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Dizionario Arte: Critica Iconografia Museologia Restauro
Dizionario Arte: Critica Iconografia Museologia Restauro
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E-book1.199 pagine14 ore

Dizionario Arte: Critica Iconografia Museologia Restauro

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Info su questo ebook

Questo volume ha il duplice intento di fornire gli strumenti concettuali per affrontare criticamente sia lo sviluppo dei metodi di indagine storico-artistica che il campo, di sempre più attuale urgenza, della conservazione e fruizione delle opere d’arte.
Al primo intento si riferiscono le prolusioni dedicate alla Storia della critica d’arte e all’Iconografia e iconologia, che ripercorrono le linee fondamentali dello sviluppo di questi ambiti disciplinari e propongono all’attenzione del lettore i principali nodi problematici presenti nel dibattito contemporaneo. Nella seconda parte del volume, il Dizionario, i lemmi relativi alla storia della critica d’arte sono dedicati essenzialmente, anche se non esclusivamente, ai concetti, colti sempre nel loro divenire storico, adoperati per definire, classificare, comprendere e apprezzare le opere d’arte.
Al secondo intento si rifanno le prolusioni di Museologia e di Restauro, nonché i relativi lemmi del Dizionario. Le voci di museologia/museografia descrivono le diverse tipologie museali e le relative problematiche. Le voci sul restauro, scritte in stretta interconnessione con la relativa prolusione, affrontano con acume critico, ma anche operativo, le metodologie di intervento, i materiali che costituiscono l’opera d’arte e i problemi – che potremmo quasi definire «epistemologici» – che hanno condizionato e condizionano le valutazioni sulle scelte da operare quando si interviene su un’opera d’arte.
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita22 ott 2021
ISBN9788816803060
Dizionario Arte: Critica Iconografia Museologia Restauro
Autore

Roberto Cassanelli

È direttore del Segretariato regionale del Ministero per i beni e le attività culturali e del turismo per il Friuli Venezia Giulia. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Brera, all’Università Cattolica di Milano, all’Accademia Albertina di Torino. È stato direttore del Museo e Tesoro del Duomo di Monza. Le sue ricerche sono dedicate soprattutto all’arte medioevale. Per Jaca Book ha scritto, collaborato e/o curato numerose opere, fra le quali ricordiamo: Il colore nell’arte (ult. ed. 2021); Roma dall’alto (con A. Campitelli, M. David, V. Franchetti Pardo, C.L. Frommel, P. Liverani, G. Sauron, G. Wiedmann, ult. ed. 2021); Le grandi stagioni dell’arte antica e medievale (con F. Boespflug, J. Sureda, J.-L. Cohen, C. Tiberi, T. Velmans, ult. ed. 2020).

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    Anteprima del libro

    Dizionario Arte - Roberto Cassanelli

    Parte prima

    PROLUSIONI

    STORIA DELLA CRITICA D’ARTE

    I CONCETTI DI IMITAZIONE E DI ESPRESSIONE NELLA TEORIA E NELLA STORIA DELLE ARTI FIGURATIVE

    Giuliano Ercoli

    Il termine critica – dal greco kritike techne, «arte di giudicare» – indica, nella sua accezione più generale, un’analisi rigorosa condotta dalla ragione, e, insieme, il giudizio a cui attraverso tale analisi si perviene. Solo a partire dal secolo XVII questo termine cominciò a essere impiegato con specifico riferimento a opere artistiche e letterarie, fino a significare in età moderna, secondo una definizione particolare datane dal Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia, «il complesso delle operazioni e delle indagini eminentemente conoscitive e valutative che conducono, sul fondamento di particolari concezioni estetiche e con diverse metodologie, a riconoscere, chiarire e descrivere i caratteri dell’opera d’arte (letteraria, figurativa, musicale, cinematografica, ecc.)».

    In realtà, il materiale preso in esame dalla storia della critica delle arti visive è assai più ampio di quanto si potrebbe inferire dalla definizione sopra citata: non soltanto per l’ovvio rapporto che lega il giudizio critico al pensiero estetico, da un lato, e all’opinione degli artisti, dei committenti e degli amatori, dall’altro; ma anche e soprattutto per l’impossibilità di operare una distinzione non meramente convenzionale fra critica d’arte, intesa come riconoscimento dei caratteri e della qualità dell’opera, e storia dell’arte, intesa come conoscenza del contesto documentario, culturale e stilistico in cui l’opera stessa si colloca. Perciò la storia della critica d’arte prende in considerazione, accanto alla letteratura teorica e a quella storica, anche i trattati tecnici e didascalici, le biografie, gli aneddoti, i carteggi, le descrizioni, le epigrafi e quant’altro possa rivelarsi utile, comunque, a mettere in luce le diverse modalità di approccio e di valutazione succedutesi nel tempo.

    Se dunque ogni forma di apprezzamento può costituire un atto critico più o meno implicito, appare chiaro che la disciplina di cui stiamo trattando deve prendere le mosse da tempi assai più antichi, rispetto a quelli in cui venne elaborato il concetto dell’autonomia dell’arte e la «critica d’arte» fu esplicitamente designata come tale. Così proprio l’antichità classica, che pure fu lontana dai concetti dell’estetica moderna e confinò le arti visive fra le attività manuali, escludendole da quelle tutelate dalle Muse, lasciò in eredità all’Occidente il proprio modello critico e storiografico, incentrato sulla teoria dell’arte come imitazione della natura.

    Il concetto di imitazione e quello di espressione – intesa, quest’ultima, non come espressione psicologica dei personaggi raffigurati, ma come espressione del sentimento e della visione del mondo dell’artista – possono essere considerati i due cardini del pensiero estetico e della critica d’arte dalle origini ai nostri giorni, corrispondendo l’uno al momento dell’oggettività e l’altro al momento della soggettività. In senso storico, la teoria dell’arte come imitazione rimase in vigore fino al Romanticismo, allorché si affermò quella dell’arte come espressione; ma anche nell’antichità classica e nell’età del Rinascimento, le epoche più legate alla concezione mimetica dell’arte, non mancarono comunque i correttivi rivelatori di una tensione latente fra soggetto e oggetto, che affiancarono all’imitatio della natura una electio capace di perseguire una superiore bellezza.

    Pur se nessun pensatore greco o romano ci ha lasciato uno scritto sistematico sulle arti visive, accade tuttavia spesso, nell’antichità, che concetti elaborati con riferimento a temi etici o letterari siano trasferiti nel campo figurativo, o viceversa: in tal modo le idee di Platone e di Aristotele, di Cicerone e di Orazio, di Quintiliano e di Seneca vengono a costituire un nucleo di pensiero destinato a influenzare largamente la riflessione posteriore, mentre le osservazioni circostanziate delle descrizioni ecfrastiche, e soprattutto i giudizi sugli artisti che Plinio deriva dall’ateniese Senocrate, conducono alla formazione di un sistema di termini, concetti e schemi storiografici di cui la tradizione critica si approprierà stabilmente. La teoria della mimesis trova così riscontro nella descrizione dell’evolversi della ricerca artistica attraverso problemi sempre più impegnativi, e quindi nella concezione della storia dell’arte come storia del progresso tecnico verso l’imitazione perfetta. Evoluzione, progresso, precorrimento e altri concetti a questi correlati traggono la loro ragion d’essere appunto dalla teoria dell’arte come imitazione, e insieme a quella teoria sono stati sottoposti a critica radicale in età romantica e postromantica; né la discussione sulla loro validità può dirsi realmente esaurita. Se infatti la concezione del progresso nell’arte è inevitabilmente caduta con il cadere dell’identificazione fra qualità estetica e perfezione tecnica, e con l’accettazione della pari legittimità di intenzionalità artistiche diverse, è pur vero tuttavia che essa ha fatto sentire il suo peso, finché è stata vigente, sulle scelte compiute da pittori, scultori e architetti: sicché non appare illecito servirsene in sede storiografica, a patto di limitarsi a far luce, a posteriori, sulla logica di un processo in un contesto specifico, e di non ricorrere, a priori, al concetto deterministico di evoluzione necessaria. In questo senso si potrà dire che Masaccio volle ricollegarsi all’esperienza di Giotto, ma non che Giotto fu il «precursore» di Masaccio.

