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Misteriose Luci Lontane
Misteriose Luci Lontane
Misteriose Luci Lontane
E-book418 pagine6 ore

Misteriose Luci Lontane

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Info su questo ebook

Ethan, alpinista e scrittore, Elisabetta studentessa di biologia, sono due perfetti sconosciuti le cui vite scorrono parallele ma lontane. Una serie di oscuri eventi, al cui vertice un attentato nel cuore della capitale, spezzano legami d’amicizia e d’amore, ed è a questo punto che Ethan sarà trascinato in un lungo e tortuoso viaggio fin nel cuore dell’Appennino. Proprio qui, in un minuto borgo altomontano, dove l’aria è tersa e le montagne sono rocciose ed impervie, le scelte del destino si serviranno di un’estate, di notti burrascose e di giornate luminose, intrecciando legami e frantumando ciò che era in decadenza. Ma le ceneri del passato, trascinate dallo spirare del vento, riusciranno a raggiungere le lontane e ripide montagne di Roccavento?

Andrea Rossi è nato ad Isernia nel 1988 e qui risiede. Dopo il normale ciclo di studi scolastici, presso il liceo artistico di Isernia, frequenta la facoltà di biologia presso l’Università degli Studi del Molise, sede di Pesche (CB). Successivamente, terminato il percorso triennale, intraprende il corso di laurea magistrale in Biologia e Tecnologie Cellulari, presso la Sapienza di Roma. Attualmente sta svolgendo il dottorato di ricerca in biologia, presso l’Università degli Studi del Molise. Nella sua vita ha praticato numerosi sport, cimentandosi nelle arti marziali e nel pugilato, inoltre, ha dedicato se stesso alla montagna, all’esplorazione e all’alpinismo. Ama scrivere romanzi e brevi racconti.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2020
ISBN9788830626560
Misteriose Luci Lontane

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    Anteprima del libro

    Misteriose Luci Lontane - Andrea Rossi

    Andrea Rossi

    Misteriose Luci Lontane

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2656-0

    I edizione elettronica luglio 2020

    Dedicato ad Ilde, migliore amica e mamma…

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterly. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    Giugno

    Un buon risveglio

    Roma, sabato 20 maggio

    Era uno di quei tipici momenti in cui la quiete preannunciava la tempesta. Nulla si muoveva, nulla si sentiva. Erano entrambi fermi, che fissavano il vuoto, trovandolo nei pochi elementi presenti nella stanza, come se questi, fossero un punto d’ancoraggio per le contrastanti emozioni che s’andavano infiammando.

    <> ringhiò tutto d’un tratto Giancarlo, <> continuò con fare agitato. Ethan non si mosse, non fiatò, passivo, continuava a fissare gli statici sportelli bianchi dell’armadietto, dritto ai piedi del letto.

    <> continuò gesticolando vivacemente, mentre spargeva passi su e giù nella stanza. <>

    <> irruppe Ethan, buttando fuori l’aria come a liberarsi dell’ancora che fino a quel momento l’aveva tenuto giù. <> continuò seguendo l’andirivieni con lo sguardo.

    <> ribatté prontamente Giancarlo. <> Questa volta Ethan non ebbe il tempo di rispondergli, neanche la voglia, che precipitandosi frettolosamente entrò l’infermiera del turno serale.

    <> urlò ancora prima di mettere piede dentro, <> esplose come un vulcano, benintesa che aveva lasciato correre fin troppo.

    <<È terminata? Ma lei vuole scherzare?>>

    <> ribatté a denti serrati, mentre affiancandosi al letto lanciò un’occhiata alla strumentazione ed ai valori lì raffigurati. <> disse indicando la porta <> continuò riprendendo fiato.

    <> bisbigliò Giancarlo.

    <> sibilò come un serpente l’infermiera.

    <> insistette. <> aggiunse, notando che, la diretta interessata, era rimasta ferma lì di piantone, accanto al letto.

    L’infermiera dapprima sbuffò, poi lentamente si fece da parte, uscendo dalla stanza, e seppur permanesse nei paraggi, Giancarlo non si curò più di lei. Non appena si fu allontanata e fu sicuro che non fosse più a portata di voce, s’avvicinò all’orecchio del figlio e disse: <>

    <> chiese Ethan dopo l’attimo di esitazione.

    <> rispose distaccandosi quel tanto che bastava dall’orecchio, per poter incrociare lo sguardo del figlio.

