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La supplica: Discorso famigliare a quelli che trattano de' comici
La supplica: Discorso famigliare a quelli che trattano de' comici
La supplica: Discorso famigliare a quelli che trattano de' comici
E-book316 pagine4 ore

La supplica: Discorso famigliare a quelli che trattano de' comici

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Info su questo ebook

“La supplica” che Nicolò Barbieri, nato a Vercelli nel 1576, rivolge «a quelli che scrivendo o parlando trattano de’ comici» è forse l’opera fondamentale per comprendere dall’interno quel complesso fenomeno che è la commedia dell’arte. Scritta dopo le difese dell’arte comica di attori famosi, quali Pier Maria Cecchini e Giovan Battista Andreini, “La supplica” - che nelle sue diverse edizioni ebbe lettori di tutta Europa - da un lato riassume le argomentazioni fondamentali in difesa della commedia dell’arte, dall’altro imposta già il problema del valore dell’arte dell’attore e del significato della sua professione nel contesto culturale dell’età barocca. Non è un caso che anche il Corneille de “L’illusion comique” riecheggi l’argomentare del Barbieri. L’edizione qui presentata offre, oltre al testo dell’editio princeps de “La supplica”, le varianti d’autore attraverso cui Barbieri, passando da un’edizione all’altra, bilancia e talvolta attenua la polemica del suo «discorso famigliare». Il lavoro critico di Ferdinando Taviani permette di osservare da vicino la vita e l’arte dei cominci.
LinguaItaliano
EditoreCue Press
Data di uscita27 gen 2015
ISBN9788898442317
La supplica: Discorso famigliare a quelli che trattano de' comici

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    Anteprima del libro

    La supplica - Nicolò Barbieri

    LA SUPPLICA

    © 2015 Cue Press

    via Aspromonte 16a, 40026 Imola, Italia, cuepress.com

    ISBN 978-88-98442-31-7

    Direzione

    Mattia Visani

    Studio critico, note, varianti

    Ferdinando Taviani

    Copertina

    Jacques Callot

    I balli di Sfessania

    © 1971

    Il Polifilo

    Indice

    Introduzione di Ferdinando Taviani

    La supplica di Nicolò Barbieri

    Nota al testo e appendici

    Note e glossario

    Introduzione

    di Ferdinando Taviani

    I. «Barberis Nicolò, cittadino di Vercelli, da altri detto Barberio, fu uomo ornato di belle lettere e dotato di un ingegno pronto e vivace. Questo, partitosi da Vercelli, si abbatté a caso in una compagnia di comici, i quali vedendo il giovane molto atto alla loro professione, l’accettarono volentieri. Indi dategli le regole necessarie riuscì eccellente in detta arte comica: fu tra la Compagnia de’ Confidenti ed in scena era buono per ogni persona, perché talora si chiamava Beltramo ed altre volte si faceva dir Mortadella, e qualche volta faceva da Innamorato, e così nel variar i personaggi mostrava la finezza del suo ingegno, mentre qual Proteo sendo solo sapeva rappresentare più persone, onde fu molto aggradito dalle prime teste coronate d’Europa. Questo sentendo in voce ed in iscritto biasimar la sua arte comica, si accinse a difenderla e così compose un bel libro in lode e difesa di detta arte, e questo fu da lui dedicato al cristianissimo re Luigi decimoterzo ed esposto alla luce del mondo. Visse negli anni 1633 come si vede dalla sua opera stampata, come anche da alcune annotazioni fatte da Vercellino Bellini, mio padre»: così scriveva del Barbieri – verso la metà del diciassettesimo secolo – Carlo Amedeo Bellini nel suo Compendio delle vite degli uomini, e donne illustri della città di Vercelli (1), e l’immagine del comico proteiforme, interprete (oltre che di quello famoso di Beltrame) dei ruoli di Innamorato e Mortadella, presentato esclusivamente nei suoi panni di attore, ci appare singolarmente contrastante con quell’altra immagine del Barbieri che siamo abituati a incontrare nelle pagine settecentesche del Quadrio (2), del Mazzuchelli (3) e del Bartoli (4), o anche in quelle del Croce (5) e del Rasi (6), in cui – accanto alle fondamentali notizie biografiche (7) e alle note su L’Inavertito e sulla paternità, da attribuirsi o meno al nostro comico, della maschera di Beltrame (8) – l’attore vercellese ci appare come uomo pio, geloso della propria onestà e dell’altrui, padre amoroso che indirizzò i figli verso la professione religiosa, un filantropo pronto sempre a sacrificarsi per salvare la vita e l’onore del prossimo (9).

