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Assessore Operaio: tra passione e "passioni"
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Assessore Operaio: tra passione e "passioni"
E-book715 pagine6 ore

Assessore Operaio: tra passione e "passioni"

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Info su questo ebook

Un'insolita cronaca dall’interno del Palazzo vissuta dalla tribuna (in trincea) di assessore alla Cultura e Turismo a Castelfranco Veneto tra il 2010 e il 2015.
58 capitoli per 58 mesi con aneddoti, curiosità, qualche scoop assolutamente inedito. È un viaggio che racconta le molte vicende di Bolasco, delle Mura. Ricco di volti e storie più o meno piacevoli di un’esperienza vissuta a trecento all’ora, ma anche con qualche stop, rallentamenti a volte inaspettati, dovuti a quelle vicende, anche umane, più o meno razionali, che si ritrovano in quella che viene anche chiamata... politica.
Nella piccola Città.
“Una volta esaurita la lettura di questo singolare memoriale, viene istintivo paragonare l’autore a un particolare personaggio cinematografico di uno dei più bei film del primo Woody Allen. «Che ci faccio io qui?»
Nel 2010 Saran viene chiamato a far parte della neoletta giunta della Città come indipendente, senza tessera e senza appartenenze, con deleghe a Cultura, Turismo e Identità Veneta.
La sua è un’esperienza con molti “backstage”, come la definisce egli stesso con un’ironia che attraversa tutte le pagine del libro in una sequenza di “dietro le quinte” che parte in gloria e finisce in tragicomica farsa.” (dalla prefazione di Francesco Jori)
LinguaItaliano
Data di uscita15 dic 2015
ISBN9788896753651
Assessore Operaio: tra passione e "passioni"

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    Anteprima del libro

    Assessore Operaio - Giancarlo Saran

    Assessore Operaio

    tra passione e passioni

    Giancarlo Saran

    Panda Edizioni

    Isbn 9788896753651

    © 2015 Panda Edizioni

    www.pandaedizioni.it

    info@pandaedizioni.it

    Foto copertina: Martina Bellotto

    Foto di quarta: Renato Vettorato

    Prefazione:

    Che ci faccio io qua?

    Absit iniuria verbis. Non suoni irriverente il paragone: ma una volta esaurita la lettura di questo singolare memoriale, viene istintivo paragonare l’autore a un particolare personaggio cinematografico di uno dei più bei film del primo Woody Allen. Che ci faccio io qui?, si chiede, smarrito e sgomento, un malcapitato spermatozoo nero vestito da paracadutista e confuso in mezzo a uno stuolo di colleghi rigorosamente bianchi che si preparano all’assalto decisivo. Siamo sul set di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (e che non avete mai osato chiedere). Ma che c’entra? Ecco: se volete levarvi la stessa curiosità a proposito della politica (ammesso, e non certo concesso, che la politica possa essere più curiosa del sesso); se ci sono cose che al riguardo non avete mai osato chiedere; se siete in cerca dello spermatozoo nero; ebbene, non vi resta che fare un salto a Castelfranco Veneto e scambiare due parole con Giancarlo Saran. Che è poi l’autore di questo libro: dove è condensato nell’arco di cinque anni tutto il peggio dell’odierna gestione della cosa pubblica e della decadenza della politica. Male italiano di antica data, stando a quanto denunciava ormai più di un secolo fa Giuseppe Prezzolini, alla vigilia del cinquantenario dell’unità d’Italia: La democrazia presente non contenta più gli animi degli onesti… non si è fatto che l’interesse dei più avidi e prepotenti… Tutto cade, ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma solo gruppetti e clientele… Ogni partito è scisso, tutto si frantuma, le grandi forze cedono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri d’unione. Ma un contagio che ai giorni nostri ha toccato punte allarmanti, se è vero che i partiti, stando ai sondaggi di varia estrazione, risultano relegati all’ultimissimo posto nella scala della fiducia degli italiani: appena il 5 per cento; e pensare che vent’anni fa, ai tempi della pur devastante tangentopoli, erano ancora al 20…

