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Donato Di Marzo – Giustino Fortunato. Carteggio 1891-1910
Donato Di Marzo – Giustino Fortunato. Carteggio 1891-1910
Donato Di Marzo – Giustino Fortunato. Carteggio 1891-1910
E-book1.034 pagine6 ore

Donato Di Marzo – Giustino Fortunato. Carteggio 1891-1910

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«Il ponderoso “carteggio” intercorso tra Donato Di Marzo e Giustino Fortunato, [...] copre il ventennio 1891-1910, un periodo particolarmente intenso della storia dell’Italia unita, che, segnato – come è noto – da una serie di grandi temi [...], fa da sfondo alfitto scambio epistolare intercorso fra i due uomini politici meridionali, che si distinsero per il loro coerente impegno ideologico-politico. [...] Due uomini diversi ma complementari, “fratelli di elezione”.
A cementare l’amicizia fra i due furono le loro idee politiche, la militanza nelle fila della Sinistra moderata e la convergenza delle loro posizioni sulle difficili scelte che l’Italia dovette affrontare negli anni compresi tra il trasformismo depretisiano, l’autoritarismo crispino, la crisi di fine secolo e l’età giolittiana» (Dalla Prefazione di Giovanni Brancaccio).
Il carteggio, composto da 255 missive il cui nucleo è costituito da 147 lettere inedite di Giustino Fortunato, è la storia della bella amicizia tra Fortunato ed il deputato avellinese Di Marzo, ma è anche soprattutto il ritratto di un'epoca decisiva per la storia italiana. Tra le varie questioni che emergono, inoltre, si segnalano lo scandalo della Banca Romana, ed il problema delle ferrovie ofantine, per la cui costruzione sia Fortunato che Di Marzo si spesero tanto.
 
Vincenzo Barra è dottore di ricerca in discipline storiche. Autore della monografia Oreste Mosca e il giornalismo italiano del Novecento, Elio Sellino Editore (2008), ha curato l'edizione critica del Carteggio Oreste Mosca – Giuseppe Prezzolini 1915-1975, per le Edizioni di Storia della Letteratura (2009). Attualmente è professore a contratto di Storia Contemporanea presso l'Università Telematica Pegaso, ed è iscritto al programmadi dottorato del Departemento de Historia Contemporànea y de Amèrica,presso l'Università di Santiago de Compostela (Santiago).
 
LinguaItaliano
Data di uscita1 apr 2020
ISBN9788835398943
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    Anteprima del libro

    Donato Di Marzo – Giustino Fortunato. Carteggio 1891-1910 - Vincenzo Barra

    Vincenzo Barra

    DONATO DI MARZO – GIUSTINO FORTUNATO. CARTEGGIO 1891-1910

    «La vita non è vita, se non ci si può riposare

    nel reciproco affetto di un amico»

    Cicerone, De Amicitia

    A Maurizio

    Collana di Storia del Mezzogiorno

    - 7 -

    Comitato scientifico:

    Francesco Barra, Giovanni Brancaccio, Aurelio Cernigliaro, Giuseppe Cirillo,

    Antonino De Francesco, Sebastiano Martelli, Luigi Mascilli Migliorini,

    Aurelio Musi, Luigino Rossi, Pietro Tino

    © Copyright Il Terebinto Edizioni

    Sede legale: via degli Imbimbo, n. 8, Scala E

    83100 Avellino

    tel. 340/6862179

    e-mail: ilterebintoedizioni@libero.it

    www.ilterebintoedizioni.com

    UUID: 4d4a8121-8c35-499d-8a2f-e75c2a965770

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice

    Prefazione

    Introduzione

    1891

    1892

    1893

    1894

    1895

    1896

    1897

    1898

    1899

    1900

    1901

    1902

    1903

    1904

    1905

    1906

    1908

    1909

    1910

    Appendice

    Note

    Prefazione

    Il ponderoso carteggio intercorso tra Donato Di Marzo e Giustino Fortunato, che Vincenzo Barra ci propone in questa pregevole edizione critica preceduta da una circostanziata Introduzione e corredata da un ricco e puntuale apparato di note esplicative, copre il ventennio 1891-1910, un periodo particolarmente intenso della storia dell’Italia unita, che, segnato – come è noto – da una serie di grandi temi (crisi economica, questione finanziaria, lotta politica e formazione dei partiti politici moderni, avanzata del movimento socialista e di quello cattolico, politica internazionale e disegno di espansione coloniale, scandalo della Banca Romana e questione morale, polemiche sul parlamentarismo, superamento della grande depressione, nascita di nuova politica liberale, età giolittiana, scomparsa del vecchio sistema creditizio-monetario e potere crescente della banca, industrializzazione, nazionalizzazione dei servizi pubblici, questione meridionale ed emigrazione di massa), fa da sfondo al fitto scambio epistolare intercorso fra i due uomini politici meridionali, che si distinsero per il loro coerente impegno ideologico-politico.