    Dopo che la cultura tardoantica e altomedioevale ebbe reinterpretato l’eredità classica in funzione delle esigenze cristiane, rarefacendo le possibilità del giudizio critico nella dicotomia fra la definizione astratta della pulchritudo e la semplice descrizione delle opere d’arte – sì che gli scarsi frammenti di critica concreta, pure inconsapevoli, possono essere rintracciati prevalentemente nei tituli che esaltano la luminosità delle figurazioni musive –, la teoria dell’imitazione tornò a imporsi, con il suo repertorio di schemi aneddotici e storiografici, in coincidenza con il rinnovamento della pittura, iniziatosi in Italia, fra Duecento e Trecento, ad opera di Cimabue e di Giotto. La coscienza critica di tale rinnovamento nasce da un’esigenza parallela a quella che lo ha prodotto, ed è testimoniata, in primo luogo, dall’inusitato interesse che i maggiori intellettuali del Trecento dimostrano per Giotto, ossia per un artista contemporaneo. In particolare merita attenzione, a questo proposito, l’elogio del pittore inserito dal Boccaccio nel Decameron, la cui corretta interpretazione fornisce la miglior chiave di lettura della successiva critica umanistica.

    «Ebbe uno ingegno di tanta eccellenza, – scrive il Boccaccio nella quinta novella della sesta giornata – che niuna cosa dà la natura [...], che egli con lo stile e con la penna e col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto. E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d’alcuni che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ’ntelletto de’ savi dipignendo era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dirsi puote».

    Questo passo ci insegna, in primo luogo, che anche le osservazioni apparentemente più ingenue e immediate sono in realtà frutto, nella critica preumanistica e umanistica, del recupero consapevole di antichi schemi interpretativi, e pertanto acquistano significato particolare con riferimento alla tradizione da cui discendono. Qui il Boccaccio si serve di un ben noto topos di origine classica – si pensi all’aneddoto dell’uva dipinta da Zeusi e beccata dagli uccelli –; e al di là del senso letterale, che sembra adombrare una concezione meramente illusionistica della pittura, è sintomatico in sé il recupero del topos, insieme con quello del concetto – che esso sottintende – dell’arte come imitazione: un’imitazione che non si proponga tuttavia di contraffare la natura, ma piuttosto di operare in modo analogo ad essa, e pertanto con esiti simili a quelli naturali.

    Il ricorso a un simile cliché elogiativo proprio per Giotto, che aveva affrancato la pittura dalla persistente influenza bizantineggiante, mettendola in grado di ristabilire il dialogo con architettura e scultura su basi «moderne», acquista perciò un rilievo critico intrinseco; e le successive considerazioni del Boccaccio ne danno conferma. Nell’atto di delineare già in modo esplicito il concetto di Rinascimento, egli contrappone infatti la pittura giottesca, gradita «allo ’ntelletto de’ savi» per il valore razionale della sua struttura volumetrica e compositiva, a quella bizantineggiante, che, avendo in precedenza annullato quel valore nel puro cromatismo, diletta invece, a suo dire, gli occhi – non l’intelletto – degli ignoranti. Sicché questo passo, che come un altro del Petrarca riecheggia anche l’antica contrapposizione di Quintiliano fra gli osservatori dotti e gli ignoranti («Docti rationem artis intelligunt, indocti voluptatem»), mostra chiaramente che i concetti e gli schemi derivati dall’antichità non erano usati in modo astrattamente aprioristico, ma consentivano a posteriori un’interpretazione pertinente dell’esperienza artistica contemporanea, che in modo analogo alla cultura letteraria tornava a proporsi il modello classico come punto di riferimento. Veniva così istituito il concetto, fondamentale in seguito nella poetica del Rinascimento toscano, del disegno inteso quale fondamento intellettuale dell’arte; mentre il colore – che pure aveva testimoniato fino a qualche tempo prima la presenza stessa della spiritualità – veniva ridotto a mera piacevolezza materiale, e comunque subordinato alla buona resa della forma plastica.

    L’uso di leggere le vicende dell’arte contemporanea attraverso il filtro degli schemi storiografici di origine classica, trasferendo all’occorrenza nel campo figurativo concetti elaborati in ambito letterario, andò rapidamente incrementandosi nel corso del Trecento. Appunto in tal modo Filippo Villani giunse a inquadrare negli schemi di Plinio l’immagine di Giotto derivatagli dalla tradizione, ricalcando il rapporto Cimabue-Giotto su quello pliniano Apollodoro-Zeusi: Cimabue aveva richiamato per primo la pittura all’imitazione della natura, e Giotto lo aveva seguito per questa strada, restaurandola appieno. Chiarire l’originaria connessione dell’immagine di Cimabue precursore di Giotto con il concetto di evoluzione necessaria, implicito nella teoria pliniana dell’arte come imitazione, permette da un lato di intendere meglio, storicamente, i ruoli dei due pittori nella cultura figurativa e nella coscienza critica del loro tempo, e dall’altro di essere consapevoli dei rischi che può comportare, oggi, un uso non meditato di quell’immagine: che finisce spesso per implicare anche l’accoglimento di quel concetto, sicché le opere vengono valutate non per quello che sono nella loro attualità intrinseca, in tutte le loro potenzialità, ma piuttosto per quello che rappresenterebbero rispetto a una linea evolutiva privilegiata. In tal modo non ci si domanda che cosa significa in Cimabue un determinato elemento spaziale così com’è, ma che cosa significa rispetto a quello che farà poi Giotto; riproponendo magari questo tipo di considerazioni anche per le cosiddette «anticipazioni prospettiche» del Trecento, intese come serie di esperienze destinate ineluttabilmente a sfociare nella prospettiva brunelleschiana. In quest’ultimo caso occorre invece ben distinguere fra la spazialità trecentesca, indotta sperimentalmente attraverso l’esperienza sensoriale, e quella quattrocentesca, dedotta in analogia alla presunta razionalità del reale attraverso la costruzione geometrica; per cui la differenza non è meramente quantitativa, come lascerebbe intendere l’uso del termine «anticipazione», ma qualitativa, metodologica, e tanto più manifesta se dalle osservazioni sugli ambienti – soffitti, pavimenti, eccetera – si passi a osservazioni sulle figure umane: rimpicciolite a distanza o anche empiricamente scorciate, ma certo non mai prospettiche – nel senso della perspectiva artificialis – durante il Trecento. Quand’anche tuttavia non soccorressero differenze così radicali, il collegamento fra un autore e un altro, cronologicamente più tardo, non potrebbe leggersi, come si è già detto, che a posteriori, nel senso che è il secondo che sviluppa l’eredità del primo, non il primo che «precorre» il secondo; e ciò vale anche per il collegamento fra Cimabue e Giotto, la cui comprensione è dunque propiziata dalla ricostruzione della sua genesi storica.

    L’inserimento di Cimabue, di Giotto e dei seguaci di quest’ultimo fra gli uomini illustri di Firenze – che Filippo Villani attua traendo spunto dal Boccaccio, e giustifica facendo ricorso all’autorità degli antichi – sta a dimostrare l’accresciuto prestigio, alla fine del Trecento, della pittura e delle altre arti visive: di cui si sottolineano sempre più le componenti intellettuali, accostando con insistenza al termine ars, con il quale si designa l’eccellenza artigianale, il termine ingenium, con il quale si allude invece all’immaginazione creativa. La rivendicazione del diritto della pittura a non essere esclusa dal novero delle arti liberali – suffragata, oltre che dai precedenti antichi invocati più o meno a ragione, dal fondamento teorico di conoscenze matematiche, scientifiche e filosofico-letterarie richiesto a chi intenda dedicarvisi – riceverà poco dopo una formulazione particolarmente autorevole ad opera di Leon Battista Alberti, che potrà dimostrare appieno, come letterato e come umanista, l’importanza culturale di quell’arte, da lui stesso praticata e perciò compresa nelle sue intime ragioni.

    All’aprirsi del Quattrocento, Firenze si propone come l’erede di Atene e di Roma, ispirando a Leonardo Bruni il ben noto panegirico che indica nella «admiranda lautitia totius urbis» l’attuazione in forme sensibili, architettonico-urbanistiche, dell’armonia logica ed etica sulla quale si fonda il primato politico della città. Tale armonia interiore si rende esplicita, nella visione, con la costruzione prospettica: i maestri fiorentini ne sono i creatori, e Leon Battista Alberti ne è, nel suo De pictura, il primo teorizzatore. Nell’ordine prospettico, ideale e reale coincidono, in una identificazione non conseguita a posteriori, ma classicamente presupposta, che attua la nuova versione umanistica dell’antico principio dell’arte come imitazione: non copia, derivazione empirica dalle apparenze naturali, ma – si è già detto – imitazione analogica della presunta razionalità del reale attraverso la costruzione geometrica. Così il famoso aneddoto su Zeusi, che dovendo raffigurare Elena avrebbe imitato ciò che avevano di più bello le cinque fanciulle più belle di Crotone, serve qui per invitare a essere fedeli alla natura, e non a trascenderla.