    Nel loro piccolo le vicende di Castelfranco rappresentano un’illuminante sintesi di questa deriva. Iniziata di fatto nel 2010, quando Saran viene arruolato in quella non certo esigua schiera dei professionisti prestati alla politica cui i partiti ricorrono per tamponare l’emorragia di credibilità: medico dentista, quindi di sicuro non uno che non sapesse come impiegare il tempo, viene chiamato a far parte della neo-eletta giunta della città come indipendente, senza tessera e senza appartenenze, con deleghe alla cultura, al turismo e all’identità veneta. Tre ingredienti che da subito lui inserisce in un’unica trama, facendo leva sugli straordinari giacimenti artistici e culturali del luogo, peraltro in larga parte relegati in un polveroso e deleterio oblìo: al quale si propone di sottrarli, mobilitando risorse pubbliche e private. La sua è "un’esperienza con molti backstage, come la definisce egli stesso con un’ironia che attraversa tutte le pagine del libro: una sequenza di dietro le quinte" che parte in gloria e finisce in tragicomica farsa. Con uno spartiacque rappresentato dal 2013, come dire più o meno la boa di metà mandato: dalla quale in poi le memorie di Saran inanellano una serie incredibile di contrattempi, boicottaggi, sgambetti, trappoloni, che finiscono per condizionare pesantemente anche le iniziative più prestigiose e qualificate.

    È opportuno non privare il lettore del mix tra sorpresa e incredulità sollevate dal racconto delle singole vicende. Ma un elenco ragionato va pur proposto, anche perché finisce per rappresentare un catalogo di occasioni perdute, o quanto meno dimezzate; e al tempo stesso per ricordare a chi ci vive, e far presente a chi la visita, di quale straordinario patrimonio culturale disponga Castelfranco. Nei cinque anni qui riepilogati, l’assessore mette mano a una serie di riscoperte e rilanci di indiscusso richiamo. A partire dall’eredità di Giorgione: la celebre Pala da offrire a un’attenzione ben più ampia del vecchio mordi e fuggi di chi entra nel Duomo (quando è aperto); la casa-museo dell’artista, facendone il baricentro di un moderno progetto di museo diffuso; l’operazione di un vero e proprio distretto culturale Terre di Giorgione da legare all’Expo milanese. E ancora: il recupero e la restituzione alla collettività di uno straordinario patrimonio quale quello di villa Bolasco e del parco, da una quarantina d’anni condannati a un silenzioso quanto scandaloso degrado; l’«import» castellano di una grande firma della pittura italiana quale Paolo Caliari, il Veronese, in abbinamento con una prestigiosa mostra a lui dedicata a Verona; il ripristino della cerchia muraria, simbolo della città e primo impatto per chi vi giunga, una battaglia attorno alla quale si riescono a mobilitare 14mila firme, un vero e proprio record, quasi metà degli abitanti della città; l’antica torre rimessa in sesto e riaperta al pubblico; la restituzione a Castelfranco della memoria e dello spessore di un giornalista come Giorgio Lago, attraverso il Premio a lui intitolato, e che porta in città prestigiose firme della cultura, dell’impresa, dello sport, del volontariato.

    Ma lungo questa batteria di iniziative, e di svariate altre puntualmente raccontate nel libro, Saran un po’ alla volta si trova esposto a una sorta di fuoco amico di sbarramento: edificato a colpi di "no se pol, no ghe xé schèi, ste robe a Castèo?!; e impastato con spifferi, sussurri, voci dal sen fuggite e tutto l’armamentario della bassa macelleria della politica. Così, mentre da fuori riesce ad attirare su Castelfranco attenzioni e interessi diffusi, il Nostro da dentro si trova a doversi misurare con una serie di contrarietà e di ostilità che ne tarpano le ali: incluso un micidiale taglio di bilancio che compromette iniziative di grande richiamo già avviate. Vizi pubblici cui si contrappongono peraltro virtù private, grazie alla rete di legami di Saran: da un Mario Brunello che al di là delle idee politiche diverse ripaga un’amicizia di antica data con le sue straordinarie esibizioni, a un Rotary di cui l’autore è socio di antica data, e che egli definisce il mio più importante azionista culturale", considerando i fondi che mette a disposizione per una serie di progetti di grande respiro. E così, dal 2013 in poi, Saran finisce per diventare un’ingombrante presenza in giunta, nell’inespressa (e inevasa) speranza che tolga il disturbo da solo in anticipo.

    Ma l’elencazione delle occasioni perdute non è il vero leit-motiv del libro. Lo è invece il messaggio di fondo che scaturisce da questa vicenda, tutt’altro che isolata: chi voglia rendersene conto, legga il Cammino controcorrente scritto da Ilaria Borletti Buitoni (altra volontaria dell’esercito dei prestati alla politica), in cui tra l’irato e il malinconico racconta la sua tragicomica esperienza di sottosegretario ai Beni culturali nei governi Letta e Renzi; e vi troverà millanta punti di contatto. Da sempre, nel Belpaese, si stenta a capire l’importanza strategica di quello che Saran definisce il petrolio non delocalizzabile della nostra cultura e della nostra storia; d’altra parte, è diventata tristemente nota l’infelice battuta di un fu-ministro: con la cultura non si mangia. Eppure, non è solo un problema di in-cultura: c’è un retroterra ben più inquinato, ed è la concezione di una politica scaduta ad autoreferenziale tutela di piccoli interessi di bottega; dove l’ignoranza si mescola alla presunzione, in un micidiale intreccio che ha finito per prendere in ostaggio l’intero Paese.

