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Leopard Rock. L'avventura della mia vita
Leopard Rock. L'avventura della mia vita
Leopard Rock. L'avventura della mia vita
E-book395 pagine4 ore

Leopard Rock. L'avventura della mia vita

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Info su questo ebook

“Scrivo libri da oltre cinquant'anni. Sono stato abbastanza fortunato da evitare le grandi guerre e non esserne colpito, ma al tempo stesso sono cresciuto tra gli eroi che vi hanno partecipato e ho imparato dal loro esempio.
Nella mia vita ho avuto molto spesso fortuna. Ho fatto cose che al momento sembravano spaventose, ma da queste esperienze è nata una nuova storia e la capacità di scrivere libri che la gente ama leggere.
Ho vissuto una vita che non avrei mai potuto immaginare. Ho avuto il privilegio di conoscere persone provenienti da tutti gli angoli del mondo, sono stato ovunque il mio cuore abbia desiderato e nel frattempo i miei libri portavano i lettori in moltissimi luoghi.”


Wilbur Smith racconta con onestà e grande maestria gli episodi più intimi della sua vita, che sono stati anche di ispirazione per le sue storie.
Leopard Rock, dal nome della sua tenuta in Sudafrica, è la testimonianza di uno scrittore dalla vita ricca, avventurosa e appassionante tanto quanto i suoi romanzi.

LinguaItaliano
Data di uscita10 mag 2018
ISBN9788858984062
Leopard Rock. L'avventura della mia vita
Autore

Wilbur Smith

Considerato l’indiscusso maestro dell’avventura, è nato nel 1933 in Africa centrale e si è spento il 13 novembre 2021. Ha pubblicato più di quaranta titoli, tradotti in ventisei lingue, fra cui il ciclo ambientato nell'Antico Egitto e le celebri serie dedicate ai Courtney, ai Ballantyne e a Hector Cross. Nel 2015 ha fondato la Wilbur & Niso Smith Foundation, che promuove la cultura e la narrativa d'avventura. Fiore all'occhiello della fondazione è il prestigioso Wilbur Smith Adventure Writing Prize.

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    Leopard Rock. L'avventura della mia vita - Wilbur Smith

    Wilbur Smith - Leopard Rock. L'avventura della mia vitaWilbur Smith - Leopard Rock. L'avventura della mia vitaHarperCollins Italia

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    On Leopard Rock

    Copyright © Orion Mintaka (UK) Ltd, 2018

    Originally published in the English language by Bonnier Zaffre, London, UK

    Traduzione di Sara Caraffini

    Wilbur Smith detiene il diritto morale

    di essere identificato come autore dell’opera.

    Per le citazioni contenute nel testo si rimanda alle seguenti edizioni:

    William Shakespeare, Come vi piace, trad. it. A. Calenda e A. Nediani,

    © 1982 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell’Editore.

    George Orwell, La strada per Wigan Pier, trad. it. di G. Monicelli,

    © 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell’Editore.

    Ernest Hemingway, Vero all’alba, trad. it. di L. Grimaldi,

    © 2011 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell’Editore.

    Ernest Hemingway, Il vecchio e il mare, trad. it. di Fernanda Pivano,

    © 2011 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell’Editore.

    William Shakespeare, La tempesta, trad. it. Salvatore Quasimodo,

    © 1981 Mondadori Libri S.p.A., Milano, per gentile concessione dell’Editore.

    Charles Pick’s Memoirs: Charles Pick Archive, University of East Anglia.

    On Flinder’s Face: è stato fatto ogni sforzo per rintracciare i possessori dei diritti

    del materiale riprodotto in questo libro. Saremo felici di inserire le indicazioni del caso

    in ogni successiva edizione di questa pubblicazione.

    © 2018 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5898-406-2

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall'editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l'alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell'editore e dell'autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell'editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l'opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Dedico questo libro a te, mia NisoJon,

    con un imperituro pegno di amore eterno.

    Tuo marito

    Wilbur

    Non è magia.

    Esistono bensì delle forze naturali occulte,

    ed io ne conosco in parte il segreto.