    La concezione albertiana della bellezza come rapporto armonico e necessario di tutti gli elementi fra loro, nell’unità di cui fanno parte, si applica non soltanto alla rappresentazione dei corpi nello spazio, ma anche al loro collegamento nell’azione: e dunque al pittore si attribuisce il compito di imitare non soltanto la presunta razionalità della natura, ma anche la presunta razionalità della storia. Mentre infatti il primo libro del De pictura tratta di geometria e di prospettiva, e il terzo indica quali debbano essere le conoscenze e il comportamento del pittore, il secondo si impernia sul concetto di compositio, integrando la trasposizione delle definizioni pliniane e vitruviane con il sistematico trasferimento alla pittura degli schemi della retorica antica. In tal modo l’historia, definita dall’Alberti «amplissimum pictoris opus», si compone di corpi, membri e superfici, così come l’oratio classica si componeva di periodi, cola, commi e parole; e un siffatto parallelismo ha per conseguenza che la descrizione di un quadro o di un affresco possa talvolta acquistare, al di là del suo intrinseco valore letterario, il significato di una verifica dei principi compositivi adottati dal pittore. La descrizione albertiana della Calunnia di Apelle, pur desunta da Luciano, rivela comunque, nella scandita organizzazione del periodo come nelle scrupolose indicazioni spaziali, la precisa volontà di articolare la copia con una varietas disciplinata dal rigore della compositio; mentre la pagina del Ghiberti sul Martirio dei Francescani di Ambrogio Lorenzetti, nel secondo libro dei Commentarî, dà prevalentemente il senso, con il ripetersi degli «evvi» e dei «pare», di un racconto gremito di episodi, organizzato più per coordinazione che per subordinazione di elementi. Il legame delle due descrizioni rispettivamente con l’oratio composita e con l’oratio soluta, a quel tempo contrapposte fra loro nelle dispute degli umanisti, appare ben chiaro: ed è proprio la consonanza con lo stile dissolutus, largamente impiegato nelle descrizioni ecfrastiche di opere tardogotiche, che permette al Ghiberti di creare quasi un equivalente verbale dello stile narrativo di Ambrogio Lorenzetti.

    La copia di quest’ultimo non si era organizzata, infatti, secondo la logica del comporre che l’Alberti approvava nella Navicella di Giotto, ma aveva seguito un ritmo aggiuntivo che il gotico internazionale avrebbe poi fatto proprio, e che il Ghiberti stesso non avrebbe mai rinnegato, nemmeno negli anni della Porta del Paradiso.

    Se dunque le riflessioni degli umanisti sulla pittura e sulla scultura erano in buona misura condizionate, oltre che dalle possibilità offerte dal latino classicheggiante che molti adoperavano, dalla tendenza a trasferire alle arti figurative gli schemi della retorica antica – come la tripartizione «inventio, dispositio, elocutio», convertita prima dall’Alberti nella meno puntuale «circumscriptio, compositio, lumina», e poi dagli autori cinquecenteschi nella definitiva «invenzione, disegno, colorito» – non si può dire per questo che esse fossero astratte e incongrue rispetto alla realtà delle opere d’arte: e non a caso gli scritti dell’Alberti erano destinati a rimanere un punto di riferimento obbligato, anche per gli artisti e non soltanto per i critici, fino al sorgere della nuova sensibilità settecentesca.

    I principi che Leon Battista Alberti aveva formulato nella sua teoria sulla pittura di historia, ivi compreso il rispetto delle regole della convenevolezza – il decorum oraziano – nei confronti della verosimiglianza, della dignità e della verecondia, trovarono l’attuazione pratica più alta e matura, settantacinque anni dopo, nel ciclo raffaellesco delle Stanze Vaticane: dove l’articolarsi delle superfici nei membri, dei membri nei corpi e dei corpi nell’unità del dipinto, proposto con tanta lucidità nel De pictura, veniva a configurarsi, esplicitamente, quale indice visibile del comporsi degli elementi in un ordine universale. L’universalità di Raffaello fu subito riconosciuta dai contemporanei, nei cui scritti ricorrono spesso l’accostamento ad Apelle – e, in misura minore, a Zeusi – e la presenza del termine «venustà», per solito associato con quello di grazia; finché nel 1557 Lodovico Dolce, contrapponendo la «facilità» di Raffaello alla «difficultà» di Michelangelo, non giunse a paragonare esplicitamente la «grazia» del primo alla «venustà» di Apelle, in termini che in qualche modo la collegano alla compresenza di tutte le virtù pittoriche: «fu chiamato grazioso: percioché, oltre la invenzione, oltre al disegno, oltre alla varietà, oltre che le sue cose tutte movono sommamente, si trova in loro quella parte che aveano, come scrive Plinio, le figure di Apelle: e questa è la venustà, che è quel non so che, che tanto suole aggradire, così ne’ pittori come ne’ poeti, in guisa che empie l’animo altrui d’infinito diletto, non sapendo da qual parte esca quello che a noi tanto piace». In tal modo il confronto con Apelle andava al di là del senso generico con cui veniva introdotto in molti altri casi, e implicava invece un riscontro puntuale con la venustas di quell’antico maestro, intesa come risultato dell’armonico concorso fra i vari elementi della pittura, giunta ormai al vertice più alto della sua parabola. Una tale assimilazione della funzione storica dell’artista moderno a quella dell’antico non era comunque frutto di una lettura arbitraria, da parte del Dolce, ma trovava effettivo riscontro tanto nell’opera stessa di Raffaello, quanto nell’interpretazione che di tale opera avevano già fornito, come si è detto, i suoi contemporanei.

    Un filo diretto sembra dunque collegare l’universalità raffaellesca a quella albertiana, in parallelo con quanto può dirsi per l’ideale di equilibrio teorizzato dal dotto amico di Raffaello, Baldassarre Castiglione. Il concetto di imitazione dell’Urbinate viene a collocarsi, come già quello dell’Alberti, su un piano più operativo che teoretico, individuabile anche nella celebre lettera indirizzata, appunto, al Castiglione («per dipingere una bella, mi bisogneria veder più belle [...]. Ma, essendo carestia [...] di belle donne, io mi servo di certa idea che mi viene nella mente»): dove l’uso della parola «idea», pur rimandando ai presupposti neoplatonici condivisi dal destinatario, sembra implicare tuttavia il riferimento, piuttosto che a un principio metafisico, a un criterio ordinatore di scelta («certa idea che mi viene nella mente»), cioè a una «idea delle bellezze» nel senso inteso dall’Alberti, allorché aveva proposto l’aneddoto di Zeusi e delle fanciulle di Crotone non per invitare a trascendere la natura, ma per raccomandarne lo studio.

    Pertanto la bellezza ideale va tolta dalla natura stessa, e dunque necessariamente attraverso un processo selettivo: che – esteso dai modelli naturali a quelli offerti dai maestri antichi e moderni, in base al principio dell’analogia – si ritrova teorizzato con vari accenti da Giovan Francesco Pico, dal Castiglione e da Raffaello, e da quest’ultimo messo in pratica nelle sue opere. Non è certo casuale che tanto i due umanisti come il pittore facciano riferimento, esplicito o implicito, all’aneddoto di Zeusi; e pure rimarchevole apparirà, in questo contesto, la congiunta citazione vasariana di Apelle e ancora di Zeusi, nel passo contenente l’elogio a Raffaello per aver saputo «prendere il meglio» dai suoi predecessori prossimi e remoti: giacché se in Apelle si vedeva personificata, come si è detto, la capacità di imitare l’arte, in Zeusi si vedeva personificata piuttosto, ovviamente, quella di imitare la natura. L’universalità di Raffaello significava insomma, come quella dell’Alberti, identità di reale e ideale nel coincidere dell’imitatio con l’electio; e per questo sembra lecito vedere nella Stanza della Segnatura l’attuazione più compiuta, in maniera moderna, dei principi teorizzati nel De pictura. Mai «composizione» e «varietà» erano state così albertianamente e «naturalmente» complementari, nel dimostrare in pittura la legge di armonia che si presumeva governasse tanto l’articolarsi delle membra in un corpo, quanto il concatenarsi degli eventi nella storia.

