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Angoli del tempo
Angoli del tempo
Angoli del tempo
E-book463 pagine6 ore

Angoli del tempo

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Info su questo ebook

Stefano è un ispettore di polizia noto per la sua abilità investigativa, incaricato di risolvere alcuni efferati delitti ancora senza colpevole.
Le indagini conducono ad una donna vista vicino ai luoghi dei delitti ma mai formalmente accusata. Con lei Stefano finisce per intrecciare una relazione convincendosi della sua estraneità ai fatti.
Ma sul luogo di un nuovo delitto i dubbi si riaccendono e rimettono in gioco la sua credibilità professionale oltre che i suoi sentimenti.
Dunque lei è coinvolta? Forse colpevole? Lo ha usato per sottrarsi alle accuse?
Un intimo segreto di lei lo aiuterà nella soluzione dei delitti e a trovare la verità.
Dove meno se l'aspetta.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2016
ISBN9788869630675
Angoli del tempo

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    Anteprima del libro

    Angoli del tempo - Marco Cirillo

    Marco Cirillo

    Angoli del tempo

    Elison Publishing

    Proprietà letteraria riservata

    © 2016 Elison Publishing

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico.

    Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:

    Elison Publishing

    www.elisonpublishing.com

    ISBN 9788869630675

    In copertina:

    La lunga linea del tempo, di Marco Cirillo

    http://www.flickr.com/photos/accaelle/

    A

    Si mise a pensare alle parole appena sentite.

    Quando hai detto che è successo? chiese distrattamente continuando a ricostruire la sua linea del tempo.

    Tre anni fa confermò Santi.

    Tre anni fa… dov’era lui tre anni fa?

    Difficile dirlo, dato che non ricordava neanche quello che era successo una settimana prima.

    Sei sicuro? chiese per prendere tempo.

    Sentì lo sguardo dell’altro che lo rimproverava per questa domanda.

    Sì, sì disse senza voltarsi a guardarlo lo so che tu non sbagli mai.

    Forse era stato il caso di quella giovane donna trovata nel lago? Oppure quello dell’uomo legato all’albero? Difficile dirlo. Ma sarebbe bastato chiederlo a Santi, e lui ti avrebbe snocciolato la storia come se l’avesse sentita due minuti prima.

    Per questo gli stava antipatico. Perché ricordava sempre tutto.

    E chi avrebbe detto quella frase?

    Quella donna, quella trovata vicino al luogo del delitto, Isabella. Isabella si chiamava. Te la ricordi?

    Isabella. Isabella si chiamava.

    Cosa? Lei?

    No. La frase.

    Assolutamente rispose pensando al taccuino nel quale l’aveva scritta.

    La interrogasti tu, vero? aggiunse.

    Ancora una volta quello sguardo di rimprovero.

    Ah già ammise sconfitto, certo, me lo hai già detto… Non l’hai incastrata?

    No. Ma un giorno ci andai vicino disse Santi fiero di sé.

    Davvero? Racconta disse Stefano, sapendo che lo avrebbe fatto comunque.

    Infatti, lo fece. Ma il racconto non aveva nulla di eccezionale. Ipotesi, sensazioni, qualche piccola prova. Teorie, per il resto. Un interrogatorio senza spessore.

    Accidenti, dev’essere stato emozionante gli disse Stefano fingendo interesse.

    Ci sono andato così vicino… che sentivo già di averla in pugno disse l’altro stringendo il suo fin troppo forte davanti ai suoi occhi.

    E adesso?

    Penso che viva a Bologna.

    Bologna? Così vicino?

    Santi lo guardò quasi con compassione.

    Che vuol dire, così vicino?

    Nulla, nulla si corresse Stefano sapendo che l’altro non avrebbe mai potuto recuperare i mille pensieri che lo avevano portato a quella domanda.

    Fu allora che, per fortuna, squillò il telefono.

    Ci mise un po’ a riconoscerne il suono in mezzo al caos del commissariato quel giovedì mattina.

    Scusami disse a Santi non volendo assolutamente scusarsi.

    Pronto?

    Ispettore, sono Felice disse una voce dall’altra parte del telefono.

    Quante volte avrebbe voluto rispondergli io no quando lo sentiva presentarsi così!

    Ma l’appuntato Scamozzi, Felice Scamozzi, non capiva gli scherzi. Era uno di quegli uomini tutti di un pezzo, che mai aveva riso sul lavoro, mai si era lasciato andare ad uno scherzo, mai aveva perso un attimo del suo tempo per quelle meravigliose cose inutili come una sigaretta, una tazzina di caffè, una caramella al rabarbaro, una battuta sulla ragazza che passava davanti alla telecamera dell’ingresso.