    Può risultare strano, a prima vista, che proprio il Barbieri, che dal 1627 al 1636 si dedicò ad ampliare ed approfondire le ragioni della sua protesta per l’atteggiamento degli uomini di chiesa verso il teatro (10), ci sia stato tramandato come insigne esempio di religiosità, quasi bloccato nell’atto di entrar in chiesa piuttosto che in quell’altro di calcar le tavole del palcoscenico con la maschera di Beltrame.

    Ma l’insistenza su quei caratteri della biografia del Barbieri che ne mettono in rilievo la religiosità e la rettitudine deriva agli autori che abbiamo appena citato da un’importante serie di notizie quasi tutte dello stesso tenore raccolte dall’Ottonelli e riportate nelle pagine dei trattati Della Christiana Moderatione del Theatro non certo con l’intento di ricostruire la biografia del comico vercellese, ma con il chiaro programma di far servire questa ai fini di un discorso ammonitorio.

    Nel quarto libro della sua opera, chiamato appunto L’Ammonitioni a’ Recitanti, l’Ottonelli fa precedere l’esame de La supplica (11) da quattro capitoletti in cui la vita del Barbieri viene rappresentata come in un polittico (a cui possono essere riportati anche tutti gli altri accenni alla vita del nostro contenuti nei restanti volumi) dove ogni scena è sormontata da una massima dei santi padri, e dove ogni episodio rimanda per il taglio e la scelta, alla migliore tradizione agiografica. Vale la pena di riprodurre i tratti essenziali di questo «polittico dell’honest’huomo»:

    1. Castità e Modestia: Barbieri vive in «casto celibato» dall’età di trentuno anni, quando «rimase privo della consorte», fino a quella di sessantacinque in cui morì; dai comici suoi compagni è «fatto guardiano de’ fanciulli vistosi, delle verginelle, ed anche delle consorti»; «tentato fino al letto da belle femmine della comica professione» se ne libera sempre «con bel garbo, senza scapito della sua pudicizia» (12); fa «gagliarde correttioni» ai comici osceni (13); rifiuta di entrare in una compagnia ove c’è un attore impudico nella vita e nella recitazione (14); da vecchio cancella dai suoi scritti «alcune oscenità già dette da lui, acciocché niuno mai più le dicesse» (15).

    2. Liberalità e Carità: Barbieri è «pronto e liberale in sovenire a’ compagni con frequenti e grosse prestanze pecuniarie, essendo poi pigro, per non dire trascurato o smemorato, nel procurarne la riscossione»; i compagni gli affidano i propri risparmi; trovandosi a Napoli al tempo dell’eruzione del Vesuvio giunge «quasi a termine di povertà, per sovenire a’ bisogni di molti» e specialmente per aiutare certe «fanciulle pericolose e da marito» (16); a Parigi ottiene la grazia per un condannato a morte (17).

    3. Virtù del Padre Cristiano: Barbieri fa educare la figlia presso conventi di suore, finché si fa suora essa stessa; alleva il figlio «con senso di christiana pietà e di severa disciplina», e lo castiga «fino al sangue» per una parola o fatto indecente; lo mantiene agli studi di grammatica e di retorica, fino a quando entra nell’ordine di San Domenico (18).