    Henry Rider Haggard, La donna eterna

    1

    CREPUSCOLO

    L’Africa è antica, sconfinata, maestosa, una terra di morte e rinnovamento. Possiamo pensare che l’uomo sia la specie dominante, ma in queste pianure senza tempo, sotto un cielo azzurro che sembra tremolare per i raggi roventi del sole, la vita ha ritmi che prescindono da noi. Qui ci è dato di essere liberi e il nostro spirito può trovare sollievo, ma solo se in cambio offriamo rispetto, lealtà e umiltà.

    Nel sole di mezzogiorno, mia moglie e io cerchiamo l’ombra e io sto il più possibile immobile, con la schiena appoggiata a un albero, per risparmiare energie. Bevo un sorso d’acqua. L’erba è tagliente e secca, dorata dalla polvere, e riesco a sentire la vita scorrere lenta nell’aria, nei cespugli, nel terreno, un mormorio meccanico come il fluire del sangue che pulsa nelle mie vene. La natura selvaggia è bella come l’amore e letale come il crepacuore. Mi volto verso mia moglie e lei mi guarda con un sorriso, ma a volte mi sembra di scorgere nei suoi occhi una sorta di pietà per quest’uomo inquieto, condannato a un eterno peregrinare in cerca di qualcosa che non sa definire e che probabilmente sarà sempre al di fuori della sua portata. A che genere d’uomo ha scelto di legarsi? Qual è il viaggio che ha deciso di affrontare?

    Una settimana fa era seduta insieme a me in un rozzo capanno da caccia fatto d’erba, a scrutare dalla feritoia lo stretto cunicolo che i portatori d’armi avevano ricavato nel fitto sottobosco, perché un proiettile che viaggia a novecento metri al secondo può essere deviato anche dal ramoscello più piccolo. Il cunicolo misurava cinquantacinque metri esatti per consentirci di prendere la mira con precisione millimetrica.

    Il mio fucile poggiava sulla biforcazione di un ramo davanti a me, e dovevo sollevarlo di quattro o cinque centimetri appena per essere pronto a mirare e sparare. Era un .416 Rigby, regalo di mia moglie per il nostro decimo anniversario.

    Prima di lasciare l’accampamento ci eravamo lavati con un sapone senza profumo per ridurre il rischio che i grandi felini percepissero il nostro odore; altrimenti avrebbero potuto fiutare la nostra presenza da tre chilometri di distanza anche sottovento.

    Avevamo usato come esca la carcassa di una bufala, e il puzzo penetrava a folate nel nostro nascondiglio mentre stavamo appostati sottovento. Avevo scelto una femmina che aveva superato da tempo l’età fertile e apparteneva a un branco formato da diverse centinaia di quei muscolosi bovini neri. Il proiettile era penetrato nella spalla trapassandole il cuore e la bestia era morta prima ancora di toccare terra. Il fragore della detonazione era echeggiato nella pianura e la mandria si era dispersa, mentre il sangue sgorgava dalla ferita nella luce cruda del sole e il cupo muggito d’agonia dell’animale mi attraversava come una scarica elettrica, suscitando in me un’ondata di euforia e rimpianto.

    I tracciatori avevano tagliato a pezzi la carcassa per poi issarla su un albero, a un’altezza tale che un leone, rizzandosi sulle zampe posteriori, avrebbe potuto cibarsene ma non portarla via. Di lì a breve sarebbero comparsi i mosconi blu-verdi della carne, come scintillanti cuscinetti a sfera attirati da una potente calamita, che avrebbero accelerato il processo di decomposizione.

    L’odore della morte porta con sé un timore primordiale, e mentre aspettavamo che i felini si accorgessero della preda il sole si abbassò lentamente nel cielo conferendo alla boscaglia una sfumatura albicocca e ai colori un’intensità particolare, quasi fossero saturi della loro stessa bellezza. Incoraggiati dal crepuscolo, gli uccelli uscirono a contendersi il territorio, rivendicandone la proprietà con roco abbandono, mentre i pappagalli si lanciavano in picchiata come frammenti di arcobaleno. C’erano anche un paio di nettarinie, nervose e volubili nel loro piumaggio iridescente, che succhiavano il nettare da alcuni fiori gialli.