    Però non gli piaceva il proprio cognome, diceva che gli ricordava ‘scamorza’ come lo chiamavano alle medie per prenderlo in giro, quindi si annunciava sempre per nome.

    E ogni volta, tutte le volte, tutte le volte, Stefano doveva trattenersi dal rispondergli io no perché lui lo era, nella sua semplicità scoraggiante, un uomo felice e Stefano invece, con la sua vita complicata, i mille pensieri abbandonati e le mille domande senza risposta non lo era, e stava disperando di poterlo mai essere.

    Non poteva rispondergli come avrebbe voluto, con quella battuta cretina e superficiale, che non avrebbe fatto ridere neanche l’ultima fila di una platea da cabaret di provincia.

    Non l’avrebbe capita.

    Così gli rispose, come al solito:

    Dimmi, Scamozzi, che c’è?

    La vuole il capo.

    Quale capo, Scamozzi? Qui il capo sono io.

    No, volevo dire il grande capo.

    "Ah, quel capo… Passamelo."

    No, la vuole nel suo ufficio.

    Quando?

    Ora.

    Ora?

    Ora.

    Sai cosa vuole? chiese ingenuamente Stefano dimenticando che l’altro non faceva mai domande, ma eseguiva soltanto gli ordini dati, senza aggiungere parole, né dedurre conseguenze, né chiedere chiarimenti.

    Che lei vada nel suo ufficio fu la risposta disarmante.

    Ok, digli che arrivo subito.

    Ora non posso disse l’altro con precisione certosina.

    Perché?

    È uscito dall’ufficio.

    Ma… allora?

    Ha detto che la vuole nel suo ufficio: vuol dire che tornerà aggiunse come se desse un chiarimento di fisica quantistica ad un bambino delle elementari.

    Inutile. Tanto valeva lasciar perdere.

    Sto arrivando gli disse Stefano facendogli sentire il rumore della sedia spinta indietro per alzarsi.

    Bene disse Felice Scamozzi riattaccando, contento dell’effetto del suo messaggio così essenziale e preciso.

    Stefano arrivò nell’ufficio del grande capo dopo meno di un minuto. Distava due piani soltanto e fece le scale di corsa. Lo faceva sempre, per tenersi allenato.

    ‘Metti che devo inseguire qualcuno all’improvviso’ si diceva tutte le volte che era di fronte a delle scale, ‘non posso morire sfiatato perché sono fuori allenamento’.

    L’ufficio, in effetti, era vuoto. Non ne aveva dubitato, del resto.

    Si sedette, dove si sedeva sempre, dove il grande capo lo avrebbe fatto sedere: nella sedia più a sinistra delle due poste di fronte alla sua scrivania, due sedie di pelle consunta, di finta pelle, ovviamente, tristi come il resto dell’ufficio, tristi come la luce fioca e triste sempre accesa, giorno e notte, che lo illuminava dalla triste lampada sulla scrivania, una scrivania triste di legno rovinato, con gli angoli scheggiati e i cassetti che facevano fatica ad uscire, con sopra un triste scrittoio dal colore sbiadito, gonfio di fogli che lo avevano reso curvo e fronteggiato da un tristissimo portapenne tutto rotto nel quale si reggevano a malapena due penne che non scrivevano più da anni e che mai più avrebbero scritto, appena appoggiate nei coni semidistrutti come due equilibristi inesperti su una corda tesa nel vuoto.

    Pile di fogli, un disordine che sfidava le leggi dell’equilibrio, mucchi di appunti che potevano anche risalire a cinque, dieci anni prima, due tristi portafotografie con le facce debolmente sorridenti di sua moglie e dei suoi due figli tristi, una vecchia scatola di pallottole vuota e tante nuove scatole di sigarette piene ed incellofanate.

    Il tutto ricoperto da una polvere atavica, una specie di coltre protettiva, di pellicola impermeabile al tempo ma fatta dal tempo che rendeva tutto uniforme come una città sotto la neve.

    L’unica cosa sempre spolverata e pulita, luccicante come nuova, impeccabile nel suo ottone ramato era la targa col suo nome e grado, accuratamente posta di fronte a tutto il marasma della scrivania, come un biglietto da visita indistruttibile, come una garanzia della sua integrità e precisione, come a voler dire: ‘non guardate tutta questa confusione: io sono comunque AMILCARE SALVETTI, Comandante Capo – Sezione Omicidi. ’

    Arrivò dopo due minuti. Fu annunciato dall’ossequioso saluto di Scamozzi, che lo salutava sempre alzandosi in piedi e con un entusiasmo come se non lo vedesse da settimane. Felice era il suo appuntato da anni ma si comportava sempre come se fosse al suo primo giorno di lavoro.