    Già nella Stanza di Eliodoro, tuttavia, l’emotività dell’intonazione eloquente si sostituisce all’evidenza dimostrativa, inaugurando un’attitudine retorica destinata a caratterizzare sempre più le opere tarde di Raffaello: che insieme con la magnificenza dell’antico andrà ormai rievocando appassionatamente la propria stessa classicità, dandone in tal modo la prima interpretazione classicistica; e dunque finirà anch’egli per testimoniare, seppure in chiave diversa, la medesima dissociazione tra ideale e reale prodottasi frattanto nell’ambito del Neoplatonismo fiorentino. Anche per Michelangelo l’armonia formale, che oggi chiameremmo estetica, è il sintomo visibile di una armonia interiore; anche per lui Vero, Bene e Bello si identificano, e ora con esplicito riferimento neoplatonico: ma come la verità si conquista ormai oltre le apparenze corporee, e il bene morale si realizza liberando lo spirito dalla carne, così il bello si definisce in una purezza formale che tende a realizzarsi, assoluta, al di là di ogni contingenza. La pittura e la scultura avevano cercato fino a poco tempo prima, come si è visto, l’imitazione analogica del reale attraverso la costruzione geometrica, stabilendo così un punto di garanzia nella coincidenza fra la determinabilità di ciò che doveva essere conosciuto – la bellezza della natura e la razionalità della storia – e la capacità di determinazione propria del mezzo di conoscenza – il disegno –. Quando però ci si propone di conseguire una grazia intesa come valore spirituale diverso dalla bellezza corporea, tale mezzo di conoscenza denuncia la propria inadeguatezza di strumento razionale, in ordine all’acquisizione di un valore che razionale non è; e lo dimostra chiaramente la drammatica esperienza artistica di Michelangelo, a lungo dibattuta fra i poli opposti ma complementari dell’estrema finitezza e del non finito. Appunto dalle sigle suggerite da quella finitezza trae origine il rovello formalistico della Maniera: in cui l’estrema e collaudata perfezione degli strumenti classici produce risultati sostanzialmente anticlassici, per la dissociazione, fattasi ormai lacerante, fra ideale e reale.

    Dalla crisi della classicità nascono dunque contestualmente, nel XVI secolo, classicismo e anticlassicismo, radicati ambedue nella consapevolezza di esser giunti alla fine di un grande ciclo storico. Il progresso dell’arte, quale è teorizzato e descritto dal Vasari nelle sue Vite, lascia intravedere non una ulteriore, illimitata perfettibilità, ma piuttosto l’ombra della decadenza imminente: che si cerca di esorcizzare con lo strenuo impegno nella trattatistica, sintomo anch’esso di una diffusa coscienza epigonica. Mentre si accresce l’influenza degli scritti di Aristotele, il trasferimento degli schemi della poetica e della retorica alla teoria dell’arte si organizza nella messa a punto del parallelismo fra pittura e poesia, fondato sull’ut ictura poesis oraziano, e sul detto di Simonide – riferito da Plutarco – secondo cui la pittura è poesia muta, e la poesia pittura parlante; e il parallelismo si risolve, talvolta, in antagonistico «paragone» fra le arti figurative e la poesia stessa.

    Gli artisti partecipano in prima persona a questo dibattito, e il loro impegno intellettuale trova riscontro nella nascita delle accademie, in cui non ci si limita a garantire la continuità del mestiere – come nelle antiche corporazioni –, ma si attribuisce la massima importanza ai problemi teorici. A Firenze l’Accademia del Disegno, fondata nel 1563 da Cosimo de’ Medici per suggerimento del Vasari, dichiara nella sua intitolazione la comune paternità, nei confronti di tutte le arti, appunto di quel disegno che il Vasari stesso definisce «apparente espressione e dichiarazione del concetto che si ha nell’animo», imponendo così il suggello definitivo a una tradizione di pensiero iniziatasi nel Trecento con le osservazioni del Petrarca e del Boccaccio. Sebbene Venezia stia ormai elaborando, in appoggio all’esperienza pittorica dei suoi maestri, una teoria e una critica dell’imitazione che esaltano la ricchezza e la vitalità del colore, piuttosto che l’astrazione disegnativa perseguita dai fiorentini, il disegno rafforza comunque, nella trattatistica del Cinquecento, la sua posizione di privilegio, che esplicitamente lo fa procedere dall’intelletto in quanto – scrive ancora il Vasari – «cava di molte cose un giudizio universale, simile a una forma o vero idea di tutte le cose della natura»; e perciò gli assegna il compito, definito in termini aristotelici da Vincenzo Danti, di «imitare» le cose per quello che dovrebbero essere, non limitandosi a «ritrarle» per quello che sono. Se la teoria del Vasari non comporta implicazioni metafisiche, giacché l’idea di cui egli parla è ricavata dall’esperienza a posteriori, attraverso un procedimento astrattivo, lo stesso non può dirsi per le concezioni, in vario grado permeate di aristotelismo scolastico e di neoplatonismo, di tardi manieristi come Federico Zuccaro e Giovan Paolo Lomazzo, per i quali l’idea si trasmette invece dall’intelletto divino a quello umano a priori, indipendentemente dall’esperienza sensibile. La soluzione metafisica viene in tal modo a sancire l’irreversibilità della scissione fra ideale e reale, la cui postulata identità aveva costituito il cardine classico della riflessione rinascimentale sull’arte. Alla fine del secolo la pittura di storia, che già l’Alberti aveva considerato l’impegno più alto del pittore, mantiene apparentemente inalterata la sua supremazia: ma la continuità della formula non può dissimulare la profonda frattura che si è prodotta. Nella concezione sistematica del Rinascimento la superiorità dell’historia sul paesaggio, o sulla natura morta, non era che la superiorità del tutto sulle parti; mentre ora, nel frantumarsi di quella visione unitaria, tale superiorità va piuttosto configurandosi come superiorità di un «genere» nei confronti di altri «generi». Al carattere totalizzante della presunta oggettività imposta dall’atto conoscitivo, tende insomma a sostituirsi la libertà di scelta offerta da quello retorico: e lo stesso passaggio dall’assolutezza del sistema alla relatività del metodo conduce, nel Seicento, ad accettare la compresenza di più «maniere», legittimandone storicamente le diverse peculiarità con il concetto di scuola regionale.

    Dell’irreversibile scissione fra ideale e reale, che l’intellettualismo manieristico cerca invano di eludere facendo ricorso alla garanzia della metafisica, prendono simultaneamente e diversamente coscienza, in pittura, i Carracci e Caravaggio: muovendo, gli uni e l’altro, da quel gusto «lombardo» a lungo sacrificato – in quanto non riconducibile al formalismo disegnativo tosco-romano, e neppure al suo contrario, il colorismo veneto – dalla storiografia artistica di osservanza vasariana. Lo studio condotto dai Carracci sui grandi maestri del Cinquecento ha il valore di un recupero nostalgico – quindi sentimentale, non razionale – della classicità, ma implica indubbiamente una riflessione e un giudizio; e se può apparire eccessiva la proposta, avanzata quasi sessant’anni fa, di considerare la loro pittura come critica d’arte esercitata in termini figurativi anziché verbali, non è tuttavia meno vero che la distinzione in scuole artistiche diverse ma dialetticamente comunicanti, formulata da Giovan Battista Agucchi con il probabile concorso del Domenichino, appare già adombrata nella loro poetica. Come Ludovico, anche Annibale Carracci è attratto inizialmente dalla morbida e luminosa effusione materica del Correggio, ma il soggiorno romano gli consente di approfondire la conoscenza dell’ultimo Raffaello, e di riprenderne l’intonazione classicistica nella rievocazione appassionata degli antichi miti. La composta armonia delle forme si nutre ancora tuttavia, nel classicismo di Annibale, del palpito correggesco della luce «liquida e bionda» (Longhi), a testimonianza di un equilibrio che la successiva polarizzazione degli anni Trenta non potrà non alterare, contrapponendo un irrigidimento classicistico alla dirompente esuberanza barocca.

    Mentre il trattato di Monsignor Agucchi sembra ancora rispecchiare il punto di vista carraccesco, gli scritti di Giovan Pietro Bellori, pubblicati nella seconda metà del secolo, documentano ormai quello del classicismo più intransigente di quegli anni, che si oppone alla deviazione astratta del Manierismo e alla successiva reazione naturalistica – ma anche agli «eccessi» contemporanei del Barocco –, teorizzando un’idea che «originata dalla natura supera l’origine e fassi originale dell’arte», e dunque proponendo il ritorno all’imitazione di una natura emendata dai suoi difetti. Anche in questo caso la formula sembra essere quella stessa del Rinascimento, giacché considera l’idea acquisita a posteriori attraverso l’esperienza; ma l’irreversibile scissione fra ideale e reale fa sì che il consueto richiamo alla fedeltà nei confronti della natura non basti più, e debba essere controbilanciato da una severa condanna contro il «naturalismo» caravaggesco, giustificato nella sua funzione storica di correttivo al «far di pratica» manieristico, ma biasimato senza mezzi termini – come già dall’Agucchi – per la sua mancanza di selezione e per il mancato rispetto dei principi del decorum.

    Caravaggio fu ripetutamente accusato, nel corso del Seicento, di aver condotto vita scioperata, di aver disprezzato l’insegnamento dei maestri antichi e moderni, di aver ignorato i fondamenti del disegno, di aver imitato la natura senza operare alcuna selezione, di aver infranto le regole del decorum, di aver mancato di immaginazione e di non aver saputo trattare adeguatamente la composizione dell’historia. Mentre il senso di alcune di queste accuse potrebbe sembrare ovvio, pur inducendo a una lettura banalizzante della recezione a cui l’opera del Caravaggio andò incontro nel suo secolo, l’ultima di esse è spesso formulata in modo tale da rendere comunque necessario un approfondimento chiarificatore, grazie al quale anche le altre critiche vengono ad assumere un più preciso significato. Non solo, infatti, Giulio Mancini sostiene che il luminismo caravaggesco conferisce un rilievo innaturale al dipinto, e dunque permette di far bene una figura sola, rivelandosi non appropriato «nella compositione dell’historia et esplicar affetto»; ma addirittura il Bellori ritiene «senza attione» le opere del Merisi, e aggiunge esplicitamente che, nel Martirio di San Matteo, «il componimento, e li moti [...] non sono sufficienti all’historia».