    Tutto a un tratto l’aria parve vibrare di tensione. Un animale entrò con passo felpato nell’area di caccia sotto la carcassa. Sollevai il fucile e tolsi silenziosamente la sicura cercando di distinguere cosa si accingesse a cibarsi della bufala. I raggi del sole morente colpirono il suo manto dorato, illuminando la gola color crema, le morbide orecchie dalla punta nera e lo sguardo fisso dei vigili occhi gialli, con le pupille nere simili a punte di freddi pugnali d’acciaio mentre scrutavano il cunicolo fermandosi sul sottoscritto, che lo osservava da dietro la canna del fucile.

    Era un felino maestoso, slanciato e flessuoso. Non esiste animale selvatico più elegante. È in momenti del genere che rifletto sui micidiali calcoli che attraversano il cervello di un leone mentre valuta il pericolo o l’opportunità che ha di fronte. L’uomo si trova in una posizione di vantaggio, ma non sempre. Una lieve pressione sul grilletto, per dirla con Hemingway, come l’ultima rotazione della chiavetta che apre una scatola di sardine, e tutto sarebbe finito. Inquadrai nel mirino la testa del felino. Non aveva criniera; era una leonessa. Non potevo sparare. Era troppo preziosa per la procreazione, e per giunta sono previste ingenti sanzioni e persino la detenzione per chi uccide una femmina. I safari legali sono ben organizzati e costituiscono uno dei più efficaci metodi di salvaguardia della fauna, in Africa, e io ho dei principi da cui non mi discosto mai. Se sei leale alla terra, essa ti accoglie nel suo abbraccio; se uccidi in maniera indiscriminata, la tua anima finirà all’inferno.

    La leonessa si rizzò sulle zampe posteriori e cominciò a sbranare la carcassa della bufala con un appetito selvaggio, violento.

    Mia moglie e io osservammo in silenzio quella forza primordiale che non mancava mai di farmi correre un brivido lungo la schiena.

    Tornammo per diversi giorni nello stesso luogo, restando appostati per molte ore, ma il vecchio maschio non comparve mai. Forse conosceva i nostri trucchi, non era ancora pronto ad arrendersi e avrebbe imperversato fino alla fine dei suoi giorni.

    Quella mattina avevamo visto cudù e cervicapre nelle radure erbose che si aprivano nella foresta. Sul sentiero sabbioso si distinguevano le tracce degli animali che lo avevano attraversato durante la notte. C’erano escrementi di elefante ancora fumanti nell’aria fredda dell’alba, un cumulo alto fino al ginocchio. Doveva averli lasciati un vecchio pachiderma con i denti ormai quasi inutilizzabili, perché erano pieni di rametti e foglie pressoché interi, segno che non riusciva a masticare. Nella polvere c’erano impronte circolari grandi come i coprimozzi di un’auto, orme lisce lasciate dalle sue zampe ormai consumate come pneumatici privi di battistrada. Si trattava di un maschio grande e anziano, ed era vicino.

    Ci arrampicammo su una kopje e arrivammo in cima proprio mentre il sole spuntava da dietro la foresta; tutto intorno a noi il paesaggio brillava sotto i raggi del nuovo giorno, la vita che riprendeva in un’esplosione di colori. Il tracciatore ci indicò una macchia di vegetazione a poco più di tre chilometri di distanza. C’era qualcosa di grigio, che sarebbe stato impossibile distinguere da un masso roccioso finché non si mosse. Scendemmo lungo il fianco della kopje, fino alla pianura di erba dorata. Seguimmo la pista nel terreno spugnoso, osservando i punti in cui l’elefante aveva strappato rami e corteccia dagli alberi mentre mangiava.

