompeva il malinconico e monotono alternarsi di acquitrini e canneti che occupavano l’intero orizzonte. Sbuffi improvvisi di vapore mefitico e nuvole turbinose d’insetti si levavano da quella landa conosciuta con il nome beneaugurante di Palude delle anime perse. Una densa zaffata che sapeva di marciume vegetale e cadaveri putrefatti assalì le narici di Giovannarturo, scendendo poi nella gola che bruciò con il suo sapore fetido. Il giovane storse il naso per il disgusto e tossì. Bella la vita del Cavaliere errante!

    Venuto al mondo dopo la primogenita coppia di gemelli, Cuore ardito, questo il soprannome che si era scelto, era stato costretto ad abbracciare la carriera del paladino, preferendo una vita raminga e solitaria all’alternativa di un’esistenza all’ombra dei fratelli maggiori che si erano spartiti senza problemi il feudo paterno. A suo onore bisogna riconoscere che aveva anche pensato di ritirarsi in un monastero, ma dopo tre mattine in cui era stato svegliato all’alba per celebrare gli Inni all’Astro nascente aveva concluso che quel genere di occupazione non si conciliava per nulla con il suo bioritmo naturale.

    Raddrizzare torti, consegnare banditi alla giustizia, salvare vergini in pericolo, uccidere draghi: così si guadagnava la pagnotta. Il brontolio sordo dello stomaco risentito lo richiamò alla dura realtà: era dalla sera prima che non metteva nulla sotto i denti.

    E dire che in principio tutto era sembrato filare nel verso giusto. Nel giro di breve tempo, grazie alla riuscita di alcune imprese già celebrate dai bardi, si era conquistato una fama più che discreta di campione degli oppressi, poi le cose avevano preso ad andare a rotoli.

    Primo, Sua Altezza Ghir–Ig–Oro III aveva posato il suo aristocratico deretano sul Trono del cinghiale. Uomo dai modi spicci e villani, la sensibilità di una pietra ma l’energia di un vulcano, aveva subito intrapreso un’azione di pulizia delle vie del reame cosicché i rari banditi di strada superstiti avevano preferito dedicarsi ad altre attività piuttosto che correre il rischio di essere impiegati come lugubri ornamenti appesi ai cappi delle forche erette ai crocicchi.

    Poi l’Arcimago Niger Fulgentius aveva scoperto per caso che mescolando tre parti di sangue di salamandra con una parte di code di vipera essiccate si otteneva una pozione che aveva l’effetto di trasformare qualsiasi vergine, anche la più restia e pudibonda, in una vogliosa e scatenata sgualdrina. Giù burro e latte, aveva battezzato l’intruglio, popolarmente noto con l’acronimo gbl, che aveva ridotto in maniera drastica la quantità delle pulzelle da salvare.

    Infine i draghi. Quelle simpatiche e sagge lucertolone, tutte artigli e scaglie, ogni cento anni abbandonavano il continente per volare sino alle mitiche isole Ben–Dive dove per un lustro si accoppiavano come conigli in preda alla fregola, tanto per usare un’espressione volgare ma efficace. Sfortuna aveva voluto che il momento fatidico fosse coinciso con l’inizio di quell’anno.

    E i torti da raddrizzare? Una pesante cappa di stucchevole onestà era calata sulle sette province e i cinque distretti del regno, soffocando qualsivoglia anelito di malefatta. Secondo gli astrologi di corte la stupefacente congiuntura era dovuta a un insolito allineamento di lune e pianeti: un evento che si verificava a cicli di millenni.

    Borsa desolatamente vuota e pancia quasi a digiuno, nessuna idea valida in testa, Giovannarturo aveva lasciato l’onere della decisione sul dove dirigersi a Fulmine di guerra. Il nobile destriero, formidabile cavallo da battaglia sì ma, ahimè, assai sfornito quanto a facoltà intellettuali, aveva imboccato un’ampia strada che si era presto ristretta a semplice mulattiera sino a ridursi a tortuoso sentiero che era svanito tra gli stentati ciuffi d’erba che spuntavano sulla cresta della bassa collina antistante alla famigerata palude.

    «Che si fa?» domandò Cuore ardito al cavallo e al nulla che li circondava. Uno sbuffo e un breve nitrito furono la risposta dell’animale che avanzò di un paio di passi per raggiungere un cespo di steli che parevano più appetibili degli altri.

    Il cavaliere scrollò le spalle. Andare avanti o tornare indietro erano entrambe opzioni valide. A ben riflettere, però, era opportuno concedersi una sosta. Un sorso di acqua marcia, qualche miserabile pescetto arrostito e un pisolino all’ombra di quegli alberi scheletrici erano più attraenti del pensiero di altre ore trascorse a cavalcare sotto il sole, tormentato dall’arsura e dai morsi della fame. Certo era disdicevole dover provvedere di persona a procurarsi il cibo e cucinarlo, abbassandosi al rango di uomo del popolo, ma occorreva fare di necessità virtù. Comunque, lì attorno non c’era nessuno che potesse assistere a quella scena ignominiosa.