    Giustamente Saran chiama in causa quella che è stata, forse e senza forse, la più autorevole e rappresentativa figura politica di Castelfranco: Menego Sartor, uomo dimesso nell’apparenza ma tosto nella sostanza, espressione di un’alta e altra politica che sapeva coniugare la visione del futuro con la concretezza del presente. Un leader, in tutti i sensi: espressione di una realtà in cui i partiti tutelavano gli interessi veri ma prima ancora le identità; facevano formazione dei loro dirigenti; erano terminali autentici dei cittadini e delle loro esigenze, interpreti della vita vera, voci credibili dei loro territori. Tutto il contrario dell’odierna deriva, in cui i partiti si sono sgretolati, riducendosi a comitati d’affari e ricettacolo di mediocri in cui l’ambizione è inversamente proporzionale alla preparazione. Un virus che è andato infettando i livelli istituzionali fino in periferia, intaccando perfino l’ultimo baluardo, quello dei Comuni e dei loro amministratori: come documenta in modo inequivocabile un recentissimo sondaggio di Ipsos, uno dei più autorevoli istituti di ricerca italiani. La controprova sta nella fuga di massa dalle urne: un’astensione ormai dilagante, divenuta il primo partito non solo quando si vota per il parlamento nazionale, ma anche per le amministrazioni locali.

    Il guaio di fondo è che l’Italia soffre di un remoto e inguaribile deficit di laicità. La Repubblica è cresciuta attorno a due partiti-chiesa, Dc e Pci, in cui si procedeva per dogmi calati dall’alto e per schieramenti a prescindere. Oggi i due partiti sono estinti, ma democristiani e comunisti sono vivi e vegeti, camuffati nella pletora di sigle che si stanno succedendo a ritmo frenetico nella cosiddetta Seconda Repubblica: e continuano a fare guasti. Manca lo spazio per una visione laica della politica (troppo spesso sostituita da una visione laida: vedi la corruzione dilagante…), e manca da sempre. Raccontava una quarantina d’anni fa un insigne liberale di essere stato invitato a un congresso all’estero assieme a un compagno di partito e di avergli suggerito di viaggiare con due voli diversi, perché altrimenti se casca l’aereo si estingue il partito liberale. Un paradosso, ma non è un caso se uno dei libri più veri di un grande liberale come Luigi Einaudi si intitola Prediche inutili; e se la Castelfranco di Saran è stata l’unica assieme a Torino a ricordarsi di lui in un pubblico evento.

    Perché, a ben vedere, l’autore di questo libro-sfogo è un liberale di quelli all’antica; come lo era lo stesso Giorgio Lago, liberale da sempre e federalista per sempre. E in Italia non c’è mai stato spazio per gli spiriti liberali; tanto meno oggi, in cui una diffusa sindrome di Salieri favorisce e promuove il trionfo del mediocre: cui la persona capace dà fastidio perché smaschera la sua mediocrità. C’è d’altra parte una lezione della storia, locale in questo caso, che suggerisce una riflessione conclusiva: le mura di Castelfranco furono erette nel corso di lavori diretti dal conte Schenella di Collalto, che impiegò circa cinquecento maestri muratori e un migliaio di manovali che all’epoca venivano chiamati guastatori. Peccato che quelli odierni, anziché impegnarsi a costruire, si divertano a distruggere. E soprattutto che si esercitino in questo poco lodevole sforzo sul terreno della politica. Dando così involontariamente, e soprattutto inconsapevolmente, ragione a Robert Luis Stevenson, quando annotava che la politica è forse l’unica professione per la quale non si considera necessaria nessuna preparazione specifica. E si vede.

    Francesco Jori

    INTRODUZIONE

    Quando ti frulla per la testa l’idea di scrivere un libro non è mai per caso.

    È un curioso mix che nasce dal desiderio di raccontare, raccontarsi, condividere pensieri e parole, per dirla alla Battisti (Lucio).