    Più tardi ci fermammo per una breve pausa e, seduto a gambe incrociate con il Rigby in grembo e la schiena appoggiata a un albero, osservai l’elefante. Le zanne di un maschio di quelle dimensioni potevano pesare fino a quarantacinque chili l’una. Come gli esseri umani possono essere mancini o destrorsi, anche gli elefanti hanno una zanna dominante, il che significa che una delle due può essere più corta dell’altra o persino spezzata. Ai tempi di mio nonno l’obiettivo era l’avorio, e più nobile era l’animale più grande era il desiderio di conquistare il trofeo. Ma io sapevo che l’importante è l’inseguimento in sé: una volta uccisa la preda, ti rimane solo della carne morta. L’istinto di cacciare è insito in ogni uomo; alcuni lo reprimono, altri lo camuffano con comportamenti strani e insondabili, altri ancora scatenano guerre. Io scelgo di andare avanti senza mai guardarmi indietro, e cacciare è ciò che ho sempre fatto. Lo stesso vale per la scrittura: metto il cuore e l’anima in ogni libro che scrivo.

    Avevo otto anni quando mio padre, Herbert Smith, mi regalò il primo fucile, un .22 Remington. Uccisi il primo animale poco tempo dopo, e lui me ne spalmò il sangue sul viso come in un rito d’iniziazione: ero un nuovo cacciatore, e il sangue era segno che stavo diventando uomo. Non mi feci il bagno per giorni.

    Sul fucile erano intagliate centoventidue tacche, una per ogni animale cacciato con quell’arma. «Ora appartiene a te, Wilbur» disse mio padre, «ma è accompagnato da alcune regole, da un codice d’onore. Farai fuoco senza correre rischi. Sparerai con precisione. Ucciderai solo ciò che intendi mangiare.»

    Il Remington era appartenuto a mio padre e prima ancora a mio nonno, Courtney James Smith. Nonno Courtney era stato un capo carovana durante la corsa all’oro nel Witwatersrand nel penultimo decennio dell’Ottocento, e prima ancora, nel corso della guerra anglo-zulu*, aveva comandato una squadra di fucilieri armati di mitragliatrice Maxim, che decimava i nemici con seicento colpi al minuto. Era un tipo tosto, con le idee chiare e una serie inesauribile di aneddoti autocelebrativi di dubbia autenticità.

    Aveva la caccia nel sangue. Da piccolo sedevo accanto a lui e lo ascoltavo raccontare delle grandi cacce all’elefante che erano state fonte di divertimento e di carne per mantenere la famiglia. «Non dai la caccia a un elefante con il fucile, lo uccidi con i piedi» diceva. Lo sfiniva inseguendolo a piedi, perché agli inizi del Novecento non esistevano veicoli a quattro ruote motrici. Abbatteva il maschio più grande e anziano con un colpo pulito, uccidendolo prima ancora che si accorgesse di essere inseguito.

    A quei tempi il cacciatore di animali di grandi dimensioni godeva di profondo rispetto. Gli eroi di mio nonno erano uomini come Karamojo Bell, un avventuriero scozzese che operava nell’Africa Orientale ed era considerato il miglior cacciatore d’avorio di tutti i tempi, oltre a essere famoso per aver perfezionato il difficile colpo in diagonale da dietro noto come colpo Bell, che uccideva l’elefante all’istante. C’era anche Frederick Selous, esploratore, cacciatore e ambientalista alle cui straordinarie imprese è ispirato Allan Quatermain, il personaggio creato da H. Rider Haggard. Tra il 1874 e il 1876 Selous uccise settantotto elefanti con un moschetto a canna corta che sparava proiettili da 114 grammi. Era una specie di Indiana Jones, un gentiluomo vittoriano con una vena selvaggia e indomabile.

    Quell’epoca è ormai scomparsa, proprio come mio padre e mio nonno. Lo spirito dei tempi è cambiato e oggi abbiamo eroi diversi, icone mediatiche, celebrità che sono forse meno reali degli idoli del passato.