    In realtà, l’itinerario politico del Di Marzo aveva avuto inizio circa venti anni prima, quando il giovane avvocato, nato nel 1840 a Tufo, in provincia di Avellino, da un’agiata famiglia borghese, era stato eletto, nel 1873, consigliere provinciale nel collegio di Montefusco. Il Consiglio provinciale, del quale continuò a far parte fino al 1896, quando fu nominato senatore del Regno, rappresentò per il Di Marzo, come per numerosi uomini politici del Mezzogiorno, non solo la palestra della sua formazione ed azione politica, il luogo della orditura di una trama di relazioni funzionali al consolidamento del suo ruolo politico a livello locale, quanto il trampolino di lancio per il Parlamento. Nel Consiglio provinciale il Di Marzo si legò infatti a Michele Capozzi, il re Michele de Il viaggio elettorale di Francesco De Sanctis, uomo di grande potere e dominatore incontrastato della Deputazione provinciale, artefice di una ramificata ed incisiva rete clientelare. Divenuto parte integrante di quell’apparato – i comuni interessi politici ed economico-finanziari che legarono il Di Marzo al Capozzi sarebbero stati poi sanciti sul finire del secolo dal matrimonio di Adelia, figlia del Capozzi, con Vito, nipote del Di Marzo – il Di Marzo, pur conservando piena autonomia di azione, si avvalse di quell’infallibile organismo, per bruciare le tappe della sua carriera politica e per assicurarsi una solida base elettorale. Esponente della Sinistra moderata, favorevole al governo Depretis, il Di Marzo infatti, nonostante l’opposizione del Nicotera, che sostenne la candidatura del generale Domenico Primerano, fu eletto al Parlamento nazionale con oltre 5mila voti nelle elezioni tenutesi nell’ottobre del 1882, sulla base della riforma elettorale varata quell’anno, che portò il numero degli elettori da 600mila a oltre due milioni.

    L’elezione al Parlamento, salutata favorevolmente dalla stampa irpina, non significò da parte del Di Marzo – come si è detto – la rinuncia alla carica di consigliere provinciale. Quella opzione, che fu comune a larga parte della classe politica meridionale, fu dettata in lui dall’esigenza di rafforzare le proprie posizioni di potere e di prestigio, di rendere più stabili e proficui i legami con i ceti che rappresentava, di porsi insomma come mediatore dei diversi interessi e gruppi di pressione di cui era espressione, e fu soprattutto legata alla necessità di esercitare il controllo della gestione dell’amministrazione provinciale, cui lo Stato aveva riconosciuto varie competenze (strade, ospedali, scuole, lavori pubblici, ecc.), in modo da porsi come elemento di raccordo tra potere centrale e potere locale.

    Sono questi alcuni dei punti di maggiore interesse che emergono dal profilo biografico-politico del Di Marzo tracciato da Vincenzo Barra nella Introduzione. E’ un merito del curatore aver posto in evidenza la forte amicizia che legò Giustino Fortunato a Donato di Marzo e alla sua famiglia, testimoniata dalle numerose missive indirizzate non soltanto al suo collega irpino – si tratta di un corpo di ben 147 lettere –, ma anche al fratello Michele e al nipote Vito, con il quale lo scrittore e uomo politico lucano fu in contatto epistolare fino al 1927. Del Di Marzo il Fortunato apprezzava il rigore morale, l’equilibrio, la serenità e la pacatezza d’animo, elementi che contrastavano con il suo carattere tormentato, talvolta addirittura indeciso. Il Di Marzo era invece affascinato dall’eloquio forbito del Fortunato, dalla sua prosa elegante e nitida, dal suo alto pensiero politico, dalle sue battaglie condotte in Parlamento, dal suo meridionalismo, dalla profonda conoscenza della realtà del Mezzogiorno, che aveva analizzato in tutta la sua complessità (geologica, storica ed economico-sociale), così da superare la tradizionale immagine di un paese fertile e povero a causa del malgoverno e da elaborare quella di un paese ingrato e povero per la sua natura. Il carattere malinconico, l’ipocondria e la pigrizia del Di Marzo contrastavano con lo scetticismo, il cinismo e l’attivismo del Fortunato (grande camminatore e amante della bicicletta). Due uomini diversi ma complementari, fratelli di elezione. A cementare l’amicizia fra i due furono le loro idee politiche, la militanza nelle fila della Sinistra moderata e la convergenza delle loro posizioni sulle difficili scelte che l’Italia dovette affrontare negli anni compresi tra il trasformismo depretisiano, l’autoritarismo crispino, la crisi di fine secolo e l’età giolittiana.

    Lo scandalo della Banca Romana, scoppiato a seguito dell’inchiesta amministrativa sulle banche di emissione condotta dalla commissione Alvisi-Biagini, che provò l’esistenza di gravi irregolarità contabili nella gestione della banca, l’emissione abusiva di cartamoneta, che alterò il limite legale della circolazione, e un vuoto di cassa di oltre 20 milioni di lire, l’arresto del senatore Tanlongo e del cassiere Lazzaroni, la richiesta di autorizzazione a procedere concessa dalla Camera contro il deputato Rocco De Zerbi, accusato di corruzione e la sua sospetta morte improvvisa, i pesanti indizi gravanti su altri uomini politici di primo piano e sullo stesso Giolitti furono tutti elementi che destarono un forte turbamento nell’opinione pubblica ed uno stato di profonda agitazione nel mondo politico italiano.