    <>

    Giancarlo si alzò ed ergendosi in piedi fece un lungo respiro. <> il suo sguardo non era severo ma vuoto, spento, ricordava quello di una scultura.

    A tali parole Ethan non fece una smorfia, né rilasciò alcuna risposta. Nel crescente silenzio che avviluppava la stanza si voltò dall’altro lato, distogliendo gli occhi dallo sguardo austero del padre, e appoggiò la testa sul cuscino. A quel punto calò un velo nero nella camera, attimi brevi ma densi di sentimenti contrastanti. Senza dire altro, senza un altro confronto, Giancarlo uscì, Ethan non lo guardò neppure, oramai assorto da altri nascenti pensieri. Fissava gli schermi dei macchinari che gli erano attaccati, posti all’altro lato della porta d’uscita. Non ne sapeva leggere i valori, né poteva esprimerne un giudizio medico, ma poco gli importava a quel punto. Avrebbe preferito, a tutto ciò, una soluzione ben più drastica di una seppur logorante convalescenza. I pensieri che lo accompagnavano oramai dalla manciata d’ore in cui era tornato alla luce, s’annebbiarono nuovamente, una fitta stanchezza lo avvolse. Riprese sonno poco dopo, un sonno altrettanto profondo.

    Uno spiffero di vento corse lungo il tavolo, smosse i tovaglioli e trascinò con sé le briciole che v’erano sopra. Francesco aveva appena dato un morso al soffice cornetto alla crema e, usandolo a mo’ di fermacarte, lo riadagiò sopra il fazzoletto. La tv continuava a mandare le notizie della sera prima. <> pronunciò non appena deglutì il boccone.

    <> ribatté quasi sbuffando Davide, che dal canto suo il cornetto lo aveva finito già da un pezzo. <> aggiunse scuotendo la testa e voltando bruscamente la pagina del giornale

    <> continuò Francesco.

    <> irruppe Massimo, che li aveva appena raggiunti al tavolo.

    <> ribatté l’interessato.

    <> aggiunse l’ultimo arrivato nel mentre si adagiava sull’unica sedia ancora libera al tavolino.

    Davide, facendo schioccare le labbra a mo’ di sfottò, riprese urtato il discorso: <> disse, e come per evitare altri confronti s’immerse di nuovo nella lettura del giornale sportivo.

    <>

    <> lo riprese Davide. <> aggiunse, sempre rimanendo col viso celato dal quotidiano.

    <Federica e poi ieri sera... c’era na certa macchina…. Se ve ricordate?>>

    <> intervenne Francesco stroncando ogni parola e distogliendo prontamente lo sguardo dal televisore. In egual modo fece Davide con il giornale.

    Massimo accennò un sì con il capo, aggiungendovi un grottesco sorriso sulle labbra. <>

    <> chiesero sibilando quasi in coro i due amici, e dati i bassi toni con cui stava nascendo quella conversazione, in meno di un secondo erano più vicini di mezzo metro all’amico, per ascoltare ogni dettaglio.

    <> rispose in tutta tranquillità Massimo.

    <<È andata quindi… L’hai già consegnata?>> chiese Francesco.

    <> fece aspettandosi già la domanda, e, notando lo sconcerto sul viso di entrambi, aggiunse senza altri giri di parole: <> ribatté con una smorfia sul volto. <>

    <> bisbigliò Davide.

    <> rispose e senza esitare, afferrò la restante colazione di Francesco.

    <>

    Massimo che intanto si era appena ingozzato l’ultima metà del cornetto, si limitò a fare orecchie da mercante ai timori dell’amico, scrutando al contempo qualcosa da trangugiare per far scendere il boccone appena inghiottito.

    <> continuò Francesco, <> Tali parole appena pronunciate sortirono l’attenzione di Massimo, che non si lasciò scappare l’attimo di elargire un volgare ed antico gesto scaramantico.

    <> fece Massimo dando un colpetto sul braccio a Ethan che era rimasto distante anni luce da quei discorsi.

    Come stregato, sobbalzò fuori dai suoi pensieri, deglutì e fece un bel respiro. <> borbottò improvvisamente, <> continuò, ed evitando di incrociare lo sguardo dei presenti, prese a guardare il televisore, in alto, poco distante.

    <> domandò Massimo. Ethan non rispose, continuava a fissare il vuoto tra sé e la pubblicità che veniva trasmessa sul grande schermo.

    <> si lanciò nuovamente l’amico, tastando uno dei possibili motivi.