    Dormo, sogno, il nonno è vivo nella mia immaginazione. Sento ancora la sua voce…

    Il calore del sole si stava attenuando rispetto al picco di intensità del mezzogiorno, così riprendemmo l’inseguimento. L’occhio del tracciatore capo riusciva a cogliere le anomalie nel manto erboso, i lievi graffi sulle rocce dove le zampe dell’elefante avevano raschiato via il lichene. In una gola fra due colline c’era una pozza di acqua salmastra e puzzolente, ma il maschio aveva bevuto, lasciandosi dietro un ammasso di escrementi giallastri. Più avanti aveva mangiato i frutti di una macchia di marule, quelli che si dice possano intossicare e condurre alla pazzia gli elefanti se sono rimasti a fermentare sul terreno.

    Sai, Wilbur, un elefante maschio deve mangiare più di una tonnellata di vegetazione al giorno e per nutrirsi deve fermarsi. È a quel punto che diventa più vulnerabile. A causa della vista debole e degli occhi posizionati nella sezione posteriore del cranio, la sua visione anteriore è compromessa e le enormi orecchie possono impedirgli di vedere dietro di sé. Ma ha un udito finissimo e riesce a percepire il movimento con incredibile precisione.

    Udimmo un brontolio, una specie di forte ronzio che echeggiava nel silenzio della pianura, il rumore di un elefante tranquillo che mangia soddisfatto. Ci addentrammo nella boscaglia e all’improvviso ci fu un’esplosione di rametti che si spezzavano, rami strappati dagli alberi… E poi eccolo lì, con le orecchie gigantesche che oscillavano piano, e vidi il suo occhio ingrigito dall’età, che lacrimava come se lui fosse consapevole di essere ormai vecchio e prossimo alla morte. Fu un momento colmo di tristezza, di una malinconia che salì rapida come la marea, spazzando via tutta la determinazione precedente.

    Le zanne enormi erano un fardello gravoso che si faceva di giorno in giorno più pesante e le giunture gli dolevano a ogni passo. Se aveva superato i settant’anni, probabilmente la sesta serie di molari era ormai consumata ed era quindi destinato a morire lentamente di inedia, perché l’erba tenera e i frutti, le uniche cose che poteva mangiare, non riuscivano a fornirgli il sostentamento necessario. Aveva la pelle cascante e solcata da rughe profonde come crepe, eppure appariva fiero, possente, determinato.

    Un colpo al cervello lo avrebbe ucciso all’istante. Sollevai il fucile, affidandomi all’esperienza e all’istinto. Feci un respiro profondo, ma non riuscii a rallentare il battito del mio cuore.

    Il vecchio maschio che avevo inquadrato nel mirino, a non più di venti metri di distanza, era ormai prossimo alla fine dei suoi giorni, tuttavia si ergeva ancora maestoso tra gli alberi, nutrendosi dell’erba della terra natia, e le curve frastagliate del corpo gigantesco sembravano ribadire la sua massiccia presenza, la misteriosa volontà della natura. Non molti anni prima avrei premuto il grilletto senza pensarci su, ma in quel momento, trovandomi anch’io al crepuscolo dell’esistenza, provai una certa affinità con lui, con il suo animo stoico di guerriero che non avrebbe mai rinunciato all’inseguimento.

    Dovevo prendere una decisione in fretta, altrimenti l’elefante avrebbe percepito la mia presenza e mi avrebbe caricato.

    Quando la luce del giorno iniziò a lasciare il posto alla penombra della sera, quiete e silenzio regnavano sovrani, come se persino gli uccelli si fossero fermati un attimo prima di spiccare il volo, e io abbassai il fucile, indietreggiai e mi allontanai cercando di non fare il minimo rumore.

    * La guerra, combattuta nel 1879 fra il Regno Unito e il Regno Zulu nell’Africa Meridionale, segnò la fine della nazione indipendente degli zulu. (N.d.T.)