    Il comandante capo entrò nell’ufficio non come se dovesse fermarsi lì dentro, ma attraversarlo come una locomotiva impazzita portandosi dietro brandelli di fogli e mobili. La sua corsa folle si andò ad accasciare sulla sedia girevole, che cigolò come un’amaca consumata dal vento.

    Queste riunioni lampo… non le sopporto più disse ansimando, cercando di mettere a posto una biro nel portapenne rotto, scostando un fascicolo, prendendo un pacchetto sigillato di sigarette per poi rimetterlo in un altro posto della scrivania e aprendo e chiudendo (chissà perché) un cassetto.

    Un forsennato. Così lo aveva sempre visto Stefano. Un uomo forsennato alla ricerca di chissà quale verità.

    Lampo… lampo… che cosa vuol dire? disse aprendo un fascicolo e aggiungendo: Questo non deve essere qui. Siamo stati due ore a parlare di niente.

    Si alzò dalla sedia, si slacciò la cinta, si sbottonò il primo bottone dei pantaloni, si infilò bene dentro la camicia che era quasi tutta fuori e si riallacciò il tutto. Stefano cercava di distogliere lo sguardo: sapeva che era una sua abitudine, lo faceva spesso, non sopportava la camicia molto sblusata, ma era sempre più difficile non ridere. Ripiombò a sedere. Era ingrassato. La sedia gemette sotto il suo peso, l’aria uscì soffiante dal cuscino imbottito. Prese una biro dal portapenne rotto, scrisse quattro o cinque parole sul suo taccuino che aveva estratto dalla tasca interna della giacca. Poi rimise tutto a posto. Stefano non ce la faceva più. ‘Tra un minuto mi alzo e me ne vado’ pensò.

    Allora, Righi disse finalmente il comandante capo rivolgendosi a lui, lasciando il peso del suo corpo sullo schienale della sedia, sai perché ti ho fatto chiamare, vero? sapendo che mai, mai, lui avrebbe potuto rispondergli di sì.

    No, capo, mi dica.

    Dovresti saperlo. Non ti ha parlato Santi?

    Stefano ebbe un moto di ira. Gli si scaldarono tutt’e due le guance. Santi, sempre Santi. Se era il suo pupillo, perché non aveva fatto diventare lui il suo vice della omicidi? Solo per citarglielo in continuazione e assillarlo con le lodi su di lui? Ma cos’ha questo Santi, questo gran rompiscatole di Santi, per essere così benvoluto dalle alte sfere?

    No, Santi non mi ha detto nulla disse contento di poterlo deludere sul suo protetto.

    Strano… avrà avuto da fare fu il commento spietato di Salvetti.

    ‘Non ha niente da fare, Santi’ avrebbe voluto dirgli Stefano, ‘Santi non ha mai niente da fare se non rompere le scatole agli altri. ’

    Cercò nella pila di fascicoli che era alla sua destra. Con le dita scartò il primo, il secondo, poi li prese con una mano, li sollevò appena e sfilò dalla pila i restanti quattro fascicoli con l’altra mano. I primi due caddero sollevando una nuvoletta di polvere e un’altra si sollevò davanti a lui quando Salvetti gli posò di fronte i quattro fascicoli selezionati.

    Salvetti glieli scalò un poco, come se scoprisse una mano di poker, tanto da fargli vedere le etichette.

    Li conosci? chiese laconico.

    Stefano guardò il nome dei casi cercando di non respirare la polvere di secoli che vagava nell’aria davanti a lui. Santi non era certamente allergico alla polvere, ma lui sì.

    Il caso del ciclista investito, il caso dell’uomo legato ad un albero…

    Starnutì.

    Oh, che sei malato?

    No. Allergico alla polvere glielo aveva detto almeno altre cento volte.

    Ah, allora dovevi lavorare in una chiesa! disse Salvetti senza capire che stupidaggine stesse dicendo. Che c’entra, la chiesa?

    Sono casi irrisolti.

    Bene. Giusto. È ora di risolverli.

    Non a tutti ho lavorato io.

    Adesso sì.

    Cioè, vuole che ci lavori io? A tutti?

    Salvetti sorrise senza dire una parola.