    Il lettore moderno, ignaro dei principi estetici della tradizione classica e abituato piuttosto a cercare un rapporto diretto con l’opera d’arte, non può non rimanere sconcertato di fronte a queste accuse rivolte al Martirio, apparentemente così ricco di movimento e di azione: ma i critici che, nel Seicento, continuavano a mantenersi fedeli all’idea rinascimentale della pittura – pur con i correttivi di cui si è detto – richiedevano, all’interno del quadro, un collegamento ragionato di corpi ragionatamente costruiti – secondo il principio dell’ ut pictura poesis –, in modo da razionalizzare la natura e la storia come se la scissione fra ideale e reale non si fosse mai prodotta: e in questo senso le loro riserve erano tutt’altro che prive di fondamento. I pittori rispettosi della tradizione classica mostravano infatti, nel costruire l’impianto disegnativo delle proprie immagini, di padroneggiare intellettualmente la loro struttura, e pertanto di poterle legare, l’una con l’altra, in un gioco di assonanze, chiasmi e simmetrie non dissimile da quello proprio del discorso verbale: sicché il ritmo compositivo circolava con continuità, e anche le eventuali cesure non si configuravano mai come autentiche interruzioni. Al contrario il Caravaggio pretendeva di trasferire alla pittura di storia gli stessi personaggi e le stesse situazioni dei suoi quadri giovanili a mezze figure – in cui l’assenza del filtro disegnativo e della selezione poteva essere in qualche misura legittimata dall’antefatto giorgionesco e dal confronto con la pittura di genere –, cercando di governare la complessità dell’azione con un più accentuato contrasto di luce e di ombra. In tal modo la continuità plastica e ritmica subiva lacerazioni non risarcibili in termini di logica disegnativa: di quella logica, cioè, che nella pittura classica – o classicistica – svelava l’essenza razionale delle cose nel momento stesso di porle come visibili; mentre la luce del Caravaggio si limitava a registrarne l’impenetrabilità, e dunque a prendere atto del loro rifiuto, inedito e inquietante, a sottomettersi alle pretese assimilatrici della ragione. In ciò risiede la portata rivoluzionaria della pittura caravaggesca, le cui deroghe ai principi del decorum non avrebbero potuto acquisire, senza quella flagranza asintattica, la provocatoria tragicità negata invece ad altre opere contemporanee, di pur sincera ispirazione pauperistica.

    Pur rimproverando il Caravaggio perché «non erano in lui, né inventione, né decoro, né disegno, né scienza alcuna della pittura», il Bellori ammirava comunque alcune sue opere, e in particolar modo la Deposizione vaticana, da lui fatta oggetto di una descrizione circostanziata e aderente: «Ben tra le megliori opere, che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritamente in istima la Depositione di Christo nella Chiesa Nuova de’ Padri dell’Oratorio; situate le figure sopra una pietra nell’apertura del sepolcro. Vedesi in mezzo il sacro corpo, lo regge Nicodemo da piedi, abbracciandolo sotto le ginocchia, e nell’abbassarsi le coscie, escono in fuori le gambe. Di là San Giovanni sottopone un braccio alla spalla del Redentore, e resta supina la faccia e ’l petto pallido à morte, pendendo il braccio col lenzuolo; e tutto l’ignudo è ritratto con forza della più esatta imitatione. Dietro Nicodemo si veggono alquanto le Marie dolenti, l’una con le braccia sollevate, l’altra col velo à gli occhi, e la terza riguarda il Signore». La critica d’arte era ormai saldamente in mano agli intellettuali, e questo non faceva che rafforzare la tendenza, legittimata dalla canonizzazione del parallelismo pittura-poesia, a verificare con la descrizione letteraria i principi compositivi di un dipinto: così l’assetto misuratamente classicheggiante della Deposizione sembra trovare qualche riscontro nelle parole del Bellori, che non possono tuttavia tradurlo nella continuità di un discorso articolato come avviene, invece, per la Pietà di Annibale Carracci già nella Chiesa dei Cappuccini di Parma: «Figurò nel mezzo il morto Redentore svelato da un lenzuolo, ed assiso sopra la base del monumento: vedesi il sacro corpo con le braccia pendenti, e con la spalla appoggiata al seno della madre, la quale sedendo più sollevata, tiene la destra mano sotto la guancia del figliuolo; e nel reggerlo così morto, vinta dall’affanno vien meno, e s’abbandona indietro sù l’arca del sepolcro. Finsevi dentro San Giovanni, che accorre per aiutarla; e si vede in mezza figura, con una mano verso la Vergine, l’altra posata sù l’urna. Dal lato destro appariscono alquanto due Angeli, che pietosamente la soccorrono, sostentandola di dietro: cade la smorta faccia sù la spalla sinistra, col braccio, e la mano pendente dal monumento: siche sembra la Madre estinta col Figlio. Da questo lato sotto San Giovanni, evvi Madalena ginocchione di profilo, con le mani incrocicchiate al petto, in espressione di dolore, piangendo dietro à Christo; di rincontro San Francesco piega le ginocchia à terra, stende le braccia, e le mani verso il Signore, e guarda al popolo, invitandolo alla meditatione del misterio doloroso. Al fianco del Serafico succede Santa Chiara in piedi, posa la mano sinistra sù la spalla destra, e si stringe nell’affetto, e nella contemplatione; con l’altra mano tiene la custodia Sacramentale del divino Pane; e nell’aria s’inalza in mezzo un Angelo sedente frà le nubbi, il quale abbraccia, e porta la croce sollevata sù la spalla, accompagnato da amoretti celesti, diffondendosi la luce. Le figure campeggiano in un masso oscuro, dov’è situato il monumento, che è un arca sopra un zoccolo, ò base, che serve per sedile al corpo del Signore».

    Malgrado il suo carattere di eccezionale «intermezzo classicheggiante», anche la Deposizione vaticana finisce dunque per confermare in modo indiretto il ripudio caravaggesco dell’invenzione articolata attraverso il disegno, che Annibale Carracci andava invece portando al più sofisticato grado di complessità al tempo dei lavori romani in Palazzo Farnese: sicché non fa meraviglia che proprio la Venere dormiente di Annibale, oggi a Chantilly, abbia potuto indurre prima l’Agucchi e poi il Bellori a cimentarsi in descrizioni intese non solo o non tanto come verifiche letterarie dell’assetto formale del dipinto, ma anche e soprattutto come traduzioni dei valori illustrativi dell’opera in valori letterari a sé stanti, «seguitandosi – come scrive il Bellori – il solo affetto della pittura imitata con stile alquanto più elegante, per corrispondere alla vaghezza del soggetto». Si apriva insomma, al di là delle possibilità di corrispondenza previste dall’ut pictura poesis, una vera e propria gara dello scrittore con il pittore, nell’intento – peraltro legittimato da antichi esempi di ekphrasis – di trasporre l’invenzione figurativa in una ricreazione letteraria aderente ma autonoma: dando origine così a una consuetudine critica che, affrancatasi in seguito dall’antico concetto dell’arte come imitazione, era destinata a conservare intatta la sua vitalità fino agli inizi del nostro secolo. Attraverso il Seicento, la teoria classica dell’imitazione poteva giungere tuttavia fino al secolo successivo, informando di sé l’opera capitale dell’Abate Batteux su Les Beaux-Arts réduits à un même principe (1746), in cui si definiva per la prima volta organicamente il sistema moderno delle belle arti, sviluppando e collegando fra loro gli spunti isolati già comparsi in precedenza. Distinte in modo esplicito dalle arti meccaniche, la musica, la poesia e le arti visive erano ricondotte dal Batteux a un comune principio unificatore, che si identificava nell’imitazione della «bella natura», ossia della natura abbellita ed emendata dai suoi difetti. Ma proprio la combinazione delle diverse arti in un unico sistema, resa possibile dall’antica teoria dell’imitazione, poteva a sua volta permettere – per quanto contestata dal Lessing, che distingueva nel suo Laokoon (1766) arti spaziali e arti temporali – la scoperta di un nuovo principio unificatore, quello dell’espressione: e se ciò non doveva accadere in modo compiuto prima del Romanticismo, bisogna pur dire che fino dagli inizi del Settecento la sensibilità soggettiva aveva fortemente ridimensionato le pretese normative dell’estetica classicistica. Era stato infatti Roger de Piles, con il suo Dialogue sur le Coloris pubblicato nel 1673, ad aprire in Francia quella controversia fra «poussinisti» e «rubenisti» che aveva condotto a valorizzare non soltanto il colore di fronte al disegno, ma anche il sentimento di fronte alla ragione, la soggettività di fronte all’oggettività; sicché la «grazia» di ascendenza vasariana e il je ne sais quoi dei francesi, fino ad allora colpi d’ala nobilitanti ma di per sé non bastevoli a giustificare la deroga dalle regole, potevano ormai presentarsi come gli autentici principi informatori del giudizio artistico. Neppure l’esperienza neoclassica, maturata a partire dalla metà del secolo e illuminata dall’opera del Winckelmann, intesa a sostituire la vecchia aneddotica della «storia degli artisti» con la nuova struttura unitaria della «storia dell’arte», appare oggi interpretabile, in blocco, come un movimento di restaurazione accademica: essendo necessario distinguere, al suo interno, componenti culturali e atteggiamenti diversi, quali il classicismo antibarocco di ascendenza seicentesca, il razionalismo illuministico, l’entusiasmo archeologizzante, i fermenti preromantici. Tuttavia si deve evitare, come ha ben chiarito il Wittkower, «di considerare la letteratura settecentesca della sensibilità come romantica. Tutti questi scrittori affrontavano il problema della sensibilità con le armi critiche del razionalismo ereditate dal Seicento; tipica è la categorizzazione compiuta dal Burke del bello e del sublime. La sensibilità romantica provenne dalla sensibilità settecentesca, ma da essa si allontanò».