    <> bisbigliò prontamente Ethan.

    <> disse Massimo dando un colpetto a Davide che aveva da poco ripreso la lettura del giornale.

    <> disse l’amico facendogli l’occhiolino <>

    <> ribatté Massimo, sormontato da una risata collettiva.

    Ethan continuò a rimanere impassibile e neanche gli altri finirono di ridere, che inspirando profondamente si pronunciò: <<È meglio che vado, non è cosa stamattina>> alzatosi in piedi, si staccò dal tavolo sotto l’occhiata silenziosa del gruppo e scivolò via, districandosi alla svelta tra i tavolini.

    Non passò molto prima che Massimo balzasse anch’egli in piedi e non permettendo che si allontanasse troppo, senza badare al resto del gruppo, lo raggiunse.

    <> chiese non appena lo affiancò.

    <> rispose Ethan, tirando dritto, a testa bassa, nella sua direzione.

    <> domando l’amico.

    Quel nome, come il suono della corda d’un violino che si tende, lo paralizzò all’istante. Massimo solo allora lo riuscì a guardare negli occhi, erano lucidi. Rispose con un cenno di testa e un breve sospiro.

    <> A tali parole, seguì un timido gesto del diretto interessato, che dal canto suo era pronto a riprendere il passo.

    <> intervenne nuovamente afferrandolo per il braccio.

    <>

    <> fece Massimo.

    Il silenzio che Ethan lasciava trapelare, valeva ben più di mille parole sulla sua effettiva volontà, eppure, stanco com’era, non obiettò. Sospirò sbuffando blandamente e salì sull’auto parcheggiata a due passi dal bar. Una vecchia coupé verde metallizzato, "Un pugno nell’occhio quel colore", pensava, ogni qualvolta gli spuntava davanti.

    Massimo abbassò quel tanto che bastava il finestrino, gettò la cicca di sigaretta fuori e richiuse per non far uscire la frescura che si era creata con il condizionatore. Aveva ascoltato Ethan per un buon quarto d’ora, senza fiatare. <> irruppe ad un tratto. Fu Ethan questa volta a non fiatare.

    <> continuò Massimo <> insistette lasciando per un attimo la strada e posando gli occhi sul suo, oramai, spento passeggero.

    Ethan fissava, distaccato, lo scorrere dei viali fuori dal finestrino. <> disse non appena notò che stavano per imboccare la Tiburtina, verso Roma sud.

    <>

    <> lo interruppe bruscamente scattando sul sedile. Massimo inchiodò, non capiva cosa stesse succedendo. Ethan scrutava oltre una fila di auto parcheggiate ad una manciata di metri di distanza.

    <> chiese cercando forsennatamente la risposta davanti a sé.

    Ethan esitò. Occhi fissi fuori, come un falco su una lepre. <> esclamò scendendo frettolosamente e a passo svelto prese a dirigersi sulla sponda sinistra, seguendo parallelamente il marciapiede.

    Il falco s’avvicinava a due uomini, uno d’età più avanzata e l’altro, sebbene avesse passato la giovinezza, mostrava un portamento più salutare. Quello più adulto, fu lui a voltarsi, come per via d’un istinto primordiale. Massimo lo riconobbe, e veloce come il vento, scese dalla macchina, lasciandola nel bel mezzo della strada. <>

    Ethan fece finta di non ascoltare. Non poteva sentire, né vedere altro all’infuori della preda. Gli andava contro come se nulla esistesse più. Massimo si voltò a guardare l’auto, dietro s’era fatta una piccola fila di guidatori imbufaliti, che attendevano di passare suonando più che potevano. Disperato si rinfilò dentro, incastrandola sul marciapiede. Senza neanche chiuderla, provò a raggiungerlo, ma fu troppo tardi. Ethan agì prima.

    <> ringhiò avvertendo quel fremito d’adrenalina entrargli nel sangue.