    E dirlo a quel genio di Santi? E no, quando si trattava di rogne, quello trovava le scuse più incredibili. Ma alle quali qualcuno credeva sempre.

    Ci hanno lavorato in dieci persone almeno, a questi casi.

    Salvetti divenne serio.

    Sono anni che questi casi gridano vendetta. Ci sono persone che aspettano ancora giustizia.

    Ecco, quando doveva imporre qualcosa diventava stucchevolmente formale e banale.

    Non possiamo fare questa figura da incompetenti.

    Ecco, ora faceva leva sul suo senso del dovere e tra poco gli avrebbe anche fatto una sviolinata per convincerlo.

    Né di fronte ai cittadini, né a noi stessi. E poi tu hai risolto casi ben più difficili…

    Ecco.

    In questi, se ricordo bene, c’erano pochissimi indizi azzardò Stefano. Ne avevamo già parlato insieme, una volta. Erano casi non collegati tra loro, omicidi singoli senza prove evidenti. Non avevamo trovato impronte, tracce, evidenze che ci potessero aiutare.

    Il gran capo lo guardò serio. Prese uno dei pacchetti incellofanati. Ne cercò il sottile filo rosso che ne avrebbe aperto la pelle trasparente in silenzio, come un bisturi che separa le carni. Ma non stava smettendo di fumare? Se ne accendeva una, allora voleva dire che la situazione era molto grave. Aprì la ribaltina di cartone che scattò appena scoprendo le due file di cilindretti ordinati dei filtri ancora bianchi. No, non mi dire che se la accende, pensò Stefano senza avere il coraggio di commentare ad alta voce. Salvetti pizzicò con la punta delle dita la terza da destra della prima fila: cominciava sempre da quella, quante volte glielo aveva visto fare!

    Cercò con uno sguardo errante l’accendino. Non si ricordava neanche che se lo era nascosto apposta per non trovarlo. Miseri metodi per smettere di fumare per uno che in altre occasioni si sarebbe acceso una sigaretta utilizzando una pietra focaia, come tutti sapevano. Nessuna traccia. Stefano giurò a se stesso che non glielo avrebbe detto, che era nella scatola delle matite. Misero nascondiglio…

    Hai da accendere?

    Io non fumo rispose evitando appositamente di guardare la scatola delle matite.

    Cassetti aperti e chiusi, sotto i fogli, dietro la pila delle cartelle, nelle tasche… niente. Poi, all’improvviso, un lampo di luce nei suoi occhi: gli era venuto in mente.

    Aprì con soddisfazione la scatola delle matite, prendendo l’accendino come se avesse trovato la mummia di Tutankhamon. Ora poteva continuare. Ora era a posto.

    Ti ci devi rimettere tu disse accendendo la sigaretta aspirandola così forte che ne arrossò quasi metà in una volta. Poi, cambiando di poco il tono della voce; quasi fosse sincero: "Non posso dare questo compito ad altri. Gli altri sono… incostanti…"

    Davvero? Anche Santi?

    Tu non molli mai la preda.

    Un’altra nuvola bianca tra di loro.

    Qui non abbiamo una preda. Non abbiamo niente, capo.

    Ricordo che tu avevi degli appunti sui casi.

    Per la miseria, non ricordava mai niente, ed ora… Era vero, aveva degli appunti, l’aveva dimenticato lui stesso. Per la miseria.

    Ah, già. Gli appunti… disse cercando di sminuire la loro importanza.

    Occupatene tu, Righi.

    Doveva proprio essere disperato. Forse qualcuno dei piani alti lo aveva ripreso. Stefano fece un sospiro, e fu la fine: aspirò una boccata di fumo passivo, quel dannato fumo passivo che gli si incollò nella gola.

    Ci proverò disse un attimo prima di cominciare a starnutire in sequenza disperata.

    Il capo lo guardò con compassione.

    Ancora la polvere? provò a dire come un padre interessato alla salute dei suoi figli.

    No. Il fumo confessò Stefano tirando su col naso. Sono allergico anche al fumo.

    Il capo lo guardò da dietro un’altra spietata, implacabile, inevitabile nuvola di fumo bianco.

    Sei una chiavica, Righi sentenziò scuotendo la testa.

    Gli appunti.

    Dove li aveva messi, gli appunti?

    Santi li avrebbe trovati subito.

    Eh, ma Santi quegli appunti non avrebbe mai potuto scriverli… Perché Santi era abile a parlare con le persone, bravo ad arruffianarsi i capi, eccellente ad approfittare delle situazioni ma… in quanto a fiuto, l’intuizione che distingue un vero detective da un arrangia-casi beh, di quella era completamente sprovvisto.