    4. Pietà e Timor di Dio: Barbieri è alieno dall’ambizione e perciò non vuole essere capocomico; va a vespri, prediche, messe «con straordinaria divotione, e lacrimando sovente i peccati propri, e dolendosi de gli altri errori» (19); non recita nei giorni sacri e nel venerdì (20); soltanto con la violenza, riottoso, può esser obbligato a recitar di quaresima (21); alla sua morte lascia scritti di edificazione religiosa e di spiritualità, spesso dedicati al figlio frate (22).

    «Come vedete, più che un Barbieri comico, vi presento un Barbieri filantropo» (23): quello del giovane Benedetto Croce, autore de I teatri di Napoli, è quasi il lamento per il peso vincolante della gran mole di notizie sul nostro comico riportate nei libri Della Christiana Moderatione del Theatro. Non c’è da meravigliarsi troppo se ai pochi dati di Carlo Amedeo Bellini si preferiscono i molti (ma unilaterali) di Giovan Domenico Ottonelli, e se, di conseguenza, la figura del Barbieri appare ai nostri occhi scolorita anche se non indegna di attenzione (una vecchia incisione che ha l’unico pregio di essere vecchia), chiusa in «un proprio se pur limitato ideale artistico» (24), curioso esempio di comico devoto e timorato nell’epoca delle oscene commedie.

    Ma sono, questi, limiti troppo angusti per comprendere l’autore di un libro, come La supplica, che non è solo la risposta di un comico che reagisce alle ingiurie e difende una professione aggredita dai pulpiti e denigrata nei trattati di morale, e che – oltre a essere un importante documento della vita e della poetica dei comici dell’arte nei primi decenni del diciassettesimo secolo – è anche la preziosa testimonianza di un primo tentativo di reperire, accanto al tempo dello spettacolo, il luogo del teatro nella città, di collocare il momento esecutivo dell’arte scenica nell’ambito delle attività culturali, di sistemare l’intero complesso dell’organizzazione teatrale in un insieme ordinato capace di nobilitarla.

    Testimonianza preziosa, perché studiare la storia del teatro non può significare unicamente lo studio di quelle forme artistiche, ludiche o celebrative che noi oggi possiamo far rientrare nella categoria «teatro», ma significa anche ricercare i tempi e i modi della nascita di una tale categoria, che – prescindendo dai generi della letteratura drammatica – possa essere accostata senza anacronismi a quelle preesistenti della pittura, della poesia o della musica.

    Se ciò non si tenesse presente e si parlasse di «teatro» nel Seicento a proposito degli esperimenti dotti di letteratura drammatica o delle rappresentazioni di corte, degli spettacoli di accademia o di collegio e della commedia dell’arte, dei miracoli della macchineria teatrale e delle azioni dei saltimbanchi, si rischierebbe di unire fenomeni fruiti come essenzialmente diversi in una categoria solo burocraticamente unica. Si finirebbe, cioè, con il far dipendere certe nostre interpretazioni dall’uso acritico di un metodo di classificazione non aderente all’epoca storica esaminata.

    Sequenze come quella famosa di Carlo Borromeo in cui si parla di «lenones, meretrices, histriones, mimos et coeteros malae conditionis homines nugatoresve»; o come quella in cui il cardinal Paleotti elenca come soggetti indegni di comparire nelle opere di pittura ancora i lenoni e le meretrici e «circulatores, praestigiarum magistri, histriones mercenarii, parasiti, lurcones, aut alii huius ordinis homines» (25), indicano un modo di classificare l’attività istrionica che non può non avere un valore più ampio di quello che assume nell’ambito della polemica controriformista sul teatro, non può non rimandare a una problematica più generale di cui quella polemica fu la manifestazione di maggior momento.

    Da un lato ciò spiega perché non si possa far a meno di trattare della polemica religiosa quando si vogliano esaminare gli scritti dei comici in difesa della loro professione, dall’altro serve a mettere in guardia dall’interpretare tali scritti (e specialmente quello del Barbieri) come pure e semplici risposte alle condanne dei moralisti, ché ciò equivarrebbe – secondo il dire degli antichi teorizzatori dell’oratoria – a confondere la prima quaestio con lo status causae, l’origine del dibattito con il nocciolo della questione.