    <> gridò con tutto il fiato. Oramai, gli era addosso. A quel punto si voltò anche l’uomo più giovane. Appena lo fece, Ethan, come seguendo un copione d’un film rivisto mille volte, gli sferrò un pugno, che lo fece barcollare e crollare a terra. L’altro, quello anziano, il suo vero bersaglio, si mosse per sfoderare un qualcosa da un taschino interno della giacca, Ethan fu sorpreso, ma non più lento, gli bloccò la mano, facendoglielo cadere, era un teser. Ciò gli fece perdere l’iniziativa. Fu l’altro più veloce nel reagire, gli menò un colpo al petto, divincolandosi. Ethan si sbilanciò andando a sbattere contro la portiera dell’auto parcheggiata alle sue spalle. Disperato l’uomo, fece ancora per colpire ma il suo bersaglio, fluido come un serpente d’acqua, schivò abbassandosi e mandandolo a vuoto. Eseguì una torsione con il busto e con la stessa rapidità scaricò un gancio incrociandogli la mandibola. Sobbalzò, cadde indietreggiando per alcuni passi. Intanto l’altro, il compagno più giovane e atletico, che avrà avuto all’incirca una quarantina d’anni, s’era rialzato, e stava per tramortirlo alle spalle. Ethan avvertì un tonfo secco, si girò, Massimo l’aveva colpito prima, facendolo crollare nuovamente. Fissò l’amico negli occhi, lui fece lo stesso, nessuno dei due parlava, avevano entrambi il fiato corto, sia per lo scontro sia perché incominciavano a capire cosa avevano fatto. Il falco si riprese poco dopo, si chinò ed afferrò per la camicia l’uomo più anziano, il suo vero bersaglio, che aveva un rivolo di sangue dalla bocca. <> disse sibilandogli in faccia. Con tutte le sue forze, stringendogli serratamente la camicia lo rialzò, appoggiandolo sullo sportello di una macchina lì parcheggiata.

    L’uomo fece di no con la testa, poi tossicchiò: <> disse sputando sangue a terra, ma neanche fece a tempo che Ethan, con una smorfia di rabbia sul volto, gli sferrò un montante secco incrociandogli questa volta il costato. Emise un gemito secco e franando, senza un briciolo di fiato, gli scivolò via tra le mani. Non appena cadde a terra il falco s’apprestava a dare il colpo di grazia alla sua preda, quando Massimo lo fermò lanciandoglisi sopra. <> gridò Ethan con tutta la sua ferocia.

    <> gridò l’amico trattenendolo ancora per qualche istante, fino a quando lo sentì più calmo. L’uomo con il fiato rotto riprendeva lentamente il respiro.

    <> disse nuovamente Ethan, tornando in sé, ma fu troppo tardi. I suoi occhi videro precipitarsi verso di loro degli agenti di polizia, usciti dal portone di lì a pochi metri. Quell’immagine fu una delle ultime cose che vide. Fu accecato da un bagliore solare, un boato assordante, il fuoco e un’onda d’urto da sradicare alberi, lo sbalzarono ad alcuni metri con violenza, scagliandolo contro il parabrezza di un’auto in sosta. Divamparono fiamme e fumo, un fumo denso, nero. Non sentiva più nulla, riaccese gli occhi, la testa gli pesava, incominciò ad avvertire leggeri dolori appena girò il collo per guardarsi attorno, non per vedere cosa era successo, ma per cercare Massimo. Come per istinto alzò poi il braccio, quel tanto che bastasse per vederlo grondare, schegge di vetro e detriti conficcati nella pelle, fiotti e bolle di sangue presero a comparire a chiazze anche sulla maglietta. Le forze gli mancarono, avvertì un forte vuoto e si adagiò nella culla di vetro, sommerso da una coperta di polvere e detriti.

    Qualcosa inizia… Qualcosa finisce…

    Roma, giovedì 25 maggio

    <> proferì senza batter ciglio l’ispettore, mettendo il punto su dove era arrivato nel prendere nota; poi fece un lungo respiro e si pronunciò nuovamente con tutto il fiato che aveva ingurgitato: <> concluse e con un abile gesto si sfilò gli spessi occhiali da vista che aveva pesantemente adagiati sul naso. <> continuò riprendendo fiato e l’iniziativa <> chiese l’ispettore che, comodamente seduto sull’unica poltrona della stanza, abilmente avvicinata al letto, occhiali alla mano, lo scrutava inespressivo. <> aggiunse gesticolando con la penna con cui aveva scritto una buona metà di taccuino.

    Ethan rispose con l’infinita calma che aveva addosso e senza avvertire il bisogno di aggiungere altro. Tutto, sapeva bene, sarebbe stato più che superfluo in quella conversazione. <>

    > disse l’ispettore mentre riprese a scrivere frettolosamente sul blocchetto di carta <> fece giocherellando con la penna. <>

    <> ribatté prontamente il diretto interessato, immergendosi questa volta negli acuti occhi del funzionario, senza perderne alcuna sbavatura motoria.

