Misteriose Luci Lontane
Di Andrea Rossi
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Info su questo ebook
Andrea Rossi è nato ad Isernia nel 1988 e qui risiede. Dopo il normale ciclo di studi scolastici, presso il liceo artistico di Isernia, frequenta la facoltà di biologia presso l’Università degli Studi del Molise, sede di Pesche (CB). Successivamente, terminato il percorso triennale, intraprende il corso di laurea magistrale in Biologia e Tecnologie Cellulari, presso la Sapienza di Roma. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca in biologia, presso l’Università degli Studi del Molise. Nella sua vita ha praticato numerosi sport, cimentandosi nelle arti marziali e nel pugilato, inoltre, ha dedicato se stesso alla montagna, all’esplorazione e all’alpinismo. Ama scrivere romanzi e brevi racconti.
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Anteprima del libro
Misteriose Luci Lontane - Andrea Rossi
Andrea Rossi
Misteriose Luci Lontane
Albatros
Nuove Voci
Ebook
© 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma
www.gruppoalbatros.com
ISBN 978-88-306-2656-0
I edizione elettronica luglio 2020
Dedicato ad Ilde, migliore amica e mamma…
Prefazione di Barbara Alberti
Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.
È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.
Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi
Non esiste un vascello come un libro
per portarci in terre lontane
né corsieri come una pagina
di poesia che s’impenna.
Questa traversata la può fare anche un povero,
tanto è frugale il carro dell’anima
(Trad. Ginevra Bompiani).
A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.
Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.
Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.
Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov
.
Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.
Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.
Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.
Giugno
Un buon risveglio
Roma, sabato 20 maggio
Era uno di quei tipici momenti in cui la quiete preannunciava la tempesta. Nulla si muoveva, nulla si sentiva. Erano entrambi fermi, che fissavano il vuoto, trovandolo nei pochi elementi presenti nella stanza, come se questi, fossero un punto d’ancoraggio per le contrastanti emozioni che s’andavano infiammando.
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<> irruppe Ethan, buttando fuori l’aria come a liberarsi dell’ancora che fino a quel momento l’aveva tenuto giù. <
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<<È terminata? Ma lei vuole scherzare?>>
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<> insistette. <
L’infermiera dapprima sbuffò, poi lentamente si fece da parte, uscendo dalla stanza, e seppur permanesse nei paraggi, Giancarlo non si curò più di lei. Non appena si fu allontanata e fu sicuro che non fosse più a portata di voce, s’avvicinò all’orecchio del figlio e disse: <
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Giancarlo si alzò ed ergendosi in piedi fece un lungo respiro. <
A tali parole Ethan non fece una smorfia, né rilasciò alcuna risposta. Nel crescente silenzio che avviluppava la stanza si voltò dall’altro lato, distogliendo gli occhi dallo sguardo austero del padre, e appoggiò la testa sul cuscino. A quel punto calò un velo nero nella camera, attimi brevi ma densi di sentimenti contrastanti. Senza dire altro, senza un altro confronto, Giancarlo uscì, Ethan non lo guardò neppure, oramai assorto da altri nascenti pensieri. Fissava gli schermi dei macchinari che gli erano attaccati, posti all’altro lato della porta d’uscita. Non ne sapeva leggere i valori, né poteva esprimerne un giudizio medico, ma poco gli importava a quel punto. Avrebbe preferito, a tutto ciò, una soluzione ben più drastica di una seppur logorante convalescenza. I pensieri che lo accompagnavano oramai dalla manciata d’ore in cui era tornato alla luce, s’annebbiarono nuovamente, una fitta stanchezza lo avvolse. Riprese sonno poco dopo, un sonno altrettanto profondo.
Uno spiffero di vento corse lungo il tavolo, smosse i tovaglioli e trascinò con sé le briciole che v’erano sopra. Francesco aveva appena dato un morso al soffice cornetto alla crema e, usandolo a mo’ di fermacarte, lo riadagiò sopra il fazzoletto. La tv continuava a mandare le notizie della sera prima. <
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<> irruppe Massimo, che li aveva appena raggiunti al tavolo.
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Davide, facendo schioccare le labbra a mo’ di sfottò, riprese urtato il discorso: <
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Massimo accennò un sì con il capo, aggiungendovi un grottesco sorriso sulle labbra. <
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<<È andata quindi… L’hai già consegnata?>> chiese Francesco.