    La polemica contro gli spettacoli seguìta alla Controriforma cattolica si muove su due fronti complementari: da una parte riguarda la città, la riorganizzazione religiosa e morale della vita comunitaria; dall’altra si rivolge all’individuo, esamina il valore diseducativo delle rappresentazioni teatrali, condanna la commedia come fomentatrice di passioni, scopre nel piacere che offre l’arte istrionica il marchio della presenza diabolica.

    Dal 1565 al 1584, per tutto il tempo, cioè, in cui fu arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo non si stancò di predicare e promulgare editti contro gli spettacoli colpevoli di infrangere l’ordine del tempo liturgico (26): la sua battaglia contro il teatro assunse un valore che superò i limiti in cui concretamente si svolse, tanto da trasformare il non chiaro episodio della approvazione di alcuni scenari di comici in un episodio emblematico pro o contro il teatro, su cui si discuterà animatamente ancora nel secolo diciottesimo (27).

    Ma se è vero che – malgrado l’esempio borromeiano – non si giunse che raramente ad una proibizione totale degli spettacoli (la Chiesa, «per una di quelle contraddizioni che sono a lei abituali, voleva e disvoleva, permetteva e proibiva») (28), l’operato dell’arcivescovo di Milano fu il preludio al sorgere di tutta una serie di scritti contro gli spettacoli nei quali i comici di professione divenivano il principale bersaglio della polemica. A questi scritti gioverà – limitandoci ai tempi precedenti la pubblicazione de La supplica – accennare brevemente.

    Nel 1592 l’autore de Lo Stimolo alle Virtù dedica un capitolo del trattato Contro l’Intemperanza alla necessità «del fuggire li theatri e le vanità de gli spettacoli» (29). Capitolo che ricomparirà, nel 1616, in un’operetta presentata come «antidoto» per gli abusi introdotti dal demonio nel mondo (30). Nel 1599 fra’ Giulio Zanchini traduce il Discorso del Danno che cagionano le Comedie et lascivi spettacoli del francescano spagnolo Juan de Pineda, che costituisce forse il primo libro dedicato interamente alla condanna del teatro uscito in Italia dopo il Concilio di Trento, e in cui – sulla scorta di citazioni e parafrasi dei più famosi luoghi dei padri della chiesa contro il teatro – si indica nella scena il luogo ove si raccoglie tutto ciò che vi è di peccaminoso nel mondo (31).

    Insieme con il volume del de Pineda lo stesso Zanchini traduceva lo Aprovechamiento espiritual di Francisco Arias, opera che ebbe un’enorme diffusione in Italia e in Europa, e in cui si dedica un capitolo alla mortificazione degli occhi «particolarmente in vedere rappresentationi, balli et altre cose che provocano a male» (32); mentre nel 1609 vedevano la luce i trattati latini dei gesuiti Juan Mariana e Paolo Comitoli in cui si riservava largo spazio alla dimostrazione dell’infamia dei comici e della non liceità degli spettacoli facendo ricorso non solo ai testi dei Padri, ma anche alle leggi canoniche e civili (33). Qualche anno dopo Cesare Franciotti inseriva nel suo Giovane Christiano un trattatello in cui Pietro Casani accusava le commedie di indurre al peccato mortale servendosi della solita lista di autorità religiose e civili e terminando con la denuncia della pericolosità della donna in scena (34); e nel 1621 Francesco Maria Del Monaco pubblicava a Padova la sua In Actores et Spectatores comoediarum nostri temporis paraenesis, che costituisce una delle opere più interessanti fra quelle scritte contro il teatro, perché all’enorme quantità di materiale raccolto dall’autore per testimoniare l’incompatibilità fra spettacoli e religione, fa riscontro una acuta sensibilità per il fascino proprio dello spettacolo teatrale, e quasi la consapevolezza di un autonomo valore della recitazione nei confronti del testo rappresentato (35).