    2

    LEONI NELLA NOTTE

    Mio padre Herbert era tutto per me. Era il mio idolo e lo amavo con tutto me stesso. Poteva essere un vecchio bastardo ostinato e i suoi valori erano ancora quelli dell’epoca vittoriana, ma nella vita di ogni ragazzo c’è un eroe, e per me quell’uomo era mio padre. A volte penso che il mondo fosse troppo piccolo per contenere il suo spirito libero e ribelle, e che proprio per questo motivo lui fosse ossessionato dall’aviazione. Adorava unirsi alle capriole gioiose delle nubi squarciate dal sole, come scrisse il pilota della RAF John Gillespie Magee ne Il volo, una delle mie poesie preferite. E mi chiamò come uno dei fratelli Wright, quel Wilbur che insieme a Orville costruì il primo aereo guidato da un pilota.

    Non so se ho mai raggiunto le vette che si aspettava da suo figlio: lui considerava leggere libri una perdita di tempo e ancora più sconcertante scriverli. Era un uomo pratico, attivo, uno che le cose le faceva; per lui un problema era una cosa da risolvere, non su cui riflettere.

    Ricordo come fosse ieri la prima volta che vidi di cosa era capace mio padre quando si trovava davanti un pericolo. Quel giorno, per me diventò un autentico eroe e si guadagnò il mio imperituro rispetto. Fu un’esperienza terrificante ed ebbe luogo di notte. Stavo dormendo e fui svegliato da un ruggito.

    Avvolto nel sacco a pelo, aprii gli occhi. Accanto a me, mia sorella era già sveglia e fissava nervosa la luce del fuoco da campo che si intravedeva tra i due lembi di tela dell’apertura della nostra tenda. Eravamo abituati ai normali rumori notturni del bush – l’ululato della iena, il coro delle cicale, il brontolio lontano di un leopardo che cacciava nell’oscurità – ma quello era un frastuono inimmaginabile. Mi spostai lungo la brandina per sbirciare all’esterno.

    Avevo otto anni e mia sorella solo sei. Immersa nell’oscurità che ci circondava c’era la selvaggia valle dello Zambesi. Era una terra incontaminata, non ancora solcata da strade o ferrovie, dove mio padre ci aveva portato due settimane prima, all’inizio della lunga stagione secca. Per me quei safari erano diventati il momento più importante dell’anno, le escursioni nella natura intorno a cui ruotava la mia giovane vita. A volte ci spingevamo a nord dalla nostra fattoria nella Rhodesia Settentrionale, fino a Kolwezi, nel Congo, ma quell’anno eravamo rimasti più vicini a casa, accampandoci nel cuore della valle del Luangwa.

    Ancora oggi è una zona incontaminata che brulica di flora e fauna selvatiche. Vasta migliaia di chilometri quadrati, la valle è alimentata dal fiume Luangwa, uno degli affluenti dello Zambesi, le cui numerose lanche e lagune creano ampie distese di acqua potabile. Quando sopraggiunge la stagione delle piogge, a novembre, il paesaggio di un marrone dorato, arido e polveroso, si colora di un acceso verde smeraldo e il fresco profumo di pulito delle prime piogge è un magnifico presagio della rinascita della natura. Ci sono più ippopotami che sguazzano nelle distese fangose della valle del Luangwa che in qualsiasi altra parte del mondo, oltre a un gran numero di leopardi, elefanti, coccodrilli e leoni che vivono in branchi di addirittura venti felini. Sono animali dominanti e feroci, che l’assenza dell’uomo ha reso quasi sfrontati e, cosa che accade solo in questa zona, uccidono gli ippopotami. L’avifauna è spettacolare e non mi stanco mai di vedere la gru coronata posarsi sugli alberi con la sua aureola di piume giallo paglierino, le guance bianche e il sacco golare rosso; o i gruccioni scarlatti, che sembrano gemme quando il sole del tramonto esalta il rosso slavato e l’azzurro del loro piumaggio mentre si radunano per nidificare sulle rive del fiume. La valle del Luangwa è un’area di straordinaria bellezza e abbondanza.