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Massimo che intanto si era appena ingozzato l’ultima metà del cornetto, si limitò a fare orecchie da mercante ai timori dell’amico, scrutando al contempo qualcosa da trangugiare per far scendere il boccone appena inghiottito.
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Come stregato, sobbalzò fuori dai suoi pensieri, deglutì e fece un bel respiro. <
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<> ribatté Massimo, sormontato da una risata collettiva.
Ethan continuò a rimanere impassibile e neanche gli altri finirono di ridere, che inspirando profondamente si pronunciò: <<È meglio che vado, non è cosa stamattina>> alzatosi in piedi, si staccò dal tavolo sotto l’occhiata silenziosa del gruppo e scivolò via, districandosi alla svelta tra i tavolini.
Non passò molto prima che Massimo balzasse anch’egli in piedi e non permettendo che si allontanasse troppo, senza badare al resto del gruppo, lo raggiunse.
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Quel nome, come il suono della corda d’un violino che si tende, lo paralizzò all’istante. Massimo solo allora lo riuscì a guardare negli occhi, erano lucidi. Rispose con un cenno di testa e un breve sospiro.
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Il silenzio che Ethan lasciava trapelare, valeva ben più di mille parole sulla sua effettiva volontà, eppure, stanco com’era, non obiettò. Sospirò sbuffando blandamente e salì sull’auto parcheggiata a due passi dal bar. Una vecchia coupé verde metallizzato, "Un pugno nell’occhio quel colore", pensava, ogni qualvolta gli spuntava davanti.
Massimo abbassò quel tanto che bastava il finestrino, gettò la cicca di sigaretta fuori e richiuse per non far uscire la frescura che si era creata con il condizionatore. Aveva ascoltato Ethan per un buon quarto d’ora, senza fiatare. <
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Ethan fissava, distaccato, lo scorrere dei viali fuori dal finestrino. <
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Ethan esitò. Occhi fissi fuori, come un falco su una lepre. <
Il falco s’avvicinava a due uomini, uno d’età più avanzata e l’altro, sebbene avesse passato la giovinezza, mostrava un portamento più salutare. Quello più adulto, fu lui a voltarsi, come per via d’un istinto primordiale. Massimo lo riconobbe, e veloce come il vento, scese dalla macchina, lasciandola nel bel mezzo della strada. <
Ethan fece finta di non ascoltare. Non poteva sentire, né vedere altro all’infuori della preda. Gli andava contro come se nulla esistesse più. Massimo si voltò a guardare l’auto, dietro s’era fatta una piccola fila di guidatori imbufaliti, che attendevano di passare suonando più che potevano. Disperato si rinfilò dentro, incastrandola sul marciapiede. Senza neanche chiuderla, provò a raggiungerlo, ma fu troppo tardi. Ethan agì prima.
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L’uomo fece di no con la testa, poi tossicchiò: <
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Qualcosa inizia… Qualcosa finisce…
Roma, giovedì 25 maggio
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Ethan rispose con l’infinita calma che aveva addosso e senza avvertire il bisogno di aggiungere altro. Tutto, sapeva bene, sarebbe stato più che superfluo in quella conversazione. <
> fece giocherellando con la penna. <
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Giancarlo attese che tutti fossero usciti, rimanendo per alcune decine di secondi tacito a fissare il pavimento. Ethan neanche distoglieva lo sguardo dal solito portello dell’armadietto che era ai piedi del letto e con il quale oramai aveva preso una certa familiarità. Nella stanza c’era un fitto silenzio, tuttavia questo, durò poco. Giancarlo si diede una leggera scossa alla testa, uscendo dai suoi pensieri. Si avvicinò al letto e vi si sedette, lì sul bordo, accanto al figlio.
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Giancarlo annuì sospirando. <>, pronunciato il suo nome, lo guardò diritto negli occhi e solo qui, Ethan ne poté constatare appieno lo spessore delle asperità oculari. Gli morsero l’animo molto più delle parole che seguirono: <<È grave e forse non supererà la notte>> tuonò infine.
