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Furto al Municipio
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E-book224 pagine3 ore

Furto al Municipio

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Info su questo ebook

L’Autore ha scritto un romanzo leggero, nel contempo vivace ed ironico. Tutto prende l’avvio dal furto di una lapide commemorativa dedicata al presidente della Repubblica Sandro Pertini, posta nella sala consiliare del Comune di Ruvo di Puglia, per poi procedere verso un epilogo niente affatto scontato, sorprendente. Fanno capolino temi quali la dignità della politica, la vita sociale di una cittadina pugliese, il timore di mettersi contro i potenti di turno, la disonestà diffusa, il lavoro svolto dalle forze dell’ordine per assicurare legalità e giustizia.
LinguaItaliano
Data di uscita25 mar 2020
ISBN9788831664929
Furto al Municipio

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    Anteprima del libro

    Furto al Municipio - Salvatore Bernocco

    633/1941.

    CAPITOLO I

    L’amalgama non si compra al mercato, né io sono un mago

    «Amal­ga­ma, ci vuo­le amal­ga­ma!», ur­lò il ca­pi­ta­no Mi­la­no, Mi­la­no Ora­zio, all’in­di­riz­zo del suo sot­to­po­sto, l’ap­pun­ta­to Ca­ta­la­no, che ri­ma­se un po’ im­bam­bo­la­to, co­me se aves­se pre­so una sber­la inat­te­sa in pie­na fac­cia, una fac­cia ros­sic­cia e paf­fu­ta.

    «E cos’è que­sto amal­ga­ma di cui voi par­la­te, ca­pi­ta­no?», do­man­dò il sot­to­po­sto met­ten­do­si sull’at­ten­ti. «Non è la pri­ma vol­ta che vi sen­to par­la­re di que­sto amal­ga­ma. Ogni tan­to lo ti­ra­te fuo­ri, co­me si estrae un co­ni­glio dal ci­lin­dro».

    «Ah, non sai che cos’è l’amal­ga­ma! Stia­mo a po­sto! Tut­te le vol­te che ho usa­to que­sta pa­ro­la e hai an­nui­to, cioè hai fat­to sì con la te­sta, co­me un ca­gno­li­no di pez­za con la te­sto­li­na ba­scu­lan­te, non ci ca­pi­vi nien­te, è ve­ro? Quan­do si fan­no i con­cor­si per ca­ra­bi­nie­ri, po­li­ziot­ti, fi­nan­zie­ri e co­sì via, bi­so­gne­reb­be pre­oc­cu­par­si dell’ita­lia­no! La lin­gua, Ca­ta­la’, la lin­gua ser­ve, sen­nò si fan­no ma­gre fi­gu­re, ven­go­no fuo­ri tut­te quel­le bar­zel­let­te idio­te sui ca­ra­bi­nie­ri, non so se mi spie­go! E poi non si trat­ta di una co­sa, di un og­get­to, né io so­no un ma­go!».

    «Ah, sì? E al­lo­ra chi è que­sto ti­zio, sì, in­som­ma, que­sto si­gno­re di cui ab­bia­mo bi­so­gno un gior­no sì e l’al­tro pu­re, ca­pi­ta­no?», pro­se­guì im­per­ter­ri­to Ca­ta­la­no.

    «Che mi vuoi sfot­te­re, per ca­so? Pu­re tu ci vo­le­vi sta­mat­ti­na be­ne­det­ta! Non ti ci pro­va­re nep­pu­re a pren­der­mi per i fon­del­li, Ca­ta­la­no, per­ché pas­si i guai, i guai se­ri! L’amal­ga­ma, per dir­lo fa­ci­le fa­ci­le, è l’unio­ne, la coe­sio­ne, il le­ga­me fra tut­ti noi per con­se­gui­re un ri­sul­ta­to. In­som­ma, Ca­ta­la­no, l’amal­ga­ma non si com­pra al mer­ca­to, non è un co­ni­glio, e non è nep­pu­re un si­gno­re, sia­mo in­te­si?», ta­gliò cor­to il ca­pi­ta­no Mi­la­no che, quel gior­no, ce l’ave­va di tra­ver­so, as­sai di tra­ver­so.