    Ogni anno l’avventura iniziava nello stesso modo, con il minuscolo biplano Tiger Moth di mio padre che scompariva verso nord per individuare i migliori terreni di caccia, prima che alcuni braccianti della fattoria venissero mandati, in bicicletta, ad appiccare il fuoco al bush e preparare tutto per il nostro arrivo. Solo quando la vegetazione ricominciava a crescere nell’area ormai disboscata, tentando la selvaggina con i suoi lussureggianti germogli verdi, iniziava il viaggio vero e proprio. Sui tre grossi camion Ford di papà venivano caricate tende e attrezzature da campeggio, sedie pieghevoli e brandine, pentolame per la cucina da campo di mia madre, fucili, asce e rastrelliere a cui appendere la carne da essiccare. Poi, quando lui saliva sul camion in testa al convoglio e lanciava il tradizionale grido Kwenda Safari!, partivamo. Oltre ai miei genitori e a mia sorella c’erano venti o trenta degli uomini migliori del ranch: seduti nel cassone aperto dei veicoli, ridevano all’idea di un’infinità di carne fresca grigliata sulla carbonella oppure messa a essiccare sulle apposite grate e i loro canti di caccia risuonavano nell’aria.

    Avevamo scelto quella destinazione per i bufali, le antilopi nere, le cervicapre e gli elefanti, la cui carne era essenziale per la sopravvivenza dei villaggi della zona. Non immaginavamo certo che, prima della fine della spedizione, da cacciatori saremmo diventati prede.

    «Sono loro?» domandò mia sorella.

    Rimasi seduto sul bordo della brandina, esitante, senza avere il coraggio di uscire dalla tenda. Il pensiero si era affacciato anche alla mia mente. Quattro giorni prima un messaggero del quartier generale del commissariato distrettuale, che si trovava a un’ottantina di chilometri di distanza, era arrivato nell’accampamento per consegnare a mio padre una lettera che ci avvisava che un branco di leoni fuori controllo imperversava nella zona. Diventati mangiatori di uomini, avevano già ucciso più di venti indigeni, fra cui donne e bambini. Papà aveva fama di essere un ottimo tiratore e un provetto cacciatore, e il commissario aveva scritto per chiedergli di debellare la minaccia, se possibile.

    Ora mio padre aveva l’occasione di affrontare dei predatori che avevano assaggiato il sangue umano.

    Il nostro accampamento era circondato da un boma di rami raccolti nel bush circostante, e al centro della zona recintata si trovavano le nostre due tende di tela, una per i miei genitori e una per me e mia sorella. Gli uomini che si occupavano del campo, tutti braccianti del nostro ranch, dormivano all’addiaccio lungo il perimetro del recinto, il buio rischiarato solo dalla luce tremolante del fuoco. Tra di loro si stava muovendo la silhouette di un mostro: un leone dalla criniera nera, lo sguardo luminescente fisso sulla rastrelliera cui era appesa la carne messa a essiccare quel giorno stesso.

    Mentre lo guardavo, il maschio alfa ebbe un attimo di esitazione: qualcos’altro aveva attirato la sua attenzione. Si voltò, gli occhi che brillavano come tizzoni nel chiarore del fuoco, e si avvicinò ai guardiani dell’accampamento. Non era interessato alla carne lasciata a essiccare, voleva quella dell’uomo. Voleva uccidere.

    Era quasi addosso a Peter, il caposquadra di mio padre. Uomini meno coraggiosi avrebbero forse vacillato, ma in un batter d’occhio lui afferrò l’ascia che teneva di fianco. Trattenni il fiato, incapace di immaginare cosa sarebbe successo di lì a poco. Il leone balzò in avanti con un ruggito. Peter sollevò l’ascia sopra la testa e per un attimo le mascelle spalancate del felino si stagliarono sopra di lui, pronte a sbranarlo, ma quando si serrarono di scatto il demonio aveva affondato le zanne nel manico dell’ascia, mancando per un soffio il braccio di Peter.

    A quel punto scoppiò il pandemonio. Mentre gli uomini fuggivano e le grida sovrastavano i suoni del bush, comparvero altre due gigantesche sagome. Il branco di leoni era arrivato in forze e noi eravamo intrappolati all’interno del boma. Mi ritirai verso il centro della tenda, la paura che per la prima volta aveva la meglio sull’eccitazione.

    Poi comparve mio padre.