    Solo lui, Stefano Righi, nel buio della sua sala, seduto su quella che chiamava la poltrona del pensatore, isolato dal mondo, nel silenzio dei rumori di tutti i giorni o avvolto dalla musica a volume assordante della Sagra della Primavera di Stravinsky, soltanto lui riusciva a collegare anche i minimi particolari, anche le tracce più irrisorie, anche le cose che gli altri avevano scartato in una trama logica indistruttibile. Se qualcosa aveva ragione di essere collegata a qualcos’altro, lui la sapeva collegare. Se qualcosa poteva far arrivare a qualcos’altro, lui ci arrivava.

    E certo, mica era scemo Salvetti! Altrimenti quei casi li avrebbe affidati a Santi, al suo caro, adorato, nei secoli fedele Santi.

    Aveva già aperto (e richiuso) quattro cassetti su otto della sua scrivania. In quegli appunti, di questo era sicuro, c’era anche la frase che quella donna aveva detto. Non ne ricordava bene tutte le parole, ma ricordava che era una frase strana, a doppio senso, molto criptica e insolita. Non voleva cercare di ricordarsela. Non voleva inquinare l’effetto che quella frase gli aveva fatto la prima volta mettendo insieme parole inesatte, non voleva rovinare i suoi pensieri perdendosi dietro qualcosa di cui non era sicuro. Meglio ritrovarla e rileggerla. Pulita, pura, come l’aveva scritta cinque anni prima.

    Anche il quinto cassetto era andato. Gli sembrò di ricordare qualcosa, un’immagine di fogli colorati sotto una busta di plastica ed aprì direttamente il settimo. No, c’erano i fogli colorati, c’era la busta di plastica ma del taccuino di quegli anni neanche la polvere. Seguì le immagini che si susseguivano nella sua mente, sempre più numerose intanto che apriva i cassetti, come tante persone che correvano a salutarlo avendolo riconosciuto dopo tanto tempo e poi gli si accalcavano intorno, come una folla silenziosa che voleva raccontare, che voleva sapere, che voleva ricordare. Visi noti, visi sconosciuti, visi dimenticati. Visi senza lineamenti.

    Vuoto anche l’ottavo. Cioè, senza il taccuino.

    Si arrese alla sconfitta e con un sospiro aprì il sesto: il taccuino scivolò verso il bordo del cassetto, come se non stesse aspettando altro che farsi trovare. A volte avrebbe voluto avere un pochino più intuizione per le cose pratiche e meno per i delitti.

    Si sedette appoggiandosi all’indietro sullo schienale ammortizzato della sedia.

    Il taccuino aveva tutte le orecchie arrotolate, per quante volte l’aveva sfogliato. La copertina di cartoncino nero era segnata da una piega orrenda che aveva sempre odiato. Si era formata una volta che era stato costretto ad infilarselo in tasca di corsa, per inseguire un sospettato che gli era apparso davanti all’improvviso. Una obliqua riga color cremina dai bordi sfrangiati. Insopportabile. Quante volte aveva cercato di ripararla, di renderla più invisibile. Niente. Sembrava una maledizione: più cercava di coprirla, più quella diventava evidente.

    Quindi lo aveva messo nel sesto. Il cassetto delle cose che avrebbe dovuto riprendere. Conosceva bene Salvetti. Forse più di se stesso.

    Ovviamente numerava le pagine. Certo, le numerava, le aveva sempre numerate. Non per niente, ma per evitare che ne perdesse qualcuna senza accorgersene o, peggio, che gliene strappassero qualcuna. In questo modo era sicuro. Le numerava subito, appena iniziato il taccuino nuovo. Poi poteva scrivere tranquillamente, senza timore di perdere nulla, perché era come se poi i suoi appunti finissero in una singola, sicura, unica casella a loro destinata, lei e nessun’altra. Le pagine aspettavano le sue note, ognuna quelle a lei destinate. Numeri piccoli, in basso a sinistra, un posto sicuro dallo sfogliare frenetico con cui a volte cercava quello che aveva scritto. Così, spesso, gli bastava ricordare la pagina, per ricordare un appunto importante.

    E quella della frase della donna era la numero 48.

    Aveva accettato l’incarico di Salvetti, dunque. Quello ne era sicuro. Lui era sicuro che quello ne fosse sicuro. Ma si rendeva conto di quello che lo avrebbe aspettato se avesse riaperto quella pagina? No. Come ci capita tante volte prima di fare qualcosa: altrimenti non la faremmo, e tutto sarebbe più facile.

