Furto al Municipio
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Anteprima del libro
Furto al Municipio - Salvatore Bernocco
633/1941.
CAPITOLO I
L’amalgama non si compra al mercato, né io sono un mago
«Amalgama, ci vuole amalgama!», urlò il capitano Milano, Milano Orazio, all’indirizzo del suo sottoposto, l’appuntato Catalano, che rimase un po’ imbambolato, come se avesse preso una sberla inattesa in piena faccia, una faccia rossiccia e paffuta.
«E cos’è questo amalgama di cui voi parlate, capitano?», domandò il sottoposto mettendosi sull’attenti. «Non è la prima volta che vi sento parlare di questo amalgama. Ogni tanto lo tirate fuori, come si estrae un coniglio dal cilindro».
«Ah, non sai che cos’è l’amalgama! Stiamo a posto! Tutte le volte che ho usato questa parola e hai annuito, cioè hai fatto sì con la testa, come un cagnolino di pezza con la testolina basculante, non ci capivi niente, è vero? Quando si fanno i concorsi per carabinieri, poliziotti, finanzieri e così via, bisognerebbe preoccuparsi dell’italiano! La lingua, Catala’, la lingua serve, sennò si fanno magre figure, vengono fuori tutte quelle barzellette idiote sui carabinieri, non so se mi spiego! E poi non si tratta di una cosa, di un oggetto, né io sono un mago!».
«Ah, sì? E allora chi è questo tizio, sì, insomma, questo signore di cui abbiamo bisogno un giorno sì e l’altro pure, capitano?», proseguì imperterrito Catalano.
«Che mi vuoi sfottere, per caso? Pure tu ci volevi stamattina benedetta! Non ti ci provare neppure a prendermi per i fondelli, Catalano, perché passi i guai, i guai seri! L’amalgama, per dirlo facile facile, è l’unione, la coesione, il legame fra tutti noi per conseguire un risultato. Insomma, Catalano, l’amalgama non si compra al mercato, non è un coniglio, e non è neppure un signore, siamo intesi?», tagliò corto il capitano Milano che, quel giorno, ce l’aveva di traverso, assai di traverso.
Terzo di cinque figli, nato in una carrozza delle Ferrovie del Sud-Est fra Gioia del Colle ed Acquaviva delle Fonti, si trovava suo malgrado sempre nel mezzo di qualche faccenda. Forse per questa ragione aveva scelto di fare il carabiniere, più per vocazione originaria che per talento.
Eppure quel giorno, come tanti altri prima di quello, si annunciava ingarbugliato, perché sempre, chi sta nel mezzo, nei garbugli vi si trova naturalmente invischiato o vi è cacciato per forza di cose.
Quella mattina era stato svegliato prestissimo dalla telefonata di un anonimo cittadino che, sussurrando come un innamorato andato in camporella, gli aveva detto che la porta del municipio risultava aperta. «I ladri, ci sono stati i ladri», aveva soggiunto la voce, un po’ impastata, abbassando ancora di più il tono, come se stesse esalando l’ultimo respiro di un amplesso particolarmente appagante. «E lei chi è?», chiese il capitano che, per tutta risposta, ricevette il segnale di occupato.
«Santo Iddio! Alle quattro del mattino questo cristiano, invece di chiamare la stazione, chiama a casa mia, mi mette sottosopra», aveva pensato, mentre una stretta gli serrava lo stomaco. La moglie lo guardò senza vederlo e si girò dall’altro lato del letto.
Si alzò e si portò in cucina con passo felpato. Bevve in piedi una tazzina di caffè del giorno prima, che tempo non ne aveva disposizione per sedersi e godersi un po’ di pace, quella che sopravviene dopo una ricca dormita, ed andò in bagno.
La bocca era amara un accidenti, e pure il caffè gli era andato di traverso, nonostante le due zollette di zucchero che ci aveva gettato. Forse fra astri, trigoni e congiunzioni non tirava aria buona per il suo segno zodiacale, il Leone. Oppure era colpa dell’ascendente se le cose da un po’ di tempo non filavano più lisce in quello che una volta poteva definirsi un paese tranquillo, abitato da gente tranquilla.