    Già carico di tensioni, il clima politico divenne incandescente, quando il Comitato dei sette deputati, nominato dal presidente della Camera Zanardelli, per approfondire le indagini, espose in Parlamento (novembre del 1893) i risultati dei suoi lavori. Quale fu la condotta politica del Di Marzo e del Fortunato in quel momento così difficile della vita del paese, i cui clamorosi strascichi continuarono nei due anni seguenti? Alla loro prima reazione, segnata da una marcata indignazione mista ad un sincero senso di sconforto e disagio, che si espresse nella loro durissima condanna del diffuso malcostume e del dilagante affarismo, che avevano creato un’atmosfera pestilenziale nel parlamento e suscitato nel paese un profondo malcontento nei riguardi dell’intera classe politica accusata di corruzione, seguì un giudizio più ponderato, che spinse i due uomini politici ad assumere un’aperta difesa delle istituzioni, a stigmatizzare il fustigante giudizio di quanti, come il Labriola, consideravano la Camera un’accolta di ladri. Critica rimaneva invece l’opinione nei confronti di Giolitti, definito dal Fortunato una figura con non poche ombre ed ambiguità.

    Ma fu sulla questione ferroviaria che le posizioni del Di Marzo e del Fortunato coincisero pienamente. Per entrambi la ferrovia era un fattore di civiltà e di progresso in grado di realizzare fino in fondo l’unità nazionale. Rappresentanti politici di due fra le aree più depresse del Mezzogiorno, Di Marzo e Fortunato accordarono un posto preminente alle opere pubbliche, in particolare alla costruzione di un’articolata rete stradale e ferroviaria capace di spezzare l’isolamento di interi circondari sia dell’Irpinia che della Basilicata. C’era in loro la convinzione che se si voleva sviluppare l’economia locale, allargare il raggio degli scambi, liberare energie ed attenuare il malcontento sociale, dando lavoro ai numerosi disoccupati, bisognava puntare soprattutto sulle strade ferrate.

    Né al Di Marzo e al Fortunato sfuggivano le opportunità di natura economico-finanziaria legate alla costruzione della rete ferroviaria, nonché si intende, quelle di ordine politico-elettorale, funzionali al consolidamento di una più vasta rete di consenso. E, del resto, le forze politiche locali meridionali fecero ricorso a qualsiasi mezzo pur di ottenere che la strada ferrata attraversasse il territorio dei propri collegi elettorali.

    In realtà, per il fatto che la questione ferroviaria assurgesse a motivo centrale della lotta politica nazionale, ad indicatore del modello di sviluppo capitalistico del paese, nei collegi locali e nelle deputazioni provinciali si accesero appassionati dibattiti, che però finirono per accentuare il municipalismo e le chiusure localistiche.Il passaggio del treno determinò infatti nuovi equilibri e gerarchie territoriali, dai quali derivarono talvolta l’ascesa e la caduta politica di rappresentanti locali del ceto politico, ma anche di deputati famosi. Si pensi, ad esempio, alle accuse mosse al De Sanctis nel suo collegio natale, per non aver prestato la dovuta attenzione al problema ferroviario. Si trattò di vicende se non giustificabili, almeno in parte comprensibili se si valutano la dislocazione delle risorse e i flussi di merci e di uomini, ma anche le specializzazioni tecnico-professionali connesse alla realizzazione dei tracciati ferroviari.

    E’ significativo come all’instancabile impegno profuso a livello parlamentare dai due uomini politici per il varo della legge sulle Ferrovie Ofantine e per lo stanziamento da parte dello Stato dei fondi necessari alla loro costruzione corrispondesse l’infittirsi, addirittura febbrile, del loro scambio epistolare. La lettura di quelle lettere, sulle quali si sofferma l’attenzione di Vincenzo Barra, fa luce sul difficile rapporto tra lo Stato e i gruppi finanziari privati, sulle difficoltà economiche e tecniche, che resero ancora più ardua l’attuazione dei vari progetti relativi alle linee trasversali, molti dei quali furono peraltro abbandonati, e soprattutto chiarisce la spietata concorrenza municipale, che diede origine alla fondazione di comitati antagonisti che coinvolsero la stampa locale, ma anche i violenti contrasti interni ai Consigli provinciali di Avellino e di Potenza, le risicate disponibilità finanziarie delle due province, le forti diatribe sui tracciati, che scemarono solo dopo la promulgazione (febbraio 1886) del decreto legge sulla costruzione dell’Ofantina, che collegava Avellino a Rocchetta S. Antonio.