    Ter­zo di cin­que fi­gli, na­to in una car­roz­za del­le Fer­ro­vie del Sud-Est fra Gio­ia del Col­le ed Ac­qua­vi­va del­le Fon­ti, si tro­va­va suo mal­gra­do sem­pre nel mez­zo di qual­che fac­cen­da. For­se per que­sta ra­gio­ne ave­va scel­to di fa­re il ca­ra­bi­nie­re, più per vo­ca­zio­ne ori­gi­na­ria che per ta­len­to.

    Ep­pu­re quel gior­no, co­me tan­ti al­tri pri­ma di quel­lo, si an­nun­cia­va in­gar­bu­glia­to, per­ché sem­pre, chi sta nel mez­zo, nei gar­bu­gli vi si tro­va na­tu­ral­men­te in­vi­schia­to o vi è cac­cia­to per for­za di co­se.

    Quel­la mat­ti­na era sta­to sve­glia­to pre­stis­si­mo dal­la te­le­fo­na­ta di un ano­ni­mo cit­ta­di­no che, sus­sur­ran­do co­me un in­na­mo­ra­to an­da­to in cam­po­rel­la, gli ave­va det­to che la por­ta del mu­ni­ci­pio ri­sul­ta­va aper­ta. «I la­dri, ci so­no sta­ti i la­dri», ave­va sog­giun­to la vo­ce, un po’ im­pa­sta­ta, ab­bas­san­do an­co­ra di più il to­no, co­me se stes­se esa­lan­do l’ul­ti­mo re­spi­ro di un am­ples­so par­ti­co­lar­men­te ap­pa­gan­te. «E lei chi è?», chie­se il ca­pi­ta­no che, per tut­ta ri­spo­sta, ri­ce­vet­te il se­gna­le di oc­cu­pa­to.

    «San­to Id­dio! Al­le quat­tro del mat­ti­no que­sto cri­stia­no, in­ve­ce di chia­ma­re la sta­zio­ne, chia­ma a ca­sa mia, mi met­te sot­to­so­pra», ave­va pen­sa­to, men­tre una stret­ta gli ser­ra­va lo sto­ma­co. La mo­glie lo guar­dò sen­za ve­der­lo e si gi­rò dall’al­tro la­to del let­to.

    Si al­zò e si por­tò in cu­ci­na con pas­so fel­pa­to. Bev­ve in pie­di una taz­zi­na di caf­fè del gior­no pri­ma, che tem­po non ne ave­va di­spo­si­zio­ne per se­der­si e go­der­si un po’ di pa­ce, quel­la che so­prav­vie­ne do­po una ric­ca dor­mi­ta, ed an­dò in ba­gno.

    La boc­ca era ama­ra un ac­ci­den­ti, e pu­re il caf­fè gli era an­da­to di tra­ver­so, no­no­stan­te le due zol­let­te di zuc­che­ro che ci ave­va get­ta­to. For­se fra astri, tri­go­ni e con­giun­zio­ni non ti­ra­va aria buo­na per il suo se­gno zo­dia­ca­le, il Leo­ne. Op­pu­re era col­pa dell’ascen­den­te se le co­se da un po’ di tem­po non fi­la­va­no più li­sce in quel­lo che una vol­ta po­te­va de­fi­nir­si un pae­se tran­quil­lo, abi­ta­to da gen­te tran­quil­la.

    Un uo­mo po­li­ti­co di quel pae­se, qual­che an­no ad­die­tro, nel cor­so di una con­fe­ren­za sull’or­di­ne pub­bli­co, ave­va di­pin­to quel­la cit­ta­di­na a cir­ca tren­ta chi­lo­me­tri da Ba­ri co­me un’iso­la fe­li­ce, un’oa­si mo­ra­le, una spe­cie di Cit­tà del So­le di cam­pa­nel­lia­na me­mo­ria, do­ve non ac­ca­de­va nul­la di gra­ve, la gen­te si vo­le­va be­ne, si sti­ma­va; do­ve ognu­no fa­ce­va il pro­prio do­ve­re e gli in­tral­laz­zi non at­tec­chi­va­no.