Un uomo politico di quel paese, qualche anno addietro, nel corso di una conferenza sull’ordine pubblico, aveva dipinto quella cittadina a circa trenta chilometri da Bari come un’isola felice, un’oasi morale, una specie di Città del Sole di campanelliana memoria, dove non accadeva nulla di grave, la gente si voleva bene, si stimava; dove ognuno faceva il proprio dovere e gli intrallazzi non attecchivano.
A lui non sfuggì quel passaggio del fluviale discorso che strappò sbadigli ai tiepidi e agli assennati, per una volta uniti, e qualche consenso, quello dei pervicaci sostenitori del politico in questione, i quali o applaudivano pure quando non era il caso o annuivano platealmente. Istintivamente avrebbe voluto contraddirlo, perché lui sì che aveva il polso reale della situazione, ma, non potendolo fare a causa della divisa che indossava, si accontentò di accennare una impercettibile smorfia che tuttavia l’oratore colse e parve non gradire, anzi non gradì affatto, tanto è vero che, da allora, gli levò il saluto.
Assiso sulla tazza, ripensò alla voce che lo aveva svegliato e a quanto gli aveva sibilato al telefono.
«Un furto al municipio. Per rubare cosa? Documenti, carte d’identità, computer, apparecchi telefonici, stampanti? Ma che il diavolo se li porti, a questi delinquenti da quattro soldi! Tutti ormai hanno il cellulare appeso alla cintola, che sembra una pistola, e questi che fanno? Vanno in un edificio pubblico per fregarsi i telefoni! E a che li rivendono, che fanno schifo? Ed i piccì, poi, o come diavolo si chiamano, che sono dell’anteguerra, come anche le stampanti!», si incazzava fra sé e sé, immaginandosi un furtarello come tanti altri, come quelli che avvenivano sempre più di frequente nelle case dei privati cittadini di Ruvo di Puglia.
Dopo la seduta quotidiana, forzatamente anticipata dagli eventi e neanche tanto ben riuscita perché per quelle cose ci vogliono calma, il giusto tempo e la giusta concentrazione, ben sbarbato giacché non poteva farne a meno, aveva indossato di malavoglia la divisa d’ordinanza e si era recato in caserma, dove di piantone c‘era Catalano. Questi, quando lo vide a quell’ora insolita apparire con impeto di corrente d’aria, si alzò di scatto e per poco non gli preso un colpo, giacché alle sorprese non ci era abituato né ci teneva ad abituarvisi.
«Qualcosa mena male, assai male, troppo male», si disse l’appuntato, squadrando dalla testa ai piedi il capitano Milano, che intanto si era seduto alla sua scrivania.
«Dove sono gli altri? E la pattuglia dove si trova?», gli domandò il capitano, buttando all’aria il cappello.
«Gli altri, signor capitano? Prendono servizio fra poco. E che ne so io della pattuglia? Può trovarsi dovunque», gli rispose timoroso Catalano.
«Amalgama, ci vuole amalgama!», sbraitò il capitano Milano, Milano Orazio.
CAPITOLO II
Sono penetrati nel municipio
«Aiello, mi senti? Pronto, pronto, Aiello, dove cavolo stai con quell’altro morto di sonno?», gridò Catalano al microfono. Chiamava la pattuglia, ma la pattuglia non dava segni di vita. Sembrava essere stata risucchiata dalla notte, una notte assai buia, senza stelle né luna.
Provava e riprovava, mentre il capitano, dalla stanza attigua alla sua, imprecava: ne aveva fin sopra i capelli delle pattuglie, delle denunce, delle telefonate notturne, della moglie che mai si alzava di notte per preparargli un buon caffè.
«Non c’è più rispetto per l’uomo né per la divisa», l’aveva più volte rimproverata, mentre lei, che ne aveva piene le tasche di turni fuori orario e di gite annunciate ed abortite, non gli rispondeva affatto o gli rispondeva con un’alzata di spalle. L’uomo che aveva sposato, il capitano Milano, non corrispondeva esattamente al suo ideale di uomo, e lei, di tanto in tanto, quando ce l’aveva storto, malediceva, cosa assai grave e da evitare, sua madre, che le aveva inoculato come si inocula un veleno, lentamente, l’idea che nella vita occorre essere pratici, farsi bene i conti, seguire poco o per nulla la sinusoide del cuore e riflettere, ragionare, come se il cervello, anch’esso, non fosse preda di disordini e di quali disordini!, tanto da fare il solletico all’anarchia. «Quel carabiniere», le diceva sua madre, «farà carriera, vedrai. E poi ha un un discreto fascino, un bel naso pronunciato, le orecchie grandi, segno che camperà a lungo. E poi tu sei ormai stagionatatella. Cedi, figlia mia bella, e benedirai in eterno la tua genitrice». E lei così fece, piegando, come sempre accade ad una certa età, l’ideale al reale. Ma sulla tomba della madre, per ripicca, non ci andava quasi mai, e quando ci andava nel portafiori ci lasciava un fiore di plastica.