    Un grido riscosse Giovannarturo da quelle profonde e plumbee meditazioni. Girò all’intorno uno sguardo perplesso tuttavia non scorse nulla che spezzasse la calma mortale del pantano. Forse se lo era solo immaginato: del resto la sua cavalcatura continuava a brucare i ciuffi d’erba dall’aria commestibile senza dar segno di aver inteso nulla di preoccupante. Scosse il capo e si sturò un orecchio con il mignolo intanto che batteva il palmo della mano contro l’altro.

    L’urlo si ripeté, questa volta più acuto e stridulo. Il giovane si sollevò sulle staffe e puntò gli occhi verso il boschetto cercando di penetrare il rado fogliame giallastro. Che si trattasse del richiamo di un uccello di palude? Per quanto aguzzasse la vista e si schermasse la fronte con la mano, non riuscì a distinguere nessun movimento tra le fronde.

    Uno strillo da sfondare i timpani si levò dagli alberi. Anche Fulmine di guerra alzò la testa, puntando sicuro il muso verso l’origine del clamore. Cuore ardito non ebbe più dubbi: era una voce femminile colma di terrore quella che aveva udito. Un ruggito animalesco rimbombò contro il dolce declivio della collina: il verso feroce della belva che ha raggiunto la preda.

    Il paladino diede di sprone e lanciò il destriero al galoppo giù per il pendio in uno schizzare di zolle di terriccio indirizzando al cielo il proprio inno di battaglia: «Montjoie! Sant’Eufrasto! Ch’io perisca se non aggredisco!».

    Nel tempo di quattro fiati cavaliere e cavalcatura raggiunsero la macchia aprendosi di forza il passaggio tra i tronchi e i rami che, da vicino, si rivelarono più fitti del previsto e pretesero dall’eroe un generoso pedaggio di sgraffi e contusioni. La pazza corsa terminò in un’angusta radura che si apriva nel bel mezzo della selva striminzita. D’istinto Giovannarturo tirò le redini, costringendo Fulmine di guerra a impennarsi sulle zampe posteriori per assorbire la violenza dell’arresto, quando vide la scena terribile che si stava recitando nello spazio erboso.

    Una figura umanoide mostruosa, alta circa tre metri, pelle verde coperta da peli ispidi e devastata da orride pustole, unghioni lunghi e affilati come pugnali, sovrastava una fanciulla seminuda addossata contro il tronco di un albero. Dalla bocca aperta dell’obbrobrio, uno scintillare maligno di enormi zanne giallastre, colava una bava appiccicosa che sfrigolava nel toccare il terreno.

    La ragazza, al massimo ventenne, tentava con un braccio proteso di tenere a bada il suo assalitore mentre con l’altro si copriva pudibonda le carni eburnee scoperte dai vestiti ridotti a brandelli. Nell’accorgersi dell’entrata sul palcoscenico di un provvidenziale salvatore supplicò: «Aita!».

    Il primo pensiero che attraversò la mente del campione fu: Un trollorco! Il secondo: Cosa caspita ci fa qui? Il terzo: Una vergine in pericolo! Non seguì un quarto perché, rimpiangendo la lancia impegnata per pagare cena e pernottamento in una lurida locanda, in perfetto automatismo sganciò lo scudo dall’arcione, sguainò la spada, la micidiale Zanna bianca, e affondò gli speroni acuminati nei fianchi del suo destriero caricando la belva.

    I trollorchi, un incrocio di natura magica tra un troll e un orco di solito impiegato per custodire i tesori degli stregoni, sono creature stupide ma inaspettatamente agili e fornite di sensi acuti: neppure il tempo che Giovannarturo percorresse un paio di metri e già si era voltato per affrontare il nemico. Un braccio spropositato calò sullo scudo del cavaliere che, colto di sorpresa dalla rapidità della reazione, fu sbalzato via dalla sella. L’incauto eroe si esibì in una sgraziata piroetta in aria prima di abbattersi a terra in un umiliante frastuono di ferraglia. La caduta non ferì tanto il corpo quanto l’orgoglio, per l’onta d’essersi mostrato così incapace di fronte alla donzella che voleva salvare.

    Per fortuna di Cuore ardito costei emise un tale gemito di raccapriccio nel vedere disarcionato il suo supposto campione che il minuscolo cervello del trollorco si distrasse, rivolgendo l’attenzione verso la vittima più facile e appetitosa.

    Sia pure stordito, Giovannarturo trovò la forza di rialzarsi e, brandendo la spada con entrambe le mani, barcollò verso il mostro che, da parte sua, aveva deciso che era ora di affondare le zanne in quelle morbide carni che gli infastidivano le orecchie a cavolfiore con quell’insopportabile sequela di strilli.

    Il cavaliere vide la donzella chiudere gli occhi per lo spavento quando l’orrida creatura spalancò la bocca avvolgendola con il suo alito pestilenziale. Ancora un attimo e quelle fauci crudeli l’avrebbero straziata. Non poteva permetterlo. Un fiotto d’energia gli scorse per le membra: spiccò un salto e colpì il trollorco alla schiena. Zanna bianca affondò senza sforzo, squarciando pelle, carne e ossa fino a trapassare l’orrida creatura da parte a parte.