A tale presagio non disse nulla, quasi non respirava. Il padre gli poggiò una mano sulla spalla, cosa rara quel contatto; tuttavia, a poco servì la vicinanza. Rimasero alcuni attimi così, poi dopo aver atteso invano al suo fianco la possibilità di un ulteriore confronto, Giancarlo, vedendo il figlio chiudere gli occhi, intuì i suoi pensieri, ancor prima del suo animo. Molto aveva in mente, tanto era accaduto in quei giorni, ma nulla che oramai avesse più la forza di smuovere nuovamente il suo interesse. Occupò quei delicati minuti a riflettersi nel vetro della camera d’ospedale, con gli occhi puntati sullo sconfinare della città. Infine, all’ennesimo sguardo verso il figlio, si decise ad uscire anch’egli dalla stanza senza aggiungere altro.
Ethan rimase solo, oltre che nella stanza anche nella sua mente, svuotata di ogni cosa eccetto una. Non l’aveva più visto, per quanto s’era sforzato di ricordare o di vedere in quei pochi istanti dopo il finimondo, "Non c’era,
Eppure eravamo accanto fin un solo attimo prima", si continuava a ripetere; ma ciò durò poco. L’interrogativo che affogava la sua mente lasciò ben presto il passo ai sensi di colpa, al rimorso e alla cupa disperazione. Quella notte pianse come mai aveva fatto in un’intera vita. Affondò la testa nel cuscino, come per soffocare il dolore, come per nascondersi dai pensieri che gli sfilavano davanti.
Sul tardi venne solo l’infermiera a controllare i valori e a fargli un prelievo, ma dal suo letto quasi non la guardò. Non lasciò trasparire alcuna vitalità, impassibile di fronte a tutto e solo la mattina, all’ennesimo cambio della flebo, sembrò riprendersi appena.
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L’infermiera, che avrà avuto una cinquantina d’anni, incrociando gli occhi gonfi, all’ennesima richiesta, lo guardò a compassione e confessò: <
L’ennesimo sospiro gli riempì i polmoni e, come per effetto di una droga chiesta ed appena iniettata, si stese nuovamente sul cuscino. La malinconia sembrò sopraffarlo nuovamente, fino al sopraggiungere del sonno più totale.
Anche il giorno che seguì non fu molto dissimile dai precedenti, non mangiò affatto. A tenerlo in vita erano per lo più le iniezioni e le flebo cambiate l’una dopo l’altra. Anche se recuperava velocemente i suoi traumi, dentro vi erano le ferite più grandi.
Il professor Bianchi era un vecchio medico prossimo al pensionamento. Non era mai stato primario né tantomeno dipendente in quell’ospedale, ma gli innumerevoli anni d’esperienza gli valevano come una serie di medaglie appuntate sul camice. Giancarlo aveva chiesto espressamente di lui, eterno medico della sua famiglia, la cui amicizia discendeva direttamente dal defunto padre, anch’egli affermato professionista in quella nobile arte. Così le profonde conoscenze e le facili pressioni su cui poteva influire il Bianchi, non si erano fatte attendere.
Gli abiti, seppur civili, notò Ethan, potevano rispecchiare con certezza la sua professione. Influenzato chissà da quale stereotipo, pensava tra sé e sé, che additava i medici, quelli aventi un’età prossima al congedo, come estimatori dell’arte venatoria. Non tutti, ma per la legge dei grandi numeri, molti, constatò, sottostavano a questa teoria empirica. Il Bianchi era dunque vestito a modo, ma con uno stile che ricordava quello dei cavallerizzi britannici durante la battuta di caccia alla volpe. Soltanto le scarpe si distaccavano da tale moda. L’ampia camicia a quadri rossa, seguita da un olivastro berretto di maglia di cotone, senza poi tralasciare il pantalone bianco a vita alta, erano per lui una chiara evidenza del suo mestiere. Ethan, ogni volta che notava pur un singolo particolare durante le cordiali visite che riceveva e che ricercava dal Bianchi, doveva far sempre in modo di nascondere un sorriso che sarebbe sfociato, di lì a poco, in un più marcato sbuffo ironico. Quella volta però l’ironia venne del tutto a mancare in lui.
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I dei Monti, si lanciarono un’occhiata di sfuggita, poi Giancarlo prendendo le redini, si rivolse nuovamente al medico: <
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<<È tutta colpa mia... Massimo non c’entrava nulla e non avrebbe dovuto essere lì.>>
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