    Aveva sicuramente calcolato tutto: a cosa stava lavorando, che aveva poco da fare, il momento della sua vita, che si sarebbe volentieri buttato a capofitto nel lavoro, tutto. Si sentiva scoperto, indifeso.

    Salvetti sembrava vivesse per caso, che facesse tutto per caso, che respirasse anche per caso. Invece no. Calcolava tutto. Chissà allora perché si fidava tanto di Santi.

    Un destino che non conosceva ancora lo spinse a cercare la pagina 48 e lo stesso destino gliela fece trovare prima che potesse ripensarci. Sapeva che dal momento che avrebbe riletto quella frase non sarebbe più potuto tornare indietro, sapeva che sarebbe stato inghiottito ancora da quei misteri, da quei delitti impuniti, da quegli indizi sfumati che gli apparivano e scomparivano come dietro una nebbia colpevole. Che sarebbe ancora una volta rimasto invischiato nell’insoluto gioco della verità, nel perverso amore-odio nei confronti di ciò che non sappiamo perché non l’abbiamo vissuto.

    Ma tanto, che importava. Il destino che aveva avuto fino a quel momento non era certo migliore.

    Tanto valeva rischiarne un altro.

    La frase era dove se la ricordava. In mezzo al foglio. Sola. Unica riga, unico pensiero: questo era il suo motto. Le cose importanti dovevano stare da sole in una pagina. Un altro simbolo, un altro significato segreto, un altro codice dei suoi appunti. Così, vicino alle cose importanti gli rimaneva dello spazio per aggiungere le sue deduzioni, i suoi pensieri. Così le cose importanti potevano lasciarsi interpretare, decifrare, gli lasciavano campo libero, a lui ed alla sua mente.

    Bianco intorno a lettere nere.

    Questo ci voleva per pensare.

    "Le cose non sempre sono, come sembrano."

    Il sasso era gettato. I cerchi concentrici erano cominciati. Stavolta non si sarebbe fermato se non davanti alla verità.

    La ricordava bene, scoprì. Soprattutto ricordava quella virgola grossa, quel segno pesante che aveva aggiunto lui per ricordare il modo in cui quella donna aveva pronunciato quella frase: una pausa, non lunghissima per non essere notata, ma non così breve da potergli sfuggire. Quante volte ci aveva pensato! Perché l’aveva detta in quel modo? Il significato cambiava, certo. Le cose non sempre sono come sembrano, era un conto. Ma le cose non sempre sono, virgola, come sembrano, era tutta un’altra cosa. Voleva dire che le cose non erano come sembravano? O che in realtà non esistevano?

    Non l’aveva capito.

    Non ancora.

    Ma se adesso c’era anche soltanto una possibilità di ritrovare quella donna, allora tutto si rimetteva in gioco, tutto si riapriva, tutto poteva risolversi con un semplice atto: chiederle spiegazioni.

    Non la ricordava molto bene. L’aveva vista di sfuggita, era preso dalla difficoltà del caso, poi l’aveva interrogata Santi e non lui. Ricordava di aver avuto l’impressione che, contrariamente alle apparenze, quella donna c’entrasse con i delitti, anche se era convinto che non fosse colpevole. Deduzione contraddittoria, ma intuitiva. Altrimenti aveva ragione Santi, per il quale lei era addirittura l’assassina.

    Dove aveva scritto il nome? Ancora avanti di qualche pagina: no. Ma no, glielo aveva per forza chiesto quel giorno… o forse… già: era Santi che l’aveva interrogata. Ce l’aveva lui, il nome. Non gliel’aveva neanche detto. Sicuramente l’aveva dimenticato, magari aveva buttato via la pagina, persino. Avrebbe fatto da solo, come sempre. Non aveva bisogno di nessuno, lui. Tantomeno di Santi.

    Allora quella donna era stata trovata vicino al luogo di un delitto. Sfogliò indietro le pagine. Era confusa, ma nulla la collegava all’omicidio. Sfogliò le pagine in avanti. Particolari della vittima, quelli li ricordava tutti. Ancora avanti. Niente che potesse aiutarlo oggi più di allora. C’era da riaprire tutto il fascicolo, tutti i pensieri, da riconsiderare tutto, da ricominciare daccapo.

    Non senza di lei, questa volta.

    B

    Aprì la porta di casa sapendo già quello che l’aspettava.