    A lui non sfug­gì quel pas­sag­gio del flu­via­le di­scor­so che strap­pò sba­di­gli ai tie­pi­di e agli as­sen­na­ti, per una vol­ta uni­ti, e qual­che con­sen­so, quel­lo dei per­vi­ca­ci so­ste­ni­to­ri del po­li­ti­co in que­stio­ne, i qua­li o ap­plau­di­va­no pu­re quan­do non era il ca­so o an­nui­va­no pla­teal­men­te. Istin­ti­va­men­te avreb­be vo­lu­to con­trad­dir­lo, per­ché lui sì che ave­va il pol­so rea­le del­la si­tua­zio­ne, ma, non po­ten­do­lo fa­re a cau­sa del­la di­vi­sa che in­dos­sa­va, si ac­con­ten­tò di ac­cen­na­re una im­per­cet­ti­bi­le smor­fia che tut­ta­via l’ora­to­re col­se e par­ve non gra­di­re, an­zi non gra­dì af­fat­to, tan­to è ve­ro che, da al­lo­ra, gli le­vò il sa­lu­to.

    As­si­so sul­la taz­za, ri­pen­sò al­la vo­ce che lo ave­va sve­glia­to e a quan­to gli ave­va si­bi­la­to al te­le­fo­no.

    «Un fur­to al mu­ni­ci­pio. Per ru­ba­re co­sa? Do­cu­men­ti, car­te d’iden­ti­tà, com­pu­ter, ap­pa­rec­chi te­le­fo­ni­ci, stam­pan­ti? Ma che il dia­vo­lo se li por­ti, a que­sti de­lin­quen­ti da quat­tro sol­di! Tut­ti or­mai han­no il cel­lu­la­re ap­pe­so al­la cin­to­la, che sem­bra una pi­sto­la, e que­sti che fan­no? Van­no in un edi­fi­cio pub­bli­co per fre­gar­si i te­le­fo­ni! E a che li ri­ven­do­no, che fan­no schi­fo? Ed i pic­cì, poi, o co­me dia­vo­lo si chia­ma­no, che so­no dell’an­te­guer­ra, co­me an­che le stam­pan­ti!», si in­caz­za­va fra sé e sé, im­ma­gi­nan­do­si un fur­ta­rel­lo co­me tan­ti al­tri, co­me quel­li che av­ve­ni­va­no sem­pre più di fre­quen­te nel­le ca­se dei pri­va­ti cit­ta­di­ni di Ru­vo di Pu­glia.

    Do­po la se­du­ta quo­ti­dia­na, for­za­ta­men­te an­ti­ci­pa­ta da­gli even­ti e nean­che tan­to ben riu­sci­ta per­ché per quel­le co­se ci vo­glio­no cal­ma, il giu­sto tem­po e la giu­sta con­cen­tra­zio­ne, ben sbar­ba­to giac­ché non po­te­va far­ne a me­no, ave­va in­dos­sa­to di ma­la­vo­glia la di­vi­sa d’or­di­nan­za e si era re­ca­to in ca­ser­ma, do­ve di pian­to­ne c‘era Ca­ta­la­no. Que­sti, quan­do lo vi­de a quell’ora in­so­li­ta ap­pa­ri­re con im­pe­to di cor­ren­te d’aria, si al­zò di scat­to e per po­co non gli pre­so un col­po, giac­ché al­le sor­pre­se non ci era abi­tua­to né ci te­ne­va ad abi­tuar­vi­si.

    «Qual­co­sa me­na ma­le, as­sai ma­le, trop­po ma­le», si dis­se l’ap­pun­ta­to, squa­dran­do dal­la te­sta ai pie­di il ca­pi­ta­no Mi­la­no, che in­tan­to si era se­du­to al­la sua scri­va­nia.

    «Do­ve so­no gli al­tri? E la pat­tu­glia do­ve si tro­va?», gli do­man­dò il ca­pi­ta­no, but­tan­do all’aria il cap­pel­lo.

    «Gli al­tri, si­gnor ca­pi­ta­no? Pren­do­no ser­vi