    Nel caso del sottoscritto c’è anche un po’ di innegabile esibizionismo sparso tra le righe (a volte anche sopra le righe, forse) tra una consecutio gioiosamente scomposta e alcuni calembour frutto di neologismi che, a volte, riescono pure a fare a nascondino tra le lingue di Dante e Goldoni.

    In realtà, queste pagine, raccontano (quasi) cinque anni di un’esperienza di vita straordinaria, quella che mi ha visto quale assessore (pro tempore) con delega a Cultura e Turismo nella mia Città, Castelfranco Veneto.

    Cinque anni intensi, vissuti a volte a trecento all’ora, a volte bloccato a scalpitare per le mordacchie dei tempi e degli uomini, come avviene da che mondo è mondo, anche quello piccolo, descritto da un ben più talentuoso Giovannino Guareschi.

    Troverete un po’ un diario, non più di tanto, ma, soprattutto, quello che vorrebbe essere una sorta di testamento spirituale sul quel che si è fatto; quel che si sarebbe voluto fare (o completare); quello che ci si augura si possa fare in futuro per rendere onore a questa straordinaria Città e a tutto il quanto (e tanto) vi è di bello attorno, ovvero Le Terre di Giorgione.

    NOMINATO, NON ELETTO

    Tutto cominciò all’inizio del 2010.

    In primavera si sarebbero dovute tenere le elezioni amministrative, dopo due legislature di una civica guidata da un’insegnante che, in qualche modo, era stata espressione della profonda crisi di rappresentanza dei partiti tradizionali.

    Una sinistra, come da copione, scossa da magmi interni e più spesso divisa che unita per giungere a un obiettivo quasi mai centrato nella castellana.

    Un centrodestra afflitto da una sorta di nanismo arcoriano, ovvero popolato di leader veri o presunti incapaci di fare una reale sintesi di proposta e rappresentanza così come le locali truppe bossiane, senz’altro abili a cavalcare le esigenze del malcontento diffuso di queste terre da sempre ferventi democristiane (con le loro mille sfumature), ma a volte bloccate da una retorica che non sapeva scavalcare l’ostacolo della proposta del cosa fare e come fare, al di là degli slogan d’importazione lumbard o dei vecchi retaggi venetisti.

    Nel 2010 le condizioni per la vittoria del centrodestra erano concrete e la civica a guida magistrale brancolava un po’ nei sondaggi.

    Io ero da poco reduce dall’annata di Presidente del locale Rotary Club.

    Era stata una splendida occasione per rinforzare i legami con un territorio che mi aveva visto comunque sempre attento, sin dai tempi dell’associazionismo giovanile.

    Ero francamente tentato dallo scendere in campo, tuttavia mi trattenevano un po’ i vincoli di una professione molto impegnativa, un po’ gli scenari francamente cangianti più dell’inquieto cielo primaverile.

    Avevo qualche buon amico paziente (anche nel senso clinico del termine), a cui avevo confidato questo mio desiderio di mettermi in gioco, rendermi utile con un’esperienza comunque formatasi negli anni, pur se in ambiti diversi, diciamo più laici, rispetto ai partiti tradizionali.

    Naturalmente area berlusconiana, pur se mai avuta una tessera.

    Settore cultura, ovviamente.

    Per quella serie di vicende – dai contorni anche tragicomici - che compongono la commedia della vita, avvenne che le truppe arcoriane nelle Terre di Giorgione sbagliarono completamente tutto con delle giravolte che avrebbero fatto inorridire Einaudi e persino Don Camillo, inchinandosi umili alla civica uscente, con la spada di Giussano pronta a piantare le tende all’interno del Palazzo.

    Dopo il ballottaggio, una volta tornati sui loro passi, gli indeboliti forzisti locali non potevano che presentare qualche faccia nuova che non risultasse compromessa quale collaborazionista del sostegno civico bloccato al primo turno.

    E fu così che, come coniglio dal cappello, uscì il nome del sottoscritto.

    Proposto come novità, dalla candida anima senza tessera, con un passato che poteva completare la sguarnita casella culturale della giunta verde in odore di vittoria al ballottaggio.

    Il primo contatto è ancora ben impresso nella mente.

    Convocato sul far del mezzodì.

    Lo stato maggiore di Giussano con delega per l’amata Casteo mi scrutava come un ET qualsiasi.

    Mi pareva di essere alla visita di leva.

    Difficile essere riformato per insufficienza toracica, anche perché ampiamente compensata da un gioioso girovita frutto di una attenta militanza da Gastronauta.

    Ero infatti fresco della pubblicazione di un libro, Il Gastronauta nel Veneto, Edizioni 24 Ore, coscritto con la somma penna golosa nazionale, tale Davide Paolini, con il quale collaboravo da una decina d’anni.