    <> intervenne a quel punto Giancarlo, che, dato il peso sociale, aveva fatto di tutto per poter assistere al colloquio.

    <> affermò prontamente scattando sulla poltrona <> replicò sistemando freneticamente i vari rapporti sparpagliati sul bordo del letto. Appena ne fece un blocco unico, si alzò tirando un lungo sospiro. <> disse infine porgendo la mano ad entrambi e, senza aggiungere altro, alla mezz’ora buona d’indagine, uscì rapidamente dalla stanza seguito dai due silenziosi agenti di scorta.

    Giancarlo attese che tutti fossero usciti, rimanendo per alcune decine di secondi tacito a fissare il pavimento. Ethan neanche distoglieva lo sguardo dal solito portello dell’armadietto che era ai piedi del letto e con il quale oramai aveva preso una certa familiarità. Nella stanza c’era un fitto silenzio, tuttavia questo, durò poco. Giancarlo si diede una leggera scossa alla testa, uscendo dai suoi pensieri. Si avvicinò al letto e vi si sedette, lì sul bordo, accanto al figlio.

    <> fece.

    <> bisbigliò Ethan.

    <> rispose interrompendosi quasi bruscamente, <> continuò volgendogli lo sguardo <>

    <> nel rispondergli cercò, facendo forza sulle braccia, di mettersi seduto in una posizione più eretta. Le cuciture e le ferite ancora fresche presero a pulsare di dolore, scaricandosi infine in tutta la loro tensione sul volto. Ethan strinse i denti ma non emise un solo gemito. <> continuò lasciandosi cadere nuovamente tra i cuscini. Notò in quell’istante, da quell’angolo di visuale, le occhiaie che aveva il padre, il volto teso ed in egual modo avvertiva una languida stanchezza muscolare trasudare dal suo corpo.

    <>

    Giancarlo annuì sospirando. <>, pronunciato il suo nome, lo guardò diritto negli occhi e solo qui, Ethan ne poté constatare appieno lo spessore delle asperità oculari. Gli morsero l’animo molto più delle parole che seguirono: <<È grave e forse non supererà la notte>> tuonò infine.

    A tale presagio non disse nulla, quasi non respirava. Il padre gli poggiò una mano sulla spalla, cosa rara quel contatto; tuttavia, a poco servì la vicinanza. Rimasero alcuni attimi così, poi dopo aver atteso invano al suo fianco la possibilità di un ulteriore confronto, Giancarlo, vedendo il figlio chiudere gli occhi, intuì i suoi pensieri, ancor prima del suo animo. Molto aveva in mente, tanto era accaduto in quei giorni, ma nulla che oramai avesse più la forza di smuovere nuovamente il suo interesse. Occupò quei delicati minuti a riflettersi nel vetro della camera d’ospedale, con gli occhi puntati sullo sconfinare della città. Infine, all’ennesimo sguardo verso il figlio, si decise ad uscire anch’egli dalla stanza senza aggiungere altro.

    Ethan rimase solo, oltre che nella stanza anche nella sua mente, svuotata di ogni cosa eccetto una. Non l’aveva più visto, per quanto s’era sforzato di ricordare o di vedere in quei pochi istanti dopo il finimondo, "Non c’era, Eppure eravamo accanto fin un solo attimo prima", si continuava a ripetere; ma ciò durò poco. L’interrogativo che affogava la sua mente lasciò ben presto il passo ai sensi di colpa, al rimorso e alla cupa disperazione. Quella notte pianse come mai aveva fatto in un’intera vita. Affondò la testa nel cuscino, come per soffocare il dolore, come per nascondersi dai pensieri che gli sfilavano davanti.

    Sul tardi venne solo l’infermiera a controllare i valori e a fargli un prelievo, ma dal suo letto quasi non la guardò. Non lasciò trasparire alcuna vitalità, impassibile di fronte a tutto e solo la mattina, all’ennesimo cambio della flebo, sembrò riprendersi appena.

    <> insistette non ricevendo per tempo risposte alle domande che poneva <>

    L’infermiera, che avrà avuto una cinquantina d’anni, incrociando gli occhi gonfi, all’ennesima richiesta, lo guardò a compassione e confessò: <> balbettò <>

    L’ennesimo sospiro gli riempì i polmoni e, come per effetto di una droga chiesta ed appena iniettata, si stese nuovamente sul cuscino. La malinconia sembrò sopraffarlo nuovamente, fino al sopraggiungere del sonno più totale.