    A quel risultato si giunse grazie alle abili capacità di mediazione mostrate dal Di Marzo negli incontri avuti con il ministro dei Lavori pubblici, Francesco Genala, sul quale esercitò contemporaneamente una discreta pressione anche Michele Capozzi. Affidati alla Società per le strade ferrate mediterranee, i lavori di costruzione del tronco Avellino-Rocchetta S. Antonio terminarono soltanto nel 1895, mentre quelli della tratta Rionero-Potenza furono ultimati due anni dopo nel 1897. Si trattava di due tronchi di difficile realizzazione, data la particolare conformazione del territorio caratterizzato da forti dislivelli, che richiese l’uso di mezzi tecnici moderni. E, certamente, il Di Marzo legò il suo nome allo sviluppo della rete ferroviaria nell’Avellinese, che divenne il tratto distintivo della sua carriera politica.

    L’arrivo della strada ferrata pose, tuttavia, solo parzialmente fine all’isolamento dell’intera provincia, che con la precedente costruzione della Napoli-Benevento-Foggia era stata privata della sua antica funzione di tramite viario e commerciale tra Napoli e la Puglia; né la ferrovia fece da volano alla sua economia. L’Irpinia rimase insieme con la Basilicata fra le aree più arretrate del paese. In realtà, il divario tra Nord e Sud si fece allora ancora più netto. La divaricazione delle strutture economico-sociali tra le due macroaree della penisola si accentuò, aggravando anche il quadro politico delle regioni meridionali.

    In una sua lettera del settembre del 1899 diretta a Pasquale Villari, il Fortunato così osservava: Il Mezzogiorno dopo i moti di Sicilia e di Milano non finge più: vuole un governo assoluto, lieto che oggi l’Italia sia comandata da un generale imposto alla camera dalla volontà del Re. Più e meglio trionferanno i partiti popolari nel Settentrione e più la classe dominante nel Mezzogiorno sarà per un governo di reazione e di violenza. L’abisso tra Nord e Sud, anche per questo, si andrà sempre più allargando. C’era in quelle parole tutta la carica del moralismo pessimista e dello scetticismo del pensatore lucano, che espresse le stesse preoccupate considerazioni all’amico Di Marzo, che intanto era stato nominato, nel 1896, senatore.

    Nei quindici anni in cui ricoprì quell’incarico, il Di Marzo, che scomparve all’improvviso nel 1911, lasciando suo erede politico il nipote Alberto, continuò ad improntare la sua partecipazione alla vita politica dello stesso impegno morale, che aveva manifestato durante la sua lunga attività politica e che – come si è visto – era stato l’elemento principale che lo aveva accomunato al Fortunato. Quest’ultimo, dopo la crisi di fine secolo, si allontanò dalle simpatie per gli interventi dello Stato, per convertirsi ad uno stanco e scorato liberismo. Il sistema misto delle convenzioni, fondato sull’intreccio finanziario fra lo Stato e le società concessionarie private, sulla cui base si era potuto realizzare il progetto della costruzione delle linee ferroviarie Ofantine, appariva al politico lucano ormai superato, e ciò mentre il mondo politico italiano sembrava orientato a sostenere l’esercizio pubblico, la statizzazione delle ferrovie.

    A tutti questi problemi sono dedicate le pagine introduttive di Vincenzo Barra, al quale va il merito di aver saputo delineare un ritratto convincente di una personalità complessa come quella del Di Marzo e di aver sistemato con accuratezza e rigore la ricca corrispondenza epistolare che lo legò a Giustino Fortunato.

    Giovanni Brancaccio

    Introduzione

    1. Donato Di Marzo ed il suo Archivio

    Donato Di Marzo, possidente ed industriale, fu un’importante e significativa figura della vita economico-sociale, prima ancora che politica, dell’Irpinia post-unitaria. Oltre che per le sue vicende politiche, anche fisicamente sembrava incarnare e riunire in sé i caratteri tipici del notabile del Meridione d’Italia: basso di statura, piuttosto corpulento e robusto, con l’accento, la veemenza e la vivacità del meridionale.

    Nato il 7 agosto 1840[1] a Tufo (Avellino), da don Pasquale e donna Luigia Piscopo, appena laureatosi in legge a Napoli andò a stabilirsi nella città di Avellino, dove esercitò brevemente l’avvocatura per poi intraprendere decisamente la strada della carriera politico-amministrativa, facendosi eleggere al Consiglio provinciale di Avellino per il collegio di Montefusco dal 1873 al 1896. Non a caso fu proprio nel Consiglio provinciale, organo che dopo l’Unità venne chiamato a svolgere nuove ed importanti funzioni e che assunse un ruolo politico di raccordo tra potere centrale e locale, che il Di Marzo iniziò con successo a muovere i primi passi della sua vita politica, fino a divenirne una delle più spiccate personalità. Come per tutta la classe dirigente liberale che aspirava alla deputazione nazionale, anche per Donato Di Marzo fu proprio il Consiglio provinciale a costituire il trampolino di lancio ed il passaggio obbligato verso il Parlamento.