    Uscì dalla tenda barcollando nella notte, mezzo addormentato e con indosso solo la giacca del pigiama. In una mano stringeva il fucile e nell’altra la torcia elettrica, ma quando fece il primo passo picchiò il viso contro il palo della tenda e il suo fiero naso imperiale – già rotto durante un lontano incontro di boxe – si squarciò fino alla cartilagine, sanguinando copiosamente. Se c’era qualcosa in grado di svegliarlo del tutto era quella. Battendo le palpebre per liberare gli occhi dal sangue, mio padre si girò verso il caos. Il maschio alfa, ancora con l’ascia serrata fra le mascelle, alzò la testa e incrociò il suo sguardo. Si udì un brontolio, un ruggito furibondo, poi il leone caricò.

    Accanto a me, mia sorella era in preda al panico. La paura è un’emozione contagiosa. Solo pochi secondi prima quella era stata un’avventura, uno degli episodi più eccitanti della mia giovane vita, ma a quel punto l’enormità del momento mi attanagliò con forza. Nubi di polvere si sollevarono a oscurarmi la visuale. Le grida di trenta uomini furono smorzate appena dai ruggiti assordanti dei tre leoni. D’improvviso scoppiai a piangere. Dicono che in circostanze simili il tempo rallenti, ma non mi parve affatto così: in un attimo il leone alfa aveva attraversato l’accampamento ed era pronto a fare a pezzi il mio amato padre.

    È in questo genere di situazioni che gli eroi rivelano il loro vero valore. Pur senza calzoni, con la propria virilità esposta agli occhi del mondo intero e il sangue che gli colava dal naso rotto, mio padre non indietreggiò.

    In un batter d’occhio rivolse la torcia verso il leone che stava caricando e, stringendo il fucile nell’altra mano, lo puntò come fosse una pistola lungo il vivido fascio di luce e fece fuoco.

    Il proiettile bloccò l’animale fuori controllo a metà balzo: lo aveva colpito in pieno petto, trapassando muscoli e ossa per affondare infine nel cuore. Rimasi a guardare, incredulo, mentre la gigantesca carcassa piombava a terra e, in un mulinello di polvere, rotolava fino ai piedi di mio padre. Lì si fermò, il sangue che sgorgava a fiotti dal foro della pallottola.

    Papà ricaricò e lasciò cadere la torcia, che rimbalzò per terra descrivendo archi di luce sopra l’accampamento e illuminando fugacemente il muso degli altri due leoni. Prima che si fermasse, lui sollevò il fucile ed esplose altri due colpi, ciascuno dei quali uccise un animale. Il silenzio calò sull’accampamento. I suoni lontani del bush tornarono, le urla degli uomini si placarono e io mi asciugai le ultime lacrime dagli occhi.

    Stavo per dire a mia sorella che era tutto finito, che potevamo avventurarci fuori dalla tenda per vedere di persona i preziosi trofei di caccia di papà, quando sentii un altro suono. Mio padre, a piedi nudi, scalciava freneticamente lanciando grida belluine. Con il viso incrostato di sangue, nudo dalla vita in giù, piroettava come un derviscio, lanciando quello che sembrava un trionfante grido di battaglia. Si trattava forse di un qualche rituale? Oppure papà era impazzito?

    «Cosa sta facendo?» chiese mia sorella, raggiungendomi.

    Spostai lo sguardo dai leoni abbattuti a mio padre. Forse era il suo modo di celebrare la straordinaria vittoria appena conseguita.

    Fu solo quando la sua danza di guerra terminò, e mia madre corse fuori dalla tenda per assicurarsi che fosse vivo, che trovammo il coraggio di avvicinarci ai leoni e realizzammo finalmente cosa stava facendo papà. Mentre sfrecciavano attraverso l’accampamento, le belve avevano distrutto il fuoco da campo, spargendo tizzoni ardenti su tutto il terreno circostante. Quelle di mio padre non erano urla di trionfo ma grida di dolore, e stava saltellando per non ustionarsi i piedi sui carboni ardenti.

    Guardai lo spazio vuoto fra lui e i leoni, e

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