    Anche il giorno che seguì non fu molto dissimile dai precedenti, non mangiò affatto. A tenerlo in vita erano per lo più le iniezioni e le flebo cambiate l’una dopo l’altra. Anche se recuperava velocemente i suoi traumi, dentro vi erano le ferite più grandi.

    Il professor Bianchi era un vecchio medico prossimo al pensionamento. Non era mai stato primario né tantomeno dipendente in quell’ospedale, ma gli innumerevoli anni d’esperienza gli valevano come una serie di medaglie appuntate sul camice. Giancarlo aveva chiesto espressamente di lui, eterno medico della sua famiglia, la cui amicizia discendeva direttamente dal defunto padre, anch’egli affermato professionista in quella nobile arte. Così le profonde conoscenze e le facili pressioni su cui poteva influire il Bianchi, non si erano fatte attendere.

    Gli abiti, seppur civili, notò Ethan, potevano rispecchiare con certezza la sua professione. Influenzato chissà da quale stereotipo, pensava tra sé e sé, che additava i medici, quelli aventi un’età prossima al congedo, come estimatori dell’arte venatoria. Non tutti, ma per la legge dei grandi numeri, molti, constatò, sottostavano a questa teoria empirica. Il Bianchi era dunque vestito a modo, ma con uno stile che ricordava quello dei cavallerizzi britannici durante la battuta di caccia alla volpe. Soltanto le scarpe si distaccavano da tale moda. L’ampia camicia a quadri rossa, seguita da un olivastro berretto di maglia di cotone, senza poi tralasciare il pantalone bianco a vita alta, erano per lui una chiara evidenza del suo mestiere. Ethan, ogni volta che notava pur un singolo particolare durante le cordiali visite che riceveva e che ricercava dal Bianchi, doveva far sempre in modo di nascondere un sorriso che sarebbe sfociato, di lì a poco, in un più marcato sbuffo ironico. Quella volta però l’ironia venne del tutto a mancare in lui.

    <> disse il professore analizzando i referti che, data la lunghezza delle lastre, gli sfioravano la gobba della pancia <> concluse. Tuttavia, continuando a fissare un qualcosa nelle immagini in bianco e nero rimaneva preso da un particolare nelle fotografie del torace.

    <> chiese impaziente Giancarlo.

    <> rispose rivolgendo un acuto sguardo al suo paziente, <> continuò riprendendo a sbrogliare tra loro il fascio di referti.

    I dei Monti, si lanciarono un’occhiata di sfuggita, poi Giancarlo prendendo le redini, si rivolse nuovamente al medico: <>

    <> bofonchiò il Bianchi, poi, ancor prima di esprimersi, prese a frugare nella sua borsa di pelle, estrasse dalla sua profondità, come fa un mago con il suo cilindro, una scatoletta in legno; in questa v’era un datato stetoscopio, quasi un cimelio storico pareva con le sue colorite sfumature d’ossido sui bracci cromati; con un’abile maestria, vi si avvolse il collo, facendo, al contempo, un cenno al suo giovane paziente, che si manteneva seduto sul letto. Lo stesso Bianchi lo aiutò ad alzare delicatamente gli indumenti; sebbene venisse coadiuvato anche da Giancarlo, che si era presto prodigato ad aiutarlo, nel difficile compito, non mancarono, sul volto di Ethan, delle sottili smorfie di sofferenza. L’anziano medico lo ascoltò a fondo e parve immerso in quella sinfonia per un’eternità, fin quando, la sostituì, con un colpo di tosse, e fece: <>

    <> bisbigliò il padre.

    <> convenne il datato amico di famiglia, che, scrollandosi nuovamente lo stetoscopio dal collo, proferì nuovamente: <> disse nel lanciare un’occhiata all’orologio da taschino. <> continuò porgendo la mano ad Ethan e facendo lo stesso con l’amico. <> disse infine il Bianchi e, seguiti i convenevoli, raccolse la sua borsa ed uscì pesantemente dalla stanza.

    <> disse Giancarlo in tono pacato, non appena seguito con l’occhio l’uscita dell’anziano medico, lo vide scomparire dietro la porta. <> aggiunse. Ethan attese nel pronunciarsi, anche se la sua indecisione durò poco.

    <<È tutta colpa mia... Massimo non c’entrava nulla e non avrebbe dovuto essere lì.>>

    <> disse il padre con tono pungente <>

    <>

    <> ribatté avvicinandosi al

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