    Presentandosi, dopo quasi dieci anni di deputazione provinciale, alle elezioni nazionali del 29 ottobre 1882 per il Collegio di Avellino, nella lettera programmatica indirizzata agli elettori poteva ben scrivere[2]:

    Quello che io valgo, non è dato a me rilevare, perché, nato e vissuto in mezzo a voi, tutti gli atti della mia vita sono a voi noti; come noto vi è in qual modo e con quale sentimento io abbia sempre corrisposto a’ non pochi pubblici uffizii, cui, per tempo, venni assunto dal libero vostro suffragio. Il migliore programma, a parer mio, è la vita stessa del cittadino, al quale s’intende affidare la rappresentanza […].

    Da subito proponeva la sua come una candidatura ministeriale e, affermando la sua piena adesione alla formula «Monarchia di Savoia e Progresso, quella che guidò la Sinistra nelle lotte parlamentari, e che ne informò gli atti, quando, nel 1876, venne chiamata al Governo», sottolineava: «conforme ad essa [formula], perché fedele al mio passato, io fo adesione al programma ministeriale, che sosterrei, se eletto, del mio voto».

    Pur convinto che «il migliore programma [...] è la vita stessa del cittadino al quale s’intende affidare la rappresentanza», egli si sforzava poi di articolare i principali concetti del suo indirizzo politico di candidato ministeriale, favorevole al governo Depretis, sia per fedeltà alla sua storia politica personale di adesione alla Sinistra, sia per il patriottico dovere di assicurare alla patria un governo «forte e illuminato». Di Marzo assicurava, inoltre, di farsi portavoce dei bisogni e gli interessi del Collegio e della Provincia, in particolar modo ritenendo come problemi più urgenti «le costruzioni ferroviarie, per ravvivare i traffici, e la sistemazione de’ corsi d’acque, per scongiurare tanti danni alle nostre valli». Dalla sua esperienza nell’amministrazione della provincia considerava «tra le riforme più importanti […] esser quella, cui sia dato sottrarre la pubbliche Amministrazioni dalle illegittime, perniciose influenze della politica, le quali, turbandone il sano andamento, sostituiscono, non di rado, il favoritismo alla giustizia». Inoltre, affermava, «dimorando in mezza a voi, io sarei in gradi di tutelare prontamente, se manomessi, i vostri diritti, e sostenere validamente, se giusti e legittimi, i vostri reclami». In continuità col suo lavoro nel Consiglio provinciale poi, era l’impegno per le costruzioni ferroviarie nella Provincia di Avellino e l’attenzione al sistema scolastico[3]:

    Poiché non vi può essere civiltà né progresso se non tra popoli, che alla istruzione sappiano unire una efficace educazione, così io mi dichiaro favorevole alla dipendenza dal Governo delle scuole elementari e all’avocazione da parte sua della nomina degli insegnanti, di questi modesti apostoli, che solo in tal guisa potrebbero esser sottratti alle passioni delle mobili maggioranze de’ Consigli comunali.

    La sua candidatura fu osteggiata fin dall’inizio da Giovanni Nicotera, tanto che in un primo momento Di Marzo vi rinunciò. Era infatti stato messo a parte di alcune lettere segrete del Nicotera, che così caldeggiava la candidatura del generale Primerano per il collegio di Avellino[4]:

    Carissimo ed egregio Amico,

    Debbo porre a nuova pruova il vostro affetto per me. È imminente per voi la scelta di un nuovo deputato; e la necessità di poter contribuire alla soluzione del problema militare, al quale tanto e si interessa il paese, mi consiglia di proporvi e raccomandarvi la candidatura del generale Domenico Primerano, già segretario generale per la guerra nel ministero di cui feci parte; è distintissimo militare e conosciuto e stimato nella Camera perché altre volte deputato.

    A mio avviso, ed anche premurato da autorevoli amici comuni, il generale Primerano saprebbe corrispondere non solo alle esigenze della situazione politica attuale, ma saprebbe altresì rappresentare con autorità gli interessi peculiari del collegio vostro.

    Venuto a conoscenza del progetto del potente barone, Di Marzo rinunciò in principio alla sua candidatura, rispondendo con la lettera[5] seguente all’amico di Forino che gli aveva di nascosto fatto conoscere le missive di Nicotera:

    Carissimo Amico,

    Ti ringrazio della sincera e schietta dimostrazione di amicizia che mi hai dato, e della confidenza ch’hai per me. Io te ne sarò riconoscentissimo, anzi obbligato.

    Dalla lettera dell’onorevole Nicotera ho compreso quali sono gl’impegni presi e chi gl’impegnati. Del resto io resto sempre fermo nei miei principii di non volere essere elemento di discordia in mezzo alla mia cittadinanza; perciò ieri stesso deliberai di non aspirare per ora a sì nobile mandato; cosicché puoi assicurare l’egregio barone Nicotera ch’io ho declinato alla candidatura in questo collegio.

    Tuttavia, nonostante l’incertezza iniziale, alla fine Di Marzo si decise a porre ufficialmente la sua candidatura. Nella già citata lettera indirizzata agli elettori non ostentava nessuna spocchiosa sicurezza ma anzi non nascondeva tutta la sua trepidanza per il passo che si accingeva a compiere:

    Non senza trepidanza io mi presento candidato alla deputazione politica di questo 1° Collegio della provincia, perché io non so se m’abbia titoli sufficienti per meritare la vostra fiducia: ben conosco quanto sia arduo il mandato, che io vi chieggo; il quale, mentre conferisce il maggiore onore, cui possa aspirare un cittadino, impone obblighi gravissimi, al cui adempimento non bastano solo eletta intelligenza e larga coltura, ma occorrono anche tenacità di propositi, integrità di carattere, assiduità e prontezza di lavoro.