    Il Primario (cioè il sindaco) mi squadrò in maniera bonaria.

    Con lui ci eravamo conosciuti sì e no qualche lustro addietro, per amicizie comuni.

    I suoi assistenti (cioè potenziali assessori) avevano l’asse oculare a doppia focale. Una a telescopio sul sottoscritto, l’altra con le pupille mute ai piedi del capo, in attesa di capire se fossi abile o meno a sedermi attorno a loro quale compagno di banco e di legislatura.

    Alla fine il Primario emise la diagnosi.

    "Va ben, però ricordate che comando mi".

    Ci mancherebbe signor Tenente, pardon, Signor sindaco.

    E così cominciò l’avventura di… Assessore Operaio.

    PRIMI PASSI

    Chiamai Alberto per comunicargli la bella notizia.

    Alberto era un caro amico e collega, di qualche anno più esperto di me, con il quale avevamo condiviso molti passaggi di vita professionale, tra corsi e congressi in giro per l’Italia.

    Viveva in uno splendido posto nei pressi del Lago Maggiore.

    Anche lui, anni fa, aveva fatto un percorso simile al mio.

    Come me apolide liberale, senza tessere né padroni.

    Nominato e non eletto, pur se con altra delega, ovvero sociale e dintorni.

    Avevamo molte affinità, anche come Gastronauti di complemento.

    Ma lui era del Lions Club.

    Mi vennero in mente i suoi racconti, le sue esperienze, un mix di Ying e Yang, dove il bello e il peggio della natura umana lo incontravi in diretta, a volte senza aspettartelo.

    Bravo, complimenti. Conoscendoti te lo meriti tutto il tuo assessorato. Stai guardingo però. La realtà non è sempre quella che appare (citava Twin Peaks, era chiaro) e ricordati una massima del tanto esecrato Richard Nixon: a volte non ti devi guardare da chi hai dall’altra parte del tavolo, ma da chi ti è seduto a fianco.

    Profetico di un Alberto.

    Ci era passato prima.

    Lui, ma io non lo sapevo.

    Il primo giorno di squola, cioè quello del giuramento, era una novità a ogni passo.

    Il Palazzo non l’avevo mai frequentato, tranne per quel periodo legato alla Presidenza del Rotary Club.

    Un po’ la Sala Ovale del sindaco. Abbastanza il Teatro, idem la Biblioteca.

    Eravamo tutti come scolaretti.

    Non conoscevo nessuno dei mie compagni di avventura. Tutte facce nuove anche se, in realtà, ci si sarà incrociati qualche volta nel normale vivere quotidiano.

    Da sempre cultore delle discipline lombrosiane mi divertivo a intuire i rispettivi privati.

    I conseguenti futuri assetti operativi assessoriali.

    Ci azzeccai forse solo con quello al bilancio, un dinoccolato preside sulla via della pensione che sembrava squadrare il pavimento su cui camminava come un tabulato fatto di entrate, uscite e qualche Imu.

    Sai, anch’io faccio il medico, e mio papà era dentista.

    Per proprietà transitiva individuai la possibile assessora a sanità e sociale.

    Forse alla maturità era meno emozionata.

    Tutti al muro per le foto di rito.

    I corrispondenti locali pronti a fiondarsi a rotazione per le prime dichiarazioni, quasi fossimo habituè di vecchie chiacchierate sul far del tramonto, tra una vasca e l’altra dell’amata Casteo.

    Un po’ ero sgamato in questo ambito.

    Dichiarazioni, comunicati stampa, soffiate varie e diverse.

    Tuttavia in altri settori affaccendato, spesso dal taglio calorico al retrogusto di carbonara o sopa coada.

    Nello studio, al Trapanificio, esposta la foto del sottoscritto in calzoni corti che intervista nientepopodimeno che un certo Indro Montanelli nel suo Giornale.

    Regolare dedica scritta in calce dall’uomo di Fucecchio.

    Tuttavia, adesso eravamo assessori a casa nostra, per di più ospiti, in quanto nominati e non eletti.

    E quindi occhio attento e frasi cortesi, ma prudenti.

    Anzi, prudentissime.

    C’era tutto un mondo intorno a me.

    Anche perché tutta la Città era ancora stordita dai centomila e passa visitatori della epocale Mostra sul Cinquecentenario del Giorgione.

    L’ultima di tale caratura, perché era quella della Morte, essendosi svolta la prima, quella della nascita, trent'anni addietro.

    Sembrava che, dopo il Giorgione, il diluvio.