    Già alla fine del secolo Wackenroder pone al centro dei suoi «sfoghi del cuore» (Herzensergiessungen eines kunstliebenden Klosterbruders, 1797) il modo di sentire dell’artista, traducendo il concetto della relatività del gusto – già acquisito durante il Settecento – nell’anelito romantico a identificarsi, al di là di ogni dogmatismo estetico, con tutte le espressioni dell’umano, di tutti i tempi e di tutti i luoghi: «Perché non condannate l’indiano per la ragione che è indiano e non parla la nostra lingua? E volete condannare il Medio Evo, perché non costruiva tempi uguali a quelli della Grecia? [...] Se la tua anima fosse caduta dal cielo alcune centinaia di miglia più in là, verso est, sulla terra delle Indie, tu avresti sentito nei piccoli idoli dalla strana figura e dalle molte braccia quello spirito misterioso che, nascosto ai nostri sensi, vi alita dentro; e se tu avessi guardato la Venere dei Medici non avresti saputo che cosa pensare di essa. [...] A noi, figli di questo secolo, è stato concesso il privilegio di stare sulla cima di un alto monte, dal quale vediamo distendersi chiari, intorno ai nostri occhi e ai nostri piedi, molti paesi e molte epoche. Lasciateci, dunque, godere di questa fortuna e vagare con occhi sereni su tutti i tempi e tutti i popoli e tentare di tirar fuori dalle loro diverse sensibilità, e dalle opere di questa sensibilità, sempre ciò che è umano».

    Sulla scia di Hamann e di Herder, Wackenroder propone, seppure in forma di effusione sentimentale più che di ragionamento argomentato, molti dei temi più caratteristici del pensiero romantico: e fra questi l’apprezzamento dell’arte del Medio Evo per se stessa, e non per il suo valore preparatorio rispetto a quella del Rinascimento. In ciò l’interesse romantico per i cosiddetti «primitivi» differisce da quello già manifestatosi, nel corso del Settecento, sulla base di una parziale consonanza fra la presunta «semplicità» medievale e la razionalità illuministica e antibarocca propria del Neoclassicismo: giacché i collezionisti settecenteschi raccoglievano le tavole dei «primitivi» per meglio documentare lo sviluppo e il «progresso» della pittura verso gli «apici» rinascimentali, mentre la concezione romantica dell’arte come espressione implica, al contrario, il ripudio dell’idea di «progresso» qualitativo e l’affermazione della validità autonoma delle opere d’arte di ogni tempo e di ogni luogo. Verso il 1820 la gerarchia di valori costruita dalla tradizione classica si è di fatto ribaltata, sul piano del gusto, e molti collezionisti concentrano ormai il proprio interesse sui pittori del Trecento e del Quattrocento, non spingendosi oltre Raffaello giovane; anche l’arte dei Carracci è giudicata severamente da Friedrich Schlegel.

    Su questo sfondo nascono le Italienische Forschungen di Karl Friedrich von Rumohr (1827-31), che non solo si chiudono con la morte di Raffaello, censurando l’«orribile grossolanità» di Michelangelo, ma addirittura si spingono fino ad avanzare riserve sulla capacità di concentrazione spirituale dell’ultimo Giotto, colpevole – secondo il Rumohr – di aver profanato la religiosità duecentesca con una mondanità quasi sacrilega. Oltre alla predilezione per il Medio Evo, il Rumohr derivava dall’ambiente romantico – e in particolare da Schelling – anche il senso della spiritualità dell’arte come creatività, diversa dalla spiritualità astrattamente metafisica teorizzata dai neoclassici: e questo lo portava a cercare nella concretezza dell’opera il segno della personalità dell’artista, opponendosi, con la netta distinzione fra originale e copia, alle «nebbie estetiche» allora dominanti. L’esigenza di un approccio concreto all’opera d’arte – che tenesse in giusto conto le peculiarità dell’esecuzione fisica, giovandosi al contempo di solide basi documentarie – derivava al Rumohr dalla sua familiarità con la tradizione italiana, divulgata a Gottinga da Domenico Fiorillo, e faceva di lui il capostipite dei grandi conoscitori che, nel secondo Ottocento, avrebbero dato sistematicità scientifica alla filologia storico-artistica.

    Mentre le premesse estetiche da cui muove il Rumohr sono fondamentalmente romantiche, pur se lontane da ogni estremismo idealistico, il clima culturale in cui matura l’esperienza dei Morelli, dei Cavalcaselle, dei Bode è invece quello del Positivismo: e non a caso si deve proprio a Giovanni Morelli il tentativo di mettere a punto un metodo per rendere l’attribuzione scientificamente verificabile. La stessa «innocenza filosofica» (Schlosser) che induce i conoscitori positivisti a concentrare l’attenzione sulle caratteristiche dell’oggetto e sulle sue vicissitudini, diffidando delle speculazioni astratte sull’arte, è anche all’origine dell’identificazione fra realtà e percezione naturale propria del «realismo» di Courbet; ma già Baudelaire, dallo stesso Courbet inserito fra gli amici cultori dell’arte nel suo Atelier, mostra di scorgere un’altra realtà dietro l’apparenza delle cose, ammirando l’immaginazione dei surnaturalistes, che di quell’apparenza non si accontentano, e demandando alla fotografia il compito di riprodurre fedelmente la natura. Viene così respinta ogni possibile sopravvivenza delle antiche teorie sull’arte come imitazione, e anche i pittori e gli scultori moderni, come i poeti, si rendono consapevoli di dover dare «forma» alla loro concezione del reale, anziché trascrivere le «forme» della percezione: in puntuale corrispondenza con quanto avviene nell’ambito della storiografia e della critica, dove lo studio filologico delle «forme», condotto con grande rigore dai conoscitori, finisce per sollecitare l’interpretazione estetica della «forma».

    La concezione dell’arte figurativa come forma kantianamente pura, indipendente dalla conoscenza concettuale e dalle finalità pratiche, viene messa a punto nelle conversazioni che intercorrono in Italia, all’inizio degli anni Settanta, fra il pittore Hans von Marées, lo scultore Adolf von Hildebrand e il filosofo Konrad Fiedler. Nel suo fondamentale saggio sull’origine dell’attività artistica (Über den Ursprung der künstlerischen Tätigkeit, 1887), quest’ultimo si richiama alla gnoseologia kantiana respingendo il dualismo fra percipiente e percepito, e affermando che «tutto il nostro possesso della realtà non soltanto poggia su processi a noi interni, ma è anche identico con le forme nelle quali questi processi si presentano»; sicché «il miracolo del linguaggio non consiste nel fatto che esso significa un essere, ma nel fatto che esso è un essere. E poiché ciò che si origina nella forma linguistica non esiste al difuori di essa, ecco che il linguaggio significa sempre e soltanto se stesso». L’attività produttiva dell’occhio, che astrae dai dati naturali la pura visibilità senza scarto fra contemplazione e produzione, costituisce per Fiedler l’analogo, nella sfera artistica, di ciò che è il linguaggio nella sfera logica: ma, a differenza di questo, preserva intatta la ricchezza dell’impressione originaria, fornendo così una sorta di conoscenza intuitiva, diversa da quella concettuale, che non necessita più di estrinseche giustificazioni moralistiche o didascaliche; né può più proporsi come imitazione della natura, essendo al contrario la forma naturale conoscibile soltanto nella forma datale dall’arte. Per soddisfare alle esigenze che la coscienza pone alla visibilità, l’attività artistica deve ridurre «le sue raffigurazioni ad una forma che sia veramente regolare», nel tentativo, «continuamente ripetuto e conducente ai più diversi gradi di successo, di penetrare nel regno dell’essere visibile e di assicurarlo alla coscienza in forma foggiata»: e dunque gli stessi rapporti di dipendenza fra opere di tempi e di luoghi diversi, pur riconosciuti possibili dal Fiedler, non legittimano in alcun modo l’idea che la capacità di produzione artistica si evolva secondo una linea di continuo progresso. Al formalismo di Herbart e dei suoi seguaci, che avevano posto la gradevolezza dei rapporti formali alla base del loro concetto di bello artistico, il Fiedler sostituisce così un formalismo più consapevole dell’autonomia del processo espressivo, ponendo invece la «chiarezza» e la «regolarità» di quei rapporti a fondamento della sua concezione di un’arte ormai distinta dal bello, e caratterizzata piuttosto dalla necessità della sua funzione conoscitiva.