    La stampa di opposizione ad Avellino riconobbe i meriti del Di Marzo negli anni della sua vita pubblica, nonché una certa imparzialità ed indipendenza di giudizio da Michele Capozzi: «[Di Marzo] è, forse, l’unico consigliere che spinge a ben fare [...], ha saputo serbare una condotta irreprensibile ed una certa tal quale indipendenza col non sanzionare alcuno atto non troppo retto del Consiglio provinciale, perlocché non è stato insignito di tutte quelle onorificenze che merita»[6]. Tuttavia molti lo ritenevano inadatto per il compito per cui si proponeva, essendo ancora troppo giovane e di scarsa esperienza politica. Per il Collegio di Avellino era necessario un deputato sperimentato e dal passato affidabile:

    Egli, diciamola schietta, dovrebbe acquistare quella raffinatezza che solo la esperienza di molti anni di vita politica può dare. Egli è troppo giovane, è ancora un fanciullo che per affermarsi cristiano ha da essere battezzato; ed il battesimo per lui è la esperienza nei fatti della vita pubblica. Ed ora dimandiamo: sarebbe stato il di Marzo un uomo richiesto dalla posizione in cui versa attualmente il nostro Collegio il quale à dei bisogni di gran momento ed impellenti? Rispondiamo francamente: no [...]

    La questione della giovane età diventava invece un punto di forza ed un pregio nelle parole di un’altra parte della stampa locale, che faceva del Di Marzo il topos del giovane virtuoso che, pur potendo pensare solo a godersi la vita, rinuncia a tutto per amore della patria e sacrifica il suo personale interesse sull’altare degli studi e dei grandi valori patriottici. Svelando perciò il giornale quei «certi pregi [che] vivono in lui una vita intima, secreta – che nessuno o pochi indagano – e perciò nascosti», ricordava come Di Marzo:

    a 22 anni fu laureato nelle scienze giuridiche. Di famiglia nobile per tradizione e per censo – carezzato dai comodi più larghi della fortuna – sorriso da una vita che avrebbe potuto crearsi ricca di piaceri e smagliante nelle attrattive che soddisfano i più vivi desideri giovanili – tentato e combattuto da essa, non cedette.

    Né la via, se ardua, al certo brillantissima del Foro lo sedusse – dominò la baldanza e gli spiriti entusiastici e giovani, che pure fervevano in lui, e compì un atto il quale è una importante rivelazione del carattere e delle aspirazioni di lui. Ritornò nelle sale universitarie e ripercorse il vasto campo della scienza, attiratovi da bellezze non vane, non effimere e da un desiderio nobile e sereno. E per altri quattro anni visse in un ambiente, splendido delle dottrine di professori [...]. Dopo ritornò in provincia ricco di cultura varia e non superficiale; e, poiché la scienza è vastissima, infinita [...], ritornò agli studii e s’internò colla mente calma – non distratto da alcuno interesse fuor di quello di compiere il più sublime mandato verso se stesso – negli svariati campi scientifici ed arricchì l’intelligenza d’una erudizione invidiabile e l’animo de’ sentimenti che desta la conoscenza della natura. Il giovane s’era ribellato alle vaghe ma, quasi sempre, infondate aspirazioni della giovinezza e le aveva dominate [...].

    Ma nel momento d’inaugurare uno stadio di vita brillantissima e di cogliere l’alloro delle fatiche giovanili con tanto plauso sostenute, la vita pubblica lo trattenne; ed egli non la respinse, anzi con generosa abnegazione si donò interamente ad esse. [7]

    Eletto – «quando nessuno se l’aspettava, e, forse, precisamente per questo»[8] avrebbe scritto malignamente «Il Popolo Irpino» un decennio dopo – Di Marzo entrò quindi per la prima volta alla Camera a 42 anni, sempre mantenendo il suo impegno anche in Consiglio provinciale, in seno al quale si era costruita la sua ascesa politica. Subito anzi il Consiglio provinciale investì il nuovo deputato politico dell’incarico di patrocinare a Roma la causa delle ferrovie irpine, chiamandolo, insieme a Capozzi, a prendere il posto del dimissionario De Sanctis e dello scomparso Villani in seno alla commissione provinciale per le ferrovie per il circondario di Avellino[9].