    C’erano le solite luci accese, le porte erano aperte o chiuse come al solito. La luce della camera piccola filtrava dalla porta socchiusa, illuminando parte del corridoio. La luce della sala era al minimo, se lui fosse tornato tardi gli sarebbe bastata per non urtare la bicicletta appoggiata al muro dell’ingresso come aveva fatto l’ultima volta. La cucina era aperta con la tapparella alzata, mentre le altre tapparelle erano giù, tranne quella della camera piccola. Entrò in cucina, come sapeva che avrebbe dovuto fare. Sul tavolo, apparecchiato per uno, c’era del pane, un pezzo di formaggio da tagliare, della frutta. Sul gas, un tegame con della pasta lasciata in bianco, sicuramente al dente. A fianco un vasetto di un improbabile sugo alla sorrentina (cos’è, il sugo alla sorrentina?).

    Il piatto piano era sul tavolo mentre quello fondo a fianco al gas, pronto ad accogliere la pasta appena condita. Lo scolapasta, neanche a dirlo, era nel lavello. Bicchiere, capovolto ovviamente e le tre posate per ogni evenienza completavano quell’opera d’arte contemporanea.

    Tutto ciò aveva soltanto un significato, anzi, due: primo, Filippo era tornato presto e, secondo, era un inguaribile, metodico, puntiglioso ragazzo. Puntiglioso come lui.

    Ciao, pà da dentro la camera con la porta socchiusa.

    Ciao, Filippo e dopo aver acceso il gas per scaldare la pasta: Oh, grazie. Ho una fame bestiale.

    Come tutti i mercoledì.

    Davvero? Aveva molta fame il mercoledì? Cercò di sforzarsi di ricordarne qualcun altro ma…

    Sei tornato presto disse a voce un po’ più alta.

    Tu no.

    Come tutti i mercoledì azzardò volendo fare una battuta. Ma il silenzio che seguì gli fece capire che non era stata apprezzata affatto.

    Strascichio di scarpe da tennis infilate male a ciabatta: Filippo era apparso sulla porta della cucina in bermuda e maglietta.

    Come tutti i giorni fu la sentenza spietata della sua battutina infelice.

    Tu ne vuoi? disse Stefano solo per cambiare discorso.

    Io sto per andare a dormire. Domani ho un tema d’italiano.

    Stefano andò verso di lui e lo abbracciò, come faceva tutte le volte che si imbarazzava.

    Buonanotte Fil e in bocca al lupo.

    Notte, pà rispose lui irrigidendosi come un palo, come faceva tutte le volte che si imbarazzava.

    Strascichio di scarpe da tennis infilate male a ciabatta.

    Ah, scusa Fil!

    Che c’è?

    Hai sentito la mamma?

    Strascichio di scarpe da tennis infilate male a ciabatta.

    Suo figlio allo stipite della porta.

    Secondo te?

    Già, domanda stupida. Battutina stupida e domanda stupida. Brutta serata.

    Devo chiederle una cosa.

    Anche lei.

    Quella frase risuonò come un presagio oscuro nel Tempio di Delfi.

    Strascichio di scarpe da tennis infilate male a ciabatta.

    Allora sarebbe stato meglio chiamarla subito.

    Battutina stupida, domanda stupida e telefonata ad Elena.

    Brutta serata.

    Il telefono suonò dall’altra parte della cornetta più a lungo del solito. Gli venne il dubbio che stesse già dormendo. Sarebbe stata una tragedia.

    Pronto.

    Dormivi?

    Qualche secondo di silenzio, tanto per lasciarlo nel dubbio.

    No.

    Stefano era convinto che lei lo facesse apposta. E che un altro problema si stava delineando nel loro ménage contorto.

    Sono tornato tardi disse prima di commettere il primo errore. Fil mi ha detto che l’hai chiamato.

    Devo chiederti una cosa.

    Non avrebbe mai dovuto lasciarglielo fare per prima.

    Per quando? disse intuendo già la risposta più temuta.

    La prossima settimana.

    Ecco. Avrebbe voluto riattaccare.

    Non mi dire che devo tenere Fil con me la prossima settimana… secondo errore.

    Ti sembra una cosa strana? Se non sbaglio tu ne sei il padre.

    Non volevo dire questo. Solo che la prossima settimana ho un lavoro fuori città.

    Non gli avrebbe mai creduto, avrebbe pensato che fosse una scusa.

    Non ti credo. Smettila con queste scuse.

    Non è una scusa. Che tu ci creda o no. Che devi fare?

    Fatti miei. E tu?