    O si replicava annualmente l’evento monstre, oppure qualsiasi iniziativa culturale sarebbe stata valutata poco più di una pulce nel deserto.

    Questo era il sentire comune. Quello di commercianti, albergatori, pubblico euforico che, probabilmente, poco sapeva che un cinquecentenario è una cosa; una normale gestione – pur non routinaria – della valorizzazione culturale di una comunità e del suo territorio, non poteva che rispondere a ben altre regole.

    Ma tempo al tempo.

    Testa bassa e pedalare.

    Avevo, oggettivamente, il più bell’ufficio di tutta la Giunta messa assieme, all’interno del prestigioso settecentesco Teatro Accademico.

    Mi rinchiusi per la prima volta con il mio diretto interlocutore, il mio Richelieu, alias Direttore del Teatro nonché Responsabile Ufficio Cultura per conto del Comune.

    Ci conoscevamo già, sempre per retaggi rotariani.

    L’uomo era vispo, il pelo rosso che ne incorniciava il volto, per me che mi ero sempre dilettato di fisiognomica, era una chiave di lettura molto chiara.

    Era ovvio che, dopo il primo prudente annusarsi reciproco, lavorammo a quattro mani per tutta la legislatura con perfetta intesa e profondo rispetto.

    Ma, di questo, era indispensabile gettare le basi sin da subito.

    Ero io, formalmente, il suo diretto superiore.

    Ma lui era… Richelieu, appunto.

    E pure di pelo rosso.

    VOLTI E STORIE

    MARIO BRUNELLO

    Febbraio.

    Le brume invernali devono ancora dare spazio ai profumi primaverili, stavolta dal retrogusto elettorale.

    La Città del Giorgione attende un nuovo sindaco.

    El Capanon, cioè Antiruggine.

    Serata speciale con Violoncello padronale e artista ospite degno del luogo.

    Mario mi guarda. Ci guardiamo.

    Come dai tempi del "can da Pajaro", laddove era nata una amicizia spontanea, quarant'anni fa, indipendentemente da quelli che sarebbero stati poi i nostri percorsi di vita.

    Stellari per il mondo, i suoi, e strameritati.

    De’ borgata, di onesto contesto trapanante per il sottoscritto.

    Ma è vero che ti candidi sindaco?

    Lo guardo.

    Mi vien in mente quando mi mettevo la cuffietta della nonna per andare a vedere assieme le derapate di Ca' Mostaccin o gli sterrati della Val di Zoldo. Io, driver neopatentato sulla 132 di famiglia; lui sedicenne già virtuoso di belle speranze.

    El Can da Pajaro testimone muto di qualche goliardata estiva.

    Epocale quella degli autobus resi lampeggianti a far festa …

    "Ma, dime, xé vero?"

    Lo guardo, muto.

    È vero.

    Era da tempo che, ogni tanto, qualcuno me la buttava là, come si fa con molti, d’altra parte, in questi frangenti.

    Avevo sempre declinato gentilmente, ma non era proprio il caso.

    Mario, con l’occhio che aveva scannerizzato l’anima musicale di Bach, nel nostro privé di un Antiruggine inter nos, mi squadra e mi lancia la sfida.

    Lo sai che ho idee molto diverse sulla politica. Ma …

    A volte il linguaggio non verbale la dice meglio di tante parole.

    A Mario sembra che gli stia improvvisamente risalendo il pranzo del mezzogiorno.

    La mano sul costato. Il lieve inarcarsi del busto in avanti.

    Però, se mi dici che ti metti in pista…

    I potenziali conati gastrici riprendono muti.

    Lo guardo. Faccio solo il dentista, non l’enterologo.

    Be', allora, se è vero, hai il mio appoggio.

    Neanche il miglior Gigi Proietti avrebbe saputo improvvisare meglio la gag in fa maggiore.

    Era il febbraio 2010.

    In realtà, come descritto altrove, se le cose fossero andate in un certo modo, forse mi sarei occupato di Cultura, ma era tutto da vedere.

    Aprile 2010.

    Assessore, nominato non eletto.

    Altra tappa da Antiruggine, stavolta fuori spartito.

    Conoscevo perfettamente il Brunello-pensiero in tema di cultura e di come mediarla fuori dai soliti schemi.

    Cose possibili al "capanon", meno in contesti più tradizionali, quali ad esempio il Teatro Accademico.

    Erano anni che Mario batteva nuove strade, con grande successo, a iniziare da quei magnifici concerti tra deserti o vulcani, con il suo cello seicentesco rivestito dalla rossa custodia con il logo del cavallino rampante.