    Ma quanto più la polemica contro gli spettacoli approfondiva la meditazione sul carattere della comunicazione teatrale, allontanandosi dal tema della riforma della vita comunitaria, tanto più – per un movimento solo apparentemente paradossale – essa si prestava a essere riassunta in maniera massiccia dall’oratoria sacra, divenendo uno di quei luoghi comuni di cui si servivano i predicatori per incitare i fedeli alla pietà.

    La riutilizzazione dell’anatema contro i teatri come argomento topico della predicazione spiega perché le abili difese dei comici e le più acute e meditate condanne del teatro si muovano lungo due binari che spesso corrono paralleli, parlando solo apparentemente delle stesse cose: le ragioni contro gli attori e le rappresentazioni sceniche, avulse da un contesto squisitamente teologico, ripetute nei sermoni esortativi a penitenza, acquistano il loro vero significato non da ciò che dicono ma dalla frequenza con cui lo dicono (36).

    È logico, quindi, che i comici si sentano tutti condannati, senza distinzione, anche se – come vorrebbe far loro notare l’Ottonelli (37) – nessuno ha mai detto che la loro professione è di per sé riprovevole: ma tant’ è, l’espressione «comici infami» più volte ripetuta viene udita come «infami comici», l’aggettivo limitativo tende ad essere inteso come attributo dell’intera specie.

    Si aggiunga a ciò che il trasformarsi in topos del disprezzo per i comici appariva giustamente come sintomo di una incomprensione più generale, per cui l’attore di professione veniva situato fra il buffone e il ciarlatano, simili a lui, ma strettamente legati a due funzioni extra-artistiche: l’esercizio del parassitismo e il commercio della pseudo-scienza (38).

    Uscire da questa situazione significò, per alcuni grandi attori dell’Arte, consapevolezza della propria dignità culturale e, quindi, esigenza di ripensare in maniera nuova i rapporti tra teatro e società: mentre in Giovan Battista Andreini troviamo – accanto alle opere in difesa della professione attorica – il tentativo di nobilitarsi divenendo poeta (39), e mentre nei Discorsi intorno alle comedie, comedianti e spettatori di Pier Maria Cecchini il nodo della difesa sta nella dimostrazione della presenza di comici onesti accanto a quelli infami (40), con il Barbieri la distinzione assume un valore secondario e la dignità del comico è interpretata quasi come il risultato immediato della sua professione. Non i comici onesti, ma gli infami, appaiono eccezioni.

    Dopo La supplica del Barbieri la polemica sul teatro non sarà più la stessa: già nella grande summa dell’argomento costituita dai cinque volumi Della Christiana Moderatione del Theatro l’attore diverrà, almeno, oggetto di un serio esame; non sarà ancora assolto, ma comincerà ad apparir degno d’essere confessato con attenzione.

    Ma ormai i due interlocutori si rivolgeranno a un nuovo uditorio, i religiosi parleranno ai fedeli dei vizi della fantasticheria, e del teatro come piacevole delirio (dal Del Monaco al Bossuet); gli attori si dirigeranno verso i dotti o i governanti, i principi della cultura o della città, per risolvere i problemi della dignità e dello sviluppo dell’arte scenica (dal Barbieri al Riccoboni).

    La polemica sulla moralità del teatro continuerà ad esistere, ma si svolgerà indipendentemente dalla concreta vita degli spettacoli, troverà in se stessa le ragioni per i suoi ritorni di fiamma, sarà – nei suoi momenti migliori – un fenomeno da aula di teologia, spesso apparterrà all’ambiente chiuso della sacrestia (41).

    Apparirà ormai chiaro perché un’immagine «agiografica» del Barbieri sia stata intenzionalmente (almeno agli inizi) spinta in primo piano; essa non è che una conseguenza della posizione cruciale de La supplica nello svolgersi del dibattito sul teatro nell’età della Controriforma. Al più organico tentativo di impostare il discorso al di fuori del piano strettamente religioso, risponde l’affannosa e zelante operazione di recupero dell’« honest’huomo» nei sacri recinti della chiesa; quanto più i suoi scritti appaiono discutibili, tanto più viene sottolineato il valore di certi episodi biografici. E Barbieri comico onesto finisce con l’apparire onesto benché comico.