    Avrebbe voluto risponderle allo stesso modo, ma doveva fare un passo indietro altrimenti la situazione sarebbe davvero diventata irrecuperabile.

    Devo andare a Bologna.

    Vai a ritrovare una tua vecchia fiamma?

    Non ho vecchie fiamme.

    Certo, vuol dire che sono tutte ancora accese…

    È per un’indagine.

    Ho bisogno che tu stia con Filippo gli annunciò perentoria.

    Non posso rimandare. Il capo mi ha dato un ultimatum.

    Sei tu il capo.

    Il grande capo spiegò inutilmente.

    Silenzio. Ecco, si stava preparando.

    Non è possibile che tu sia sempre lo stesso.

    Per una volta che ho bisogno…

    Per una volta che ho bisogno io potresti darmi una mano, no?

    Il tuo lavoro viene per primo…

    È possibile che il tuo lavoro venga sempre per primo? E io sempre dopo, come è sempre successo?

    Non c’è stata una volta…

    Non c’è stata una volta che avessi bisogno e che tu fossi disponibile.

    Esagerata, non era vero.

    E non mi dire che non è vero, perché le pochissime volte che hai cambiato i tuoi impegni me lo hai fatto pesare così tanto che… che… potevi anche farne a meno, allora!

    Ah, ecco.

    Non lo faccio apposta. Me lo ha detto oggi.

    Ma guarda, ma davvero? Tu pensa che combinazione…

    Senti, credimi, non posso rifiutarmi, né spostare la cosa. Ma tu cosa devi fare?

    Il silenzio che riempì l’altro capo del telefono gli fece capire che ancora una volta aveva sbagliato domanda.

    Sono fatti miei. La mia vita non ti riguarda più.

    La mia vita… quindi doveva vedere qualcuno… la sua vita non lo riguardava più ma questo non le aveva impedito di vendicarsi della sua indisponibilità suggerendogli che lei dovesse vedersi con un altro… ma perché bisogna sempre vendicarsi di chi ci ha fatto del male senza volerlo? La morale cristiana, la messa, la comunione, ma tutto questo dove andava a finire quando serviva? E tutto il tempo vissuto insieme, dove andava a finire?

    Dove era finito?

    Capisco rispose semplicemente, non curandosi molto di cosa potesse trasparire da quelle sue parole.

    Ancora del silenzio, del silenzio che voleva dire che lei stava pensando a quell’altro in quel momento. Una cattiveria spietata si impadronisce di noi quando veniamo feriti non nel corpo, non negli averi, ma nell’orgoglio. L’orgoglio di essere gli unici, l’orgoglio di credere che le cose durino per sempre, l’orgoglio di ritenersi insostituibili, l’orgoglio di credere di conoscere la verità.

    L’orgoglio di ritenere di aver diritto ad una vendetta.

    Infine, il colpo finale:

    Non importa. Farò diversamente. In fondo, ha quattordici anni.

    Che tradotto voleva dire: fa pure le tue indagini, non modificare i tuoi impegni per me; c’è chi per me lo fa e lo fa volentieri, lui sì che è più elastico, lui sì che è più comprensivo, ci penserà lui a trovare una soluzione… se l’aspetto da te, che non hai mai deciso niente… Ora lo chiamo, gli dico quanto meschino sei e lui, in un attimo, troverà una soluzione, mi proporrà un’alternativa e mi consolerà, mi consolerà, come solo lui sa fare…

    Non sapeva cosa dire, cosa rispondere. Tanto qualsiasi cosa sarebbe stata sbagliata.

    Mi dispiace abbozzò tra i denti. Appena torno ti chiamo e starò con Filippo per tutto il tempo che vorrai.

    In fondo, aveva quattordici anni. Passati molto in fretta, troppo in fretta.

    Lei rimase leggermente meravigliata, forse si aspettava un’altra reazione. Ma sapeva di averlo ferito, comunque.

    Ci sentiamo disse prima di mettere giù.

    Era già seduto sul divano, altrimenti avrebbe dovuto mettersi a sedere. Si sentiva tremare le gambe, si sentiva… perché doveva sentirsi così? Quella donna era troppo dura, lo era stata sempre, con lui. Era una donna tutta di un pezzo, ma il pezzo di cui era non lo aveva mai capito.

    B

    Aveva vissuto a Bologna. Molti anni.

    Ne ricordava il ciottolato delle strade, la protezione dei portici, gli androni lussuosi, le chiese poliedriche, i colori delle case, gli archi infiniti, i giardini e le ville, le colline degli innamorati,

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