    La mia richiesta fu quasi come quella di chi scrive la letterina dei desideri da porre sotto l’albero.

    Almeno una volta l’anno, spero di poter fare una cosa assieme. Cerchiamo di trovare un punto in comune tra amministrazione e lo spirito libero di Antiruggine.

    Non mi appellai ai tempi del "can da pajaro".

    Non serviva.

    L’intesa era conseguente.

    Nei tempi e nei modi, ovviamente.

    2011. Giornate FAI di Primavera di Bolasco (la prima di una quaterna in città).

    Dopo lustri di oblio vi era la possibilità di rivivere con memoria condivisa questo luogo.

    Da una felice intuizione del Circolo El Pavejon, sotto l’abile regia di Pier Paolo Giarolo, registrazione di immagini e suoni in cui, oltre a Brunello, partecipano anche altri artisti (da Alberto Mesirca a Claudio Cecchetto passando per Marco Ballestracci, con interviste e testimonianze in diretta, tra cui il Maestro Giusto Pio).

    Tema di una successiva serata a tutta… Antiruggine, naturalmente.

    Mario e il suo violoncello registrano piccoli spot di musica senza tempo comparendo negli angoli più suggestivi del Parco e della Villa.

    Memorabile la registrazione di un suo assolo nel granaio posto dietro quella facciata dai tratti che rimandano al Palazzo Ducale di Piazza San Marco, quello che si vede dal lato di Borgo Treviso, direzione Mura.

    Settembre 2011.

    Mario ha appena scritto il suo primo libro. Fuori con la musica.

    Dove raccontava un po’ della sua storia, del suo andare a suonare per mondi altrove.

    Per presentarlo ce ne andammo, invece, a Villa Chiminelli.

    Qualche chilometro fuori le Mura.

    Conciliammo diverse cose.

    Antiruggine aveva deciso di appoggiare la nostra campagna di adozione delle statue.

    I proventi della serata sarebbero andati a beneficio del restauro di una di queste.

    Fu la prima iniziativa importante di Bolasco Domani Onlus, la neonata associazione che aveva il compito di prendersi cura di Parco e Villa Bolasco.

    Serata ben riuscita, grazie anche alla collaborazione con il Conservatorio diretto da Paolo Troncon e alla voce recitante di Sandro Buzzati.

    Il 2012 è con il turbo.

    Tarda primavera.

    Premio Lago. Sezione Cultura. Mario Brunello, proposto dal sottoscritto e accettato per acclamazione dalla Giuria.

    Uno dei suoi radi ritorni sul palco del Teatro Accademico da cui aveva spiccato il suo volo internazionale, a metà degli anni ’80, con il Premio Tchaikovsky, a Mosca.

    Settembre.

    I fondi per Bolasco sono arrivati.

    Serviranno a riportare all’antico splendore anche le Statue.

    Tuttavia il gruzzoletto della serata a Villa Chiminelli era ancora ben custodito.

    Si riparte per un’altra impresa impossibile.

    Una campagna di sensibilizzazione per denunciare il grave stato di degrado delle nostre Mura.

    Antiruggine in pole position tra gli sponsor, assieme all’Ascom e a un importante studio professionale cittadino.

    Dicembre.

    Si va a inaugurare la Torre Civica.

    Una tappa importante di riappropriazione identitaria che coinvolge migliaia di cittadini.

    Stavolta non si tratta di andare nel deserto del Gobi o di inerpicarsi lungo le pendici del Monte Fuji.

    Mario e il suo Cello dalla livrea Rosso Ferrari risalgono le antiche scale per arrivare alla sommità della Torre.

    Mario si ferma spesso, quasi ad ascoltare, nel silenzio, le suggestive armonie figlie di un restauro perfetto.

    Sembra quasi suggerire alla sua seconda metà artistica di farsi venire qualche ispirazione tra le corde e la cassa armonica.

    Il piccolo concerto che ne è seguito; il backstage della troupe in varie riprese affaccendate è stato uno dei più bei regali ricevuti nel mio quasi lustro assessoriale.

    In tutto questo Antiruggine ha trovato anche il tempo di ospitarmi quale autore dei due libri dati alle stampe.

    Primavera 2010 (Il Gastronauta nel Veneto) e inverno 2014 (Passaggio a Nordest).

    Forse con Mario non abbiamo proprio fatto una cosa ogni anno come nelle nostre migliori intenzioni, ma certamente quelle descritte hanno un valore che penso di aver trasmesso ai quattro lettori di questa prosa di memoria appassionata.