    Con il sottolineare, infatti, la figura morale del Barbieri, con il prestarle carattere di eccezionalità, con il farne – secondo le parole del Mazzuchelli – un «esemplare da imitarsi da chi esercita l’arte comica», si giunge a dover riconoscere che il nostro «faceva l’arte del comediante quasi forzato, per non poterne fare altra, e per non esser habile alla faticosa» (42), e si finisce poi con il non comprendere più come il «sant’huomo» vada d’accordo con l’autore de L’Inavertito (commedia non certo castigatissima, né come tale reputata dai contemporanei ) (43), o con quel comico – di cui ci parla il Bellini – capace di sfoggiare un virtuosismo da ciarlatano di gran classe nell’interpretare da solo «più persone».

    Il nostro assunto non è certo quello di restituire il Barbieri uomo, ma sarebbe ugualmente imbarazzante se – dimenticando la logica dell’Ottonelli pur servendoci inconsapevolmente del suo punto di vista – ci sorprendessimo a vedere tre Barbieri diversi. Tanto più che anche La supplica rischierebbe di sdoppiarcisi fra le mani, quando la leggessimo cercandovi soltanto il nocciolo del dibattito religioso intorno alla moralità del teatro, la confutabilissima (e confutata dall’Ottonelli) giustificazione teologica delle «moderne comedie».

    Perché, infatti, quella giustificazione da un lato apparirebbe sommersa nelle pieghe del «discorso famigliare»; mentre, dall’altro, sarebbe impossibile non avvertire che quelle figure retoriche, quelle apparenti digressioni che sembrano distrarre l’attenzione, sono in realtà cariche di significato, sono non soltanto il mezzo, ma anche l’oggetto della persuasione. La supplica in epitome sarebbe tutt’altra Supplica (44).

    Non dispiacerà se in queste pagine introduttive non ci fermeremo a considerare il sapore – come si dice – della prosa del Barbieri, quell’intrecciarsi a volte affascinante dei toni pacatamente morali dell’honnête homme con i sali del comico di professione. Da questo punto di vista il discorso di Beltrame si commenta da sé; a noi tocca soltanto approfondirne, per quanto potremo, alcuni spunti, solo in questo seguendone lo stile: nel ritornare sul già detto cercando di precisare i diversi argomenti per mezzo di passaggi successivi, giungendo ancora a considerare il valore dello stilema barbieriano partendo di nuovo dal Borromeo.

    II. Nella omelia pronunciata da Carlo Borromeo nella settima domenica dopo pentecoste del 1583, l’arcivescovo di Milano, commentando il brano di Matteo sui due ciechi, metteva in guardia i fedeli contro i luoghi del demonio che si contrappongono alle dimore di Cristo, e indicava nel «mimus atque histrio» gli ambasciatori satanici che invitano il popolo – «schedulis parieti affixis» – a quel ritrovato infernale che viene chiamato «commedia».

    Con efficace concettuosità il Borromeo faceva scaturire dall’immagine della commedia quella del peccato e della dannazione: «comoediam vocant ... sed mihi eredite, tragoedia vobis est semper», ché vi si era andati vivi e sani, ma da essa si torna morti per la concupiscenza, feriti dalla libidine. Così dall’accorato dolore del pastore di anime si passa – secondo i modi tradizionali dell’oratoria sacra – alla visione apocalittica del profeta, al «tempo verrà» che introduce la visione del giudizio finale, quando coloro che troppo tardi vorrebbero pentirsi saranno destinati a luoghi di dannazione.

    E cioè «ad patriam mimis et histrionibus ac impudicis mulieribus praeparatum» (45).