«Pronto Aiello, Bottalico, mi sentite?», ritentò l’appuntato, il quale pure lui cominciava a perdere la pazienza.
«Siamo qui, Catalano, a tua disposizione», gracchiò finalmente la radio. Gracchiò così forte che l’appuntato fece una smorfia di dolore e prese a smadonnare come un turco.
«Sì, a mia disposizione un cacchio! Ma è possibile che tutte le volte vi devo chiamare all’infinito prima che rispondiate?», si alterò il pacifico Catalano, al quale non andava proprio di arrabbiarsi, non essendoci portato per indole e un po’ per indolenza. Ma, poiché il capitano Milano insisteva tanto, e si infuriava, e le sparava grosse verso di lui ed i suoi colleghi, per fare bella figura ed attutirne i colpi si fece diligente ed autoritario. E siccome per lui autoritario era chi alzava il tono della voce, ecco che si inerpicò sulla scala dei decibel sino a toccare lo scalino più alto che poteva raggiungere.
«Uei, Catala’, non alzare la voce, non siamo mica sordi. Dimmi, che c’è?», rispose piccato Bottalico, un giovanotto alto e robusto a cui la divisa andava un po’ stretta, troppo stretta, anzi non era proprio la taglia sua. Lui, quand’era dinanzi al pubblico, buttava la pancia in dentro, e ciò gli costava una fatica del diavolo, anche perché sfido chiunque a rispondere alle domande della gente col fiato sospeso. Così, talvolta, gli venivano fuori delle frasi che il suo interlocutore non riusciva a comprendere che senso avessero, se quell’appuntato avesse preso appunti o vinto ai punti non si sa che cosa. Ma lui non ce la faceva proprio a stare in apnea per oltre due minuti senza riprendere fiato, e così, mentre si sgonfiava come un palloncino bucato, con orrore osservava riarcuarsi il ventre, che invece lasciava veleggiare libero a casa sua, e accollinarsi la divisa. Sconfitto, con aria mesta ripeteva all’interlocutore quanto gli aveva appena detto, scandendo bene le parole, perché a lui di passare per demente questo no, proprio non gli andava giù. Ma poi c’era che quel paese era popolato da contadini che con la lingua italiana non intrattenevano buoni rapporti, e lui, che non era di quelle parti, si consolava pensando che l’incomunicabilità era dovuta alla fin fine all’ignoranza altrui piuttosto che alle sue inspirazioni forzate.
«Pare che siano andati a fare visita al municipio stanotte»", disse Catalano.
«Chi ci è andato a fare visita?», lo interrogò Aiello.
«I fantasmi, Aiello, ci sono andati i fantasmi, gli spettri, gli spiriti! Santo cielo, Gennaro, non è questo il momento più adatto per scherzare!», rispose seriosamente Catalano.
Vicino a lui vi era il capitano, al quale lui strizzò l’occhio sinistro in cenno d’intesa, mentre la palpebra di quello destro prese a vibrargli a causa di quella presenza che incombeva minacciosa su di lui, come una nuvola carica di pioggia, e che gli dava sui nervi.
«Pare che ci sia stato un furto al municipio. Un uomo – era un uomo, capitano? – Sì, proprio un uomo ha telefonato e ci ha avvertiti che il portone del municipio è aperto, spalancato. Fateci un salto e poi riferite subito, immediatamente, va bene?», concluse l’appuntato, che passò e chiuse sotto lo sguardo arcigno del suo superiore.
«Catalano, come sarebbe a dire subito, immediatamente! O subito o immediatamente: sono sinonimi, e non si possono usare in coppia», osservò il capitano allontanandosi a passo deciso verso la sua stanza.
Catalano non replicò, anche perché chissà cosa cavolo erano i sinonimi! Se non potevano usarsi in coppia, pensò fra sé e sé, allora erano senz’altro cose brutte, innominabili, repellenti.