    Quarant'anni di amicizia e di stima reciproca che, a seconda dei capitoli di vita, hanno sempre lasciato qualcosa.

    Adolescenti scatenati a vedere i rally e a inventarsi qualche bischerata divertente.

    Quando, Presidente del Rotary, diedi un aiuto significativo ai primi arredi del "capanon", Mario ricambiò con un bellissimo concerto entro il Chiostro dei Serviti, assieme a Giuliano Scabia.

    Da assessore abbiam detto.

    "Dal punto di vista della cultura, l’amministrazione uscente è stata persino capace di far fuori l’unico assessore che ha cercato di dare nuova vita agli eventi culturali della Città. È chiaro che non sono assolutamente d’accordo con le idee politiche di Giancarlo Saran, ma a lui va riconosciuto di aver fatto un grande lavoro per tentare di aprire Castelfranco all’esterno sul piano della cultura. Di aver lavorato anche assieme al nostro Conservatorio e al suo bravo Direttore Paolo Troncon e ad altre istituzioni culturali che sono la voce della città…"

    Ipse Dixit. Tribuna di Treviso. 11 giugno 2015.

    PREMIO CAMPIELLO

    Il giorno dopo essermi messo a scaldare la sedia da assessore c’era il problema di cosa fare, cosa inventarsi.

    È vero che il calendario culturale della Città può benissimo andare avanti da solo.

    La tradizione è ricca e consolidata, gli uffici rodati.

    Tuttavia credo sia umano che un pochettino di suo uno voglia mettercelo.

    Fine aprile permetteva di imbastire un po’ di collezione autunno-inverno.

    Soprattutto di disegnare un’architettura organizzativa per l’anno successivo, il 2011.

    Comunque qualcosetta ci si poteva inventare anche al momento.

    Tra i vari contatti della mia vita precedente c’era AlePi.

    AlePi, al tempo, era nel Comitato di gestione del Premio Campiello.

    Quello che oramai è considerato il più importante concorso letterario italiano tra le varie particolarità ha quello del Premio Selezione Campiello, ovvero la cinquina dei finalisti nominati a fine maggio che poi, in attesa della proclamazione del vincitore assoluto i primi di settembre nella inimitabile cornice del Teatro della Fenice a Venezia, si impegnano per due mesi in un tour letterario che li porta nelle principali località trivenete e nazionali: Cortina, Asiago, Forte dei Marmi, etc.

    Tentar non nuoce.

    Al massimo ti dicono di no.

    Ciao Ale, come va?

    Benissimo, complimenti, ho letto sui giornali della tua nuova avventura, posso fare qualcosa?

    Be', ci provo. Riesci a inserire Castelfranco tra le tappe del Selezione Campiello?

    Vediamo, forse un buchetto è rimasto

    Nel 2010 il Selezione era rodato, ambito, ma doveva ancora spiccare il volo sul piano nazionale che avvenne poi, negli anni a venire.

    Dopo una settimana, bingo!

    Eravamo addirittura la prima tappa del Tour.

    Presentazione ufficiale in grande spolvero, urbi et orbi, nella prestigiosa Aula Magna del Bo a Padova, in occasione della proclamazione, da parte della Giuria, dei cinque Finalisti.

    Conseguente il battesimo dell’evento: Campiello incontra Giorgione.

    Ennesima promozione, messa in rete con visibilità sul piano regionale e nazionale, del piatto forte dell’identità locale.

    Il simbolo di una Città, del suo territorio

    Campiello incontrò Giorgione per quattro anni di fila, dal 2010 al 2013, con piena soddisfazione reciproca.

    Addirittura, dalla nostra insider nel comitato organizzatore, ci giunse una soffiata.

    Per avere un feedback di quanto succedeva alla periferia del Premio, cioè nelle varie sedi di tappa, ogni volta veniva chiesto ai cinque finalisti di dare una sorta di pagellina al loro peregrinare letterario.

    La Città del Giorgione era sempre in pole position per gradimento.

    Non è che facessimo miracoli, oltre a cercar di essere ospiti cortesi e disponibili

    Semplicemente, in quella giornata che precedeva la serata al Teatro, li scarrozzavamo a vedere quel po’ (tanto) di bello che poteva offrire la nostra Città al di là del marchio di fabbrica del genio che dipinse la Pala.

    E vai con Bolasco (ancora in prerestauro), il Museo, il Campo da Golf.

    Abbiamo ancora adesso foto di noti nomi del bel scrivere nazionale che scorrazzano divertiti tra le 18 buche con la Golf Cart, quasi fosse una Lancia Stratos.

    Nel

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