    In un tale procedere del discorso ritroviamo quasi sintetizzato il senso della polemica contro il teatro e i comici di professione. Da un lato i comici sono visti come personaggi immorali, e le loro commedie come trattenimenti pericolosi, dall’altro comici e commedie acquistano quasi un valore emblematico, appaiono come la sintesi di tutto ciò che è vano nel mondo, il legame metaforico che lega questo al teatro presentandosi, qui, come il logico risultato del rispecchiarsi delle follie del mondo nei dolci modi della commedia; e dello smascherarsi, quasi, dell’inanità di ogni vita condotta dalla religione nella indiscutibile infamia di chi fa del gioco comico la sua principale attività (46).

    Così le nove maschere dell’Arte (la prima donna, il primo innamorato, la seconda donna e la serva; il secondo innamorato con il secondo zanni e con il Dottore e Pantalone; ed infine il primo zanni) appaiono, sul finire del secolo diciassettesimo, in una serie di tre incisioni che l’artista bolognese Giuseppe Maria Mitelli intitola alla fugacità della vita, e in cui i personaggi della commedia si presentano come allegorie dei giorni inutilmente vissuti tesi disperatamente tra i due poli del Tempo con la falce e dell’Eternità affiancata dal Demonio, premonizione dell’eterno castigo (47).

    È anche contro una tale utilizzazione rnetaforica del teatro e degli attori – e contro ciò che essa sottintende – che dovrà combattere il Barbieri, riconoscendovi il frutto della visione della scena come luogo del diabolico quale si era venuta definendo nella polemica degli uomini della Controriforma. Il demonio, che si appresta ora ad assumere l’aspetto torbido del Lucifero affascinante (48), opera i suoi incantesimi non più sulle cose, ma sui pensieri; fattosi contemporaneo dei casisti, non muta la realtà, manipola il modo in cui la si guarda; inventore della maschera e maestro di travestimenti (49), sembra ormai divenire apparatore di spettacoli teatrali (50), presta ingannevole consistenza alla vanità, grazia alla più brutale lascivia (51).

    Il fatto che l’autore de La supplica risponda separatamente alle accuse contro l’immoralità e la licenza delle commedie, e ai tentativi di indicare in queste un luogo privilegiato del maligno, non deve impedirci di notare che il tema della lascivia e quello del demoniaco sono strettamente legati, sono in realtà due manifestazioni di un’unica visione generale, ignorando la quale si rischierebbe non soltanto di perdere di vista le ragioni di fondo che determinarono la polemica contro gli spettacoli, ma si finirebbe anche con il non intendere l’importanza che lo studio di tale polemica assume per la comprensione del modo in cui il teatro si colloca nella società del Seicento.

    L’insistenza, da un lato, degli uomini di chiesa nell’accusare le commedie di oscenità e d’incitamento alla lascivia e, dall’altro, l’impegno dei comici nel controbattere tali accuse non si spiegano soltanto con preoccupazioni moralistiche che potrebbero dar vita a semplici operazioni censorie e che permetterebbero la difesa di uno spettacolo moralmente regolato (52), ma si ricollegano al più vasto problema del diritto del teatro all’esistenza, al problema della liceità e della dignità civile della professione attorica (53).

    Quando i rigorosi moralisti post-tridentini denunciano la «obscena scena» (54), essi rimandano ad una concezione della lussuria come vizio eminentemente diabolico, dal momento che – come scriverà il Segneri – vi è una «qualche notabile proporzione tra la lascivia e l’inferno», consistente soprattutto nel «non emendarsi giammai» (55). Accade così che il meno grave dei peccati diviene immagine del demoniaco quando si presenta come abitudine, come fondamento del carattere dell’uomo bestialmente lascivo o della donna affascinante, quando dà vita ai tipi fondamentali della commedia e allo stesso intreccio della rappresentazione, basato su una serie di variazioni del gioco dell’amore e dell’inganno.

    Da ciò le condanne, anche se queste vengono poi, spesso, motivate per mezzo degli esempi più adatti a stimolare l’indignazione morale dei fedeli: «nella universa cristiana repubblica molti sono i ritrovati che Satana, con astuti metodi, usa per instillare nell’animo dei fedeli pravi costumi, ma primo fra tutti va considerato quello che, per mezzo dei comici spettacoli, insegna oscenità

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