    Il 29 ottobre 1882, in quelle prime elezioni a scrutinio di lista, Di Marzo ebbe con 5004 voti un’ottima affermazione personale. Sempre poi rieletto per tre Legislature, mantenne il proprio posto al Consiglio provinciale per tutto il corso della sua vita politica finché, nel 1896, fu nominato senatore. Tra i banchi della Camera era diventato, inoltre, intimo amico di Giustino Fortunato. Politicamente Donato Di Marzo si schierò con Zanardelli e sedé tra i banchi della sinistra moderata, ma si mantenne accuratamente al di fuori dalle rivalità e dalle lotte di partito e appoggiò sempre il governo senza però esercitare una grande influenza alla Camera, dove del resto, non era fra i più assidui. Nella sua attività di deputato si spese moltissimo essenzialmente per la costruzione delle strade ferrate[10] che interessavano la sua provincia natale: l’Avellino-Benevento; l’Avellino-Santa Venere; l’Avellino-Baiano-Napoli e la Cancello-Benevento.

    Ritiratosi alle elezioni del 1895 con una lettera di congedo[11] dagli elettori del Collegio di Avellino, il governo Di Rudinì lo nominò senatore del Regno nel 1896, facendolo così uscire definitivamente dall’agone politico. Fra i più giovani che sedevano nella Camera Alta, continuò a partecipare attivamente ai lavori parlamentari soprattutto in qualità di membro di varie commissioni, come quella d’inchiesta sull’organizzazione della Marina militare (dal 1904 al 1909) e la commissione finanze (1908-1911). Fu inoltre commissario di vigilanza all’Amministrazione delle Ferrovie dello Stato (1909-1911).

    Il 9 febbraio 1911 Donato Di Marzo moriva improvvisamente, alla vigilia della guerra di Libia e solo qualche anno prima di quella Grande Guerra che avrebbe segnato la fine dell’Italia liberale, lasciando come suo erede politico il nipote Alberto, già deputato dal 1909.

    Parte dell’Archivio Di Marzo, archivio privato e di natura essenzialmente familiare, è custodito dal 2007 dal Centro di Ricerca «Guido Dorso» di Avellino, ad esso affidato dal Principe Filippo Di Somma, erede della famiglia Di Marzo. Il materiale attualmente conservato al Centro «Dorso» risulta composto essenzialmente da corrispondenze, una parte delle quali si riferisce all’attività politica di Donato Di Marzo, mentre un’altra riguarda le vicende private sue e dei suoi familiari.

    Alle lettere politiche appartengono le missive e telegrammi ricevuti da Donato Di Marzo tra il 1887 e il 1907 da parte di molti esponenti politici di spicco, sia a livello nazionale che provinciale, come Zanardelli, Giolitti, Del Balzo, Depretis, De Luca, Crispi, Tedesco ed altri. Questa documentazione inedita aiuta a ricostruire il contesto politico del tempo, a livello locale e nazionale, mostrando dall’interno l’intreccio di rapporti di amicizie e inimicizie politiche. Della corrispondenza familiare di Donato, invece, fanno invece parte le missive con i nipoti Alberto e Vito[12].

    2. Storia di un’amicizia: il carteggio con Giustino Fortunato

    Il vero nucleo principale dell’Archivio Di Marzo è sicuramente il carteggio che qui si presenta, finora inedito, tra Donato Di Marzo e Giustino Fortunato, del quale l’esponente politico irpino fu intimo amico, sia personale che politico.

    Le missive del grande meridionalista a Donato Di Marzo, reperite e qui pubblicate, sono 147 per un periodo che va dal 1891 al 1910; soltanto 25, purtroppo, sono invece le minute delle lettere del Di Marzo a Fortunato. Il carteggio include inoltre la corrispondenza di Fortunato con altri membri della famiglia Di Marzo: 22 lettere scambiate tra Fortunato e Michele Di Marzo, fratello di Donato tra il 1894 e il 1904; 38 lettere tra Fortunato e Vito Di Marzo, nipote di Donato, in un arco di tempo che inizia nel 1894, si intensifica nel periodo successivo alla morte di Donato, nel 1911, e prosegue fino al 1927.

    L’epistolario è estremamente illuminante circa la particolare psicologia e personalità del Fortunato, che si rivela appieno nelle lunghe e appassionate missive all’amico. I due si incontrarono la prima volta tra i tavolini del «Gran Caffè» a Napoli (lettera 105), ma la loro conoscenza si trasformò in amicizia, probabilmente, nel 1882 sui banchi della Camera, dove Fortunato sedeva già dal 1880. Vi era tra loro una grande differenza di carattere ma allo stesso tempo una affinità elettiva che col tempo si andò consolidando sempre di più. Profondo conoscitore dell’animo umano, perché inesorabile e implacabile indagatore di sé stesso, Fortunato, più giovane di otto anni, seppe penetrare e superare le apparenti austerità e freddezza del Di Marzo, che molti invece scambiavano per superbia aristocratica, e che altro non erano se non la manifestazione più esteriore e superficiale del suo carattere riflessivo e sensibile. Per stessa ammissione di Fortunato, nei primi anni della loro conoscenza l’amicizia tra i due aveva come presupposto un rapporto di forze che poi si era rivelato ingannevole: «[…] Io t’ho conosciuto, ne’ primi begli anni della nostra vita parlamentare, durante i quali io mi credevo tanto più forte di te, io!». Invece nel corso del tempo Fortunato si scoprì sempre più affascinato, lui dal carattere perennemente tormentato ed indeciso, dall’equilibrio, dalla serenità e dalla pacatezza del Di Marzo. Commentando una sua fotografia, così Fortunato descriveva, non senza ironia, se stesso e il suo mondo interiore all’amico (lettera 133):