Cose contro natura.
CAPITOLO III
Io non sono Leopardi e tu non sei Ugo Foscolo
La pattuglia giunse sul luogo del fattaccio che erano abbondantemente passate le sei.
Un capannello di persone osservava il portone della casa comunale, schiuso, troppo schiuso. Nessuno aveva usato introdursi nell’antro oscuro di quel palazzo del XVII secolo. Avevano sbirciato un tantino; un tantino intrufolato le teste appena oltre la soglia, ma, lo giurarono in coro ai due carabinieri, no, non c’erano entrati.
Nei pressi della tabaccheria di piazza Regina Margherita, per i nostalgici dei reali, o piazza Matteotti, per i repubblicani, si era intanto formato un altro crocchio di braccianti giornalieri che piano piano si ingrossava. Parlottavano tra loro fitto fitto, fumavano e scatarrano che era un piacere.
Questi se ne stavano in disparte; sembravano isolati dal resto, ed in effetti lo erano, ma non in virtù di quel continuo e sfrontato sputacchiare, assai sgradito all’occhio e all’orecchio di uomini e donne. Lo erano, in fin dei conti, per una ragione di coscienza. Difatti, i braccianti agricoli, quelli che lavorano a giornata, quando sì e quando no, non godevano della simpatia generale, o meglio di quella di chi percepisce un reddito fisso e dei commercianti ruvesi. Dei primi, perché costoro si sentivano debitori verso di loro, con la coscienza a disagio nei riguardi di quegli uomini che non avevano avuto fortuna e che campavano strappando la vita ben al di là delle ordinarie peripezie. Dei secondi perché, essendo costoro perennemente a credito nei loro riguardi, provavano a loro volta disagio nel chiedere denaro a chi a malapena riusciva ad acquistare un paio di scarpe e un abito all’anno.
E siccome lì, in quel luogo e in quel giorno come altrove ed in tutti gli altri giorni, nelle anticamere dei medici o nelle sezioni di partiti, i braccianti risultavano in minoranza, questi se ne stavano per i fatti loro, a desiderare con lo sguardo e a fare commenti innocentemente eversivi, da aderenti ad una cellula rivoluzionaria che, vinti dall’eterna globalizzazione dei ricchi sui poveri, avevano infine appeso al chiodo tutte le loro utopie.
«Marescia’, e che ci entra lì dentro! Ci possono essere ancora i ladri. E poi le impronte dei piedi e quelle digitali! Se uno di noi, tanto per dirne una, avesse salito la rampa di scale che porta all’anticamera del sindaco, non avrebbe lasciato delle tracce, delle impronte, dei segni? Poteva passare un guaio con i fiocchi, o no?», disse un uomo sulla quarantina, cigliuto e col naso schiacciato, rivolgendosi a Bottalico.
«Le impronte dei piedi si chiamano orme, orme, non impronte dei piedi, è chiaro? Ma quali ladri vuole che ci siano dopo non so quanto tempo dall’avvenuto furto, ammesso che di furto si tratti. I ladri sono ladri, non turisti a spasso. Comunque, avete fatto bene a non salire», rispose Bottalico che, chiamato il suo collega, si introdusse nel municipio.
«Senta, mi faccia la cortesia di bloccare chi tentasse di entrare», soggiunse all’uomo che gli aveva rivolto la parola. Bottalico non l’aveva riconosciuto, ma quell’uomo, certo Gaetano Sinigaglia, era meglio noto come Toccataefuga o Pugnochiuso, a seconda del tipo di reato che commetteva. Costui si stupì alquanto della richiesta, ma non se la sentì di rifiutare una cortesia all’avversario storico. E così si piazzò sull’uscio come un colosso, le spalle sollevate e lo sguardo fiero e truce, suscitando lo sghignazzo di chi ne conosceva le fulgide gesta.
Si sentì un’altra persona, Gaetano, e per un istante rimpianse di essersi dato alle ruberie, e maledisse pure la casa dove era nato, per caso e senza volerlo, perché, se avesse potuto scegliere dove nascere, avrebbe suggerito al Padreterno una diversa destinazione, una reggia o una casa di gente colta o, più semplicemente, di persone oneste. «Ah, l’eterno pisillis», sospirò Gaetano, che negli anni era