    Stupito il mostro guardò la punta metallica che spuntava dal suo torace, incapace di spiegarsi il misterioso fenomeno. Quando il suo primitivo sistema nervoso registrò il dolore che s’irradiava dal costato, era già morto, il cuore gigantesco tagliato in due dalla lama. Il trollorco crollò al suolo con il fragore di una quercia abbattuta dal temporale. Ebbe qualche sussulto, si lamentò come un bambino e, infine, giacque immobile.

    Ansimando, l’uccisore si rivolse alla giovane con un inchino invero un po’ impacciato: «Giovannarturo Cuore ardito di Rocca Alta al vostro servizio, madamigella».

    Tutto si sarebbe atteso tranne quello che accadde dopo la rituale presentazione.

    «Per le quadruplici poppe di Ekkata, chi ti ha detto d’intervenire, dannata tartaruga di latta? Avevo la situazione in pugno, malnato!» sputò la fanciulla, il viso alterato da un’espressione di rabbia incontenibile.

    Il cavaliere mosse un passo indietro, allibito e sconcertato per quell’aggressione verbale. Persino Fulmine di guerra che aveva assistito allo scontro restando prudentemente al bordo della radura nitrì per la sorpresa nell’udire quell’esclamazione a dir poco insolita sulle labbra di una vergine.

    «Ma damigella, io…».

    «Possibile mai che in questo regno una ragazza non possa trastullarsi in pace? Sei lì che stai giocherellando con il pranzo ed ecco che un paladino rompiscatole si mette di mezzo e ti rovina il divertimento! Ah, per il triplice pene di Azamuth, meriteresti che ti divorassi al suo posto!» continuò imperterrita, avvicinandosi al malcapitato e battendo un dito lungo e snello contro il pettorale dell’armatura.

    «Pranzo? Divorarmi? Affè mia, damigella, non vi capisco» balbettò Giovannarturo che cercava di dare un senso alle parole di quella pazza furiosa.

    «E finiscila con questa damigella! Non sono una fanciulla indifesa! Lo sai con chi hai a che fare?» urlò esasperata la giovane.

    Il paladino scosse la testa in segno di sincero diniego.

    «Allora mi presento: io sono Lamia Drakaina Sybaris, Lamy per gli intimi» esclamò la presunta donzella, spingendolo a sedere sull’erba giallognola.

    Lo sguardo d’incomprensione che Giovannarturo le rivolse la scatenò. Terrorizzato il povero cavaliere la vide trasformarsi: gli occhi azzurri come il cielo dopo la pioggia divennero gialli come limoni, le pupille si ridussero a due fessure verticali simili a quelle di un serpente, i capelli biondi virarono a un viola animato di vita propria. La pelle candida si coprì di minuscole scaglie iridescenti, le unghie delle dita si allungarono in minacciosi artigli dai riflessi argentei e le labbra carminie stirate in un ghigno ferino schiusero una chiostra di denti aguzzi e fini come aghi.

    La metamorfosi durò soltanto pochi secondi ma bastarono al paladino per rendersi conto del madornale errore che aveva compiuto: in confronto a una donna serpente, il trollorco era innocuo come un cagnolino. Disperato cercò con gli occhi Zanna bianca: era a un paio di metri di distanza, sempre infissa nella schiena del mostro. Forse con un balzo sarebbe riuscito ad afferrarla e…

    «Non ci pensare nemmeno» sibilò Lamy. «Non riusciresti nemmeno ad alzarti che le mie zanne ti squarcerebbero il collo. E comunque non ho intenzione di ucciderti, almeno per ora. Sono bloccata in questo stramaledetto bosco dall’incantesimo di un mago infuriato: appena fuori, per un raggio di cento miglia non posso camminare sulle mie gambe. Tutto perché mi ha sorpreso a letto con sua moglie: che esagerazione! Di tanto in tanto per sfamarmi m’invia un animaletto, con la segreta speranza che riesca ad accopparmi. Ad ogni modo, non posso andarmene via da qui se non su una cavalcatura. Per tua buona sorte credo che quell’ammasso di carne equina ti sia troppo fedele perché permetta a qualcun altro di montarlo».

    Incapace di profferire parola Giovannarturo assentì, pur conscio di contravvenire alla regola aurea della cavalleria: non mentire. Fulmine di guerra, infatti, possedeva un’indole paciosa e si faceva cavalcare da chiunque fosse in grado di salirgli in groppa.

    «Ti propongo un patto: la tua vita in cambio di un passaggio sino oltre la palude» disse Lamy guardandolo di sottecchi.

    Il campione soppesò per qualche momento le possibilità che gli si prospettavano davanti, poi, conscio di non avere altra scelta che fidarsi della parola dell’essere serpentino, acconsentì: «Sta bene».

    «Perfetto!» esclamò la ragazza, un sorriso di trionfo sulla bocca, allungandogli la mano per aiutarlo ad

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