    [...] io avrei fatto a meno della mia fotografia, che a me, con quella cera di chi è torturato da un desiderio senza compimento, di chi vuole liberar la mente da una preoccupazione assidua, di chi, insomma, mostra l’occhio vagante in cerca di qualcosa che ha smarrito, a me, tu sai, non piace. Ha l’aria, non so, di uno, che spesso sia vinto dall’abbattimento molesto delle ore perdute, che spesso mormori a se stesso: «mai, mai più potrò nulla!»

    Ben altre disposizioni, invece, egli intravedeva dalla fotografia del Di Marzo, tracciandone un significativo ritratto:

    La tua, al contrario, così come io l’ho qui dinnanzi sul tavolo da sette anni […], col tuo sorriso espansivo della bella e buona salute, co’ tuoi occhi vividi e indagatori, che rivelano la serenità diventata carattere, temperamento, sangue, tanto da aver la convinzione della propria sicurezza, la tua fotografia, così vivamente bonaria ed energica, né solo della energia de’ muscoli, ma di quella ancora dell’intelletto e della coscienza, mi conforta l’animo, soggiogandolo. È una testa risoluta, netta, eppur tanto chiara, sincera, leale, che mette intorno un accento di vita pronta e facile, non come un ideale da raggiungere, ma come una realtà da godere, giorno per giorno, una nota di salda padronanza, di gagliarda pacatezza, sempre uguale a se stessa, indulgente, equanime, pietosa, senza cattiverìe e senza morbosità, certa di non aver mai né di potere mai smarrire la strada, attraverso il mondo. Non è il tuo uno di quei ritratti, che tradiscono gli scoppi incomposti e brevi della passione: su quel viso aperto, franco, è segnato l’equilibrio, o, meglio, l’abito dell’equilibrio della mente, lungo e costante, che non ha mai avuto fastidio da’ nervi, che trae la sua origine dalle sorgenti ricche di vitalità, dalla potente armonia dell’organismo, assoluto e rigido signore della propria volontà, libero di ogni fantasticheria, di ogni morbidezza di uomo debole e malaticcio.

    Al che Di Marzo ricambiava disegnando egli stesso un ritratto, ironico ma anche preciso e veritiero, di Fortunato e del suo carattere, tanto che questi non poteva fare a meno di riconoscersi nelle parole dell’amico. Di Marzo scriveva infatti di Giustino Fortunato (lettera 178):

    Impulsivo. Spesso porta odii istantanei e risoluzione di propositi fermi, che non mantiene, e che quindi non conferiscono alla coerenza del carattere, ma che piuttosto confinano con la caparbietà superbiosa. Corrivo a imbronciarsi anche per piccole cose, che non interpreta nella verità loro. Soggiace alle impressioni. È vanaglorioso, ma diffidentissimo di sé. Piacevolissimo nella conversazione, facile nel rispondere, umorista spesso mordace, gioviale, infantile alle volte. Mente più coordinatrice che inventiva, intuito pronto e comprensivo, temperamento di artista. Sente più che non ragioni. Per questo rende tutto con lucidità meravigliosa. Per questo è amico sincero, fedele, generoso.

    Diversi per carattere e inclinazioni, eppure complementari per molti versi, Giustino Fortunato e Donato Di Marzo riconobbero l’uno nell’altro l’amico fedele e sincero, fino a divenire pur «isolati nel pensiero e ognuno vivendo per proprio conto, […] fratelli di elezione; […] due fratelli, i quali oramai si capiscono a una intonazione, a un batter di palpebre, a un solo movimento di pupille» (lettera 133). Questa amicizia, che come ogni vera amicizia è gratuita e immeritata, non poteva non stupire entrambi, che più volte se ne domandavano l’origine profonda (lettera 179):

    [...] queste tue lettere sono la riconferma patente e manifesta di ciò che io sapevo, di ciò che io sentivo da tempo, ormai. E la solita dimanda mi è tornata, segretamente, sulle labbra: «ecco il solo, l’unico uomo, a cui io mi sia sottomesso di moto libero, interamente, conformando alla volontà sua la mia per natural dipendenza di tutta la mia persona; il solo e l’unico, che assoggettandomi senza violenza, ma pure con autorità assoluta, mi abbia indotto e mi induca, senza nulla dire, senza nulla fare, non imponendomisi, non comandando, a seguirlo, ad obbedirlo, con docilità di mente, con prontezza e fervore sincerissimo del cuore: perché?» Anche tu, se rammenti, nell’ultimo tuo soggiorno in Roma, una sera, al Caffè Colonna, mi chiedevi: «perché il tuo affetto?» E io ti risposi il vero: «non so!» Anche ora io mi ripeto: «non so, non so».

    A ravvicinare le due personalità, oltre la vita alla Camera e la consuetudine di

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