    La poetica sottintesa nella teoria fiedleriana della «pura visibilità» trova concreta attuazione nei dipinti del Marées e nelle sculture dello Hildebrand, e anche una formulazione esplicita nel saggio di quest’ultimo sul «problema della forma» (Das Problem der Form in der bildenden Kunst, 1893): dove la richiesta del Fiedler di regolarità, necessità e perfetta chiarezza si precisa nell’auspicio di un’unità non generica, ma derivante in modo specifico dall’effetto di insieme in cui si modificano e si compongono, nella visione da lontano, le forme esistenziali dei singoli elementi. Mentre dunque lo Hildebrand identifica senz’altro la visione artistica con la visione da lontano, giovandosi a suo modo della contrapposizione tattile-ottico – già introdotta nel 1865 da Robert Zimmermann – più per delineare la propria poetica che per dedurre dai principi del Fiedler un metodo critico di generale applicabilità, spetta invece ad Alois Riegl il merito grandissimo di aver corretto l’irrigidimento normativo dello stesso Hildebrand, utilizzando la distinzione fra visione da lontano e visione da vicino per comprendere e giustificare, attraverso il concetto di Kunstwollen – ossia di volontà o intenzione artistica, non implicante di per sé una volontarietà psicologica –, la relatività storica, appunto, dei diversi modi della visione. Nel suo saggio fondamentale sull’industria artistica tardo romana (Spätrömische Kunstindustrie, 1901) il Riegl descrive il succedersi, nell’antichità, di una veduta da vicino, di una veduta a media distanza e di una veduta da lontano, alle quali corrispondono, rispettivamente, una concezione tattile, una concezione ottico-tattile e una concezione ottica; e rivendicando di fatto il valore autonomo della produzione più tarda, fino ad allora incompreso, nega al tempo stesso il concetto di decadenza, affermando la necessità di valutare le opere d’arte secondo gli specifici principi formali che hanno presieduto, nelle diverse epoche, alla loro composizione.

    Sullo sfondo variegato e complesso della cultura di fine secolo, illuminata dalle geniali intuizioni di Burckhardt e Nietzsche, sono frattanto maturati per la discussione e per lo studio i grandi temi su cui si incentrano le prime indagini di Heinrich Wölfflin, come l’analogia fra il Tardoantico e il Barocco, la periodicità del Barocco stesso nella ciclicità degli stili, la possibilità di formulare leggi autonome del vedere artistico. Il nucleo originario del pensiero wölffliniano appare fondamentalmente ispirato all’estetica dell’Einfühlung – o dell’empatia – nell’evidenziare rispondenze tra il comportamento psicofisico dell’uomo e le forme dell’architettura, ma si mostra anche sensibile allo storicismo di Dilthey nel ricercare il legame fra l’esperienza psicologica dell’individuo e gli orientamenti delle grandi epoche culturali. Su questa base di positivismo naturalistico e psicologico, peraltro mai rinnegata, sopravviene tuttavia – come una «pioggia rinfrescante su un arido terreno», a detta dello stesso Wölfflin – l’esperienza della visibilità pura, destinata a sfociare nella sostituzione del concetto di «senso vitale di un’epoca» con quello, purovisibilistico appunto, del «vedere di un’epoca». Nella sua celebre opera sui «concetti fondamentali della storia dell’arte» (Kunstgeschichtliche Grundbegriffe, 1915) il Wölfflin articola la basilare dualità fra plastico e pittorico – desunta da quella storica fra classico e barocco, e riproposta per tutte le epoche – in cinque coppie di concetti antitetici: lineare-pittorico, superficie-profondità, forma chiusa-forma aperta, molteplicità-unità, chiarezza assoluta-chiarezza relativa. In ogni epoca il passaggio dai primi termini di ciascuna coppia ai secondi è per il Wölfflin una «necessità intrinseca», non diversa da quella che ha presieduto all’evoluzione dal Rinascimento al Barocco, mentre lo sviluppo in senso opposto è considerato, di per sé, «innaturale».

    Le analisi critiche del Wölfflin, come quelle del Riegl e di altri formalisti quali il Berenson e il Focillon, sono da tempo divenute classiche, e sotto questo riguardo conserva tutta la sua validità l’osservazione di Lionello Venturi, secondo cui «dopo di aver conosciuto il libro del Wölfflin [i Grundbegriffe] si ha un’idea più chiara di prima su molte opere d’arte del Cinquecento e del Seicento». Anche i principi teorici del critico svizzero continuano tuttavia a meritare attenzione, per la loro convertibilità in schemi interpretativi utilmente applicabili alla grammatica della forma artistica: ma sono sempre risultati di per sé insoddisfacenti, avendo lasciato sostanzialmente irrisolto il problema delle relazioni che intercorrerebbero fra il presunto sviluppo autonomo delle forme e il contemporaneo sviluppo storico e culturale. Appunto questo problema, già adombrato in altri termini dal Riegl nella sua impostazione del rapporto fra Kunstwollen e Weltanschauung – o concezione del mondo –, viene a occupare il centro delle riflessioni di Max Dvořák, successore dello stesso Riegl sulla cattedra dell’Università di Vienna: la cui «storia dell’arte come storia dello spirito» si propone infatti di interpretare il succedersi delle forme artistiche come riflesso e conseguenza del succedersi delle «concezioni del mondo», individuate prevalentemente attraverso la filosofia e la religione.

    Non sempre lo Dvořák riesce a evitare il pericolo, connaturato al suo metodo non meno che a quello del Wölfflin, di spezzare l’unità concreta della sintesi artistica in due serie parallele di categorie astratte – quelle formali e quelle psicologico-storiche –, vedendo le prime come simboli, piuttosto che come espressioni, delle seconde: con gli stessi rischi di generalizzazione e di apriorismo che non a caso insidiano anche la storiografia di Arnold Hauser, in qualche modo complementare a quella dello Dvořák nel leggere lo svolgimento delle forme artistiche, più che come riflesso del pensiero filosofico e del sentimento religioso, come rispecchiamento delle tensioni economico-sociali e delle scelte operate dalle classi dominanti. La «storia sociale dell’arte» dello Hauser, come quella di Frederick Antal, si richiama ai principi estetici del materialismo storico e dialettico, che ripropone, con il suo concetto di «rispecchiamento», una versione moderna del concetto classico di imitazione. In questa prospettiva, la struttura socio-economica non può che condizionare la sovrastruttura artistica, sia pure attraverso altre sovrastrutture quali la religione o il pensiero filosofico; da cui l’ineluttabile necessità di far coincidere, almeno nelle linee generali e nei tempi lunghi, lo sviluppo artistico con quello sociale, anche a prezzo di gravi forzature e di disinvolte semplificazioni.

    Nel recensire la Sozialgeschichte der Kunst und Literatur dello Hauser, Ernst Gombrich ha contrapposto quello che è stato definito un approccio «micro-sociologico» all’approccio «macro-sociologico» dello stesso Hauser e di Antal, assegnando alla storia sociale dell’arte il compito di studiare, fuori dalle ipoteche dell’ideologizzazione, i mutamenti delle condizioni materiali e delle strutture istituzionali in cui si colloca, nelle diverse epoche, l’attività artistica. Con simili intendimenti hanno in seguito visto la luce, soprattutto nell’area della cultura anglosassone, numerose ricerche storiche sulla produzione e sulla recezione delle opere d’arte, condotte senza privilegiare necessariamente l’aspetto socio-economico, e senza cedere alla tentazione di costruire parallelismi e analogie culturali fondati su ipostatizzazioni onnicomprensive come lo «spirito del tempo» dello Dvořák, o anche, in qualche misura, come le «forme simboliche» teorizzate da Ernst Cassirer e dal fondatore del metodo iconologico, Erwin Panofsky.

    Nell’atto di distinguere l’iconologia dall’iconografia, Panofsky aveva assegnato alla prima il compito di attribuire alle diverse scelte iconografiche precisi significati simbolici, rintracciando nelle ideologie del tempo le ragioni per cui l’artista o i suoi committenti avevano preferito l’una o l’altra soluzione: «Finché ci limitiamo ad affermare che il famoso affresco di Leonardo da Vinci mostra un gruppo di tredici persone intorno a una tavola apparecchiata e che questo gruppo di persone rappresenta l’Ultima Cena, noi consideriamo l’opera d’arte in quanto tale e ne interpretiamo gli aspetti compositivi e iconografici come sue proprietà e qualificazioni. Ma quando tentiamo di interpretare l’affresco come un documento della personalità di Leonardo o della civiltà del pieno Rinascimento italiano, o di un particolare atteggiamento religioso, allora noi consideriamo l’opera d’arte come un sintomo di qualcosa d’altro che si esprime in infiniti altri sintomi, e interpretiamo i suoi aspetti compositivi e iconografici come manifestazioni più dettagliate di questo qualcosa d’altro. La scoperta e l’interpretazione di questi valori simbolici (che spesso sono ignorati dall’artista stesso e possono divergere, magari in misura vistosa, da quello che l’artista consapevolmente si proponeva di esprimere) è l’oggetto di quella che possiamo chiamare iconologia in opposizione a iconografia». Proprio il concetto, già formulato in precedenza dal Panofsky e da lui richiamato nell’inciso fra parentesi, di «involontaria e inconscia autorivelazione di un atteggiamento di fondo verso il mondo, [...] caratteristico, in ugual misura, del creatore come individuo, della singola epoca, di un singolo popolo, di una singola comunità culturale» ha attirato su di sé – non diversamente da quello di «spirito del tempo» usato dallo Dvořák e dallo Hauser – la critica radicale del Gombrich, strenuo oppositore della concezione dello stile come espressione di una «personalità collettiva ipostatizzata», e al tempo stesso della concezione dello stile come «sistema integralmente espressivo». Per lui l’arte non è un «sintomo dello stato d’animo dell’artista», ossia un’«espressione della personalità», ma piuttosto il veicolo di un messaggio particolare, correttamente interpretabile solo in riferimento alle alternative consentite dal sistema linguistico in cui si colloca: e pertanto la sua iconologia si differenzia da quella del Panofsky, fondata sull’«intuizione sintetica» della concezione del mondo presente nell’opera d’arte, per la riduzione dell’orizzonte della ricerca e per la sua concentrazione sui significati consapevoli, o comunque verificabili, trasmessici dalle forme istituzionali dei linguaggi artistici.

    D’altronde lo stesso Panofsky, adeguandosi in qualche misura al pragmatismo dell’ambiente statunitense in cui si è trovato a operare, ha finito per sacrificare di fatto l’iconologia all’iconografia, dedicandosi sempre più a ricerche specifiche sui programmi e sulle intenzioni consapevoli di artisti e committenti, e rinunciando invece all’obiettivo, indicato inizialmente e poi contraddetto, di individuare il «contenuto ultimo e essenziale» dell’opera d’arte attraverso la considerazione unitaria di tutti i suoi aspetti, iconografici e anche «formali». Come ha osservato giustamente Roberto Salvini, quasi tutti gli studiosi di iconologia sembrano oggi considerare assolto il loro compito «con la elucidazione del contenuto simbolico e delle implicazioni ideologiche di opere d’arte di soggetto inconsueto o di complessi programmi relativi a grandi cicli. Le conseguenze che dai risultati di quelle laboriose indagini si possano trarre in vista di una più approfondita definizione della sostanza espressiva dell’opera quale è dichiarata dalla forma non interessano quegli studiosi: i quali o sembrano lasciare questo compito ad altri, o, più spesso ancora, propongono i risultati raggiunti col loro metodo come alternativi, e pertanto esclusivi, di quanto potesse risultare da un’analisi formale dell’opera d’arte. [...] Nella massima parte dei casi l’indagine viene abbandonata nel momento in cui si è raggiunta l’interpretazione del contenuto simbolico, oppure – e questo accade nelle monografie che si propongono una trattazione completa dell’artista studiato – vi si accompagnano osservazioni sulla forma e magari sulla tecnica che non hanno alcuno stretto rapporto con i risultati raggiunti dall’indagine sul contenuto».

    Indipendentemente dalla bontà dei risultati particolari, le attuali tendenze della storiografia artistica sembrano dunque polarizzate nelle direzioni opposte del formalismo – residui purovisibilistici, attribuzionismo – e del contenutismo – storia sociale dell’arte, iconologia –, con una pericolosa indifferenza per la globalità del processo espressivo, ben presente invece tanto al «formalista» Fiedler nella sua negazione di uno scarto fra vedere ed esprimere, quanto al «contenutista» Panofsky nella sua affermazione giovanile che non si possono dare forme diverse dello stesso contenuto. Proprio il rapporto tra forma e contenuto e il problema della loro caratterizzabilità sono stati al centro della speculazione idealistica, in Italia, nella prima metà di questo secolo, dando luogo a un confronto fra pura visibilità e crocianesimo che merita qui di essere riconsiderato nei suoi nodi essenziali: non certo per proporre un ritorno alla «filosofia dello spirito» di Benedetto Croce, ma piuttosto per verificare quali stimoli abbia offerto e quali difficoltà abbia comportato, nel dialogo con gli storici delle arti visive, la rigorosa definizione unitaria dell’arte come espressione, chiaramente distinta tanto dal sintomo delle emozioni e degli affetti quanto dalla manifestazione del pensiero. Sarebbe infatti ingiusto ridurre quel dialogo, come pure si è fatto, a puro scontro fra astrattezza idealistica e positività di metodo, fondandosi su affermazioni avulse dall’organico contesto in cui solo devono essere lette: alle quali non sarebbe difficile, in tal caso, opporne altre di senso contrario.

    Così all’estetica del Croce si usa rimproverare, non senza qualche ragione, la negazione del rapporto che lega l’arte alla cultura e alla storia in genere, e, conseguentemente, il taglio netto fra poesia e non poesia, implicante a sua volta una lettura critica frammentaria. Si potrebbe tuttavia richiamare, per quanto riguarda il primo punto, questo passo dei Problemi di estetica (1910) relativo alla storia dell’architettura: «È necessario studiare i motivi pratici che hanno operato nell’animo dell’artista, come si studiano le idee sue e del suo tempo, le tradizioni, le abitudini di scuole, gli influssi stranieri, l’efficacia sentimentale di queste o quelle forme architettoniche e decorative; e così via». Come si vede, Croce non nega il rapporto con la storia e con la cultura, ma più semplicemente richiede che la critica non si limiti a individuare i termini di quel rapporto: «È necessario non arrestarsi ad essi, ma ricercare la sintesi artistica, cioè il momento essenziale e dominante in cui l’artista ha conseguito una propria visione o immagine, la quale trasforma in lavoro d’arte il lavoro pratico». Esigenza, questa, sulla quale prevalentemente insisteva il Croce, in contrasto con la storiografia di ispirazione positivistica che mostrava di non avvertirla: da cui l’equivoco, che si volesse negare ciò che era invece dato per scontato. Quanto al taglio netto fra poesia e non poesia, converrà rileggere un altro passo, che testimonia di una concezione alquanto più duttile rispetto a quella solitamente attribuita al Croce: «La poesia nei poemi, nei drammi, nei romanzi, poeticamente ispirati, non sta soltanto in alcuni singoli pezzi, ma circola per il tutto, e vi sono opere da cui nessun pezzo si può distaccare e porre nelle antologie come bello, e nondimeno vi si sente la poesia infusa e diffusa». Pur non ignorando, come si è detto, le cautele necessarie nel servirsi di passi tolti dal loro contesto, si dovrà comunque prendere atto che il pensiero del Croce è in realtà assai più articolato di quanto spesso si presuma appoggiandosi a qualche formula estratta dall’Estetica (1902) o anche dal Breviario di estetica (1912), e non può essere ben compreso senza che se ne siano esaminati gli svolgimenti successivi, giunti a piena maturazione nel volume La poesia (1936); dal quale è tratta, infatti, l’ultima citazione. Per questo ci si propone adesso di seguire nel tempo il configurarsi di alcuni nodi problematici della riflessione crociana, al fine di chiarire come la critica d’arte figurativa li abbia fatti propri, tentandone l’innesto con i principi e i metodi della pura visibilità, che Croce in parte non condivideva pur avendone introdotta la conoscenza in Italia.

    Nell’Estetica del 1902 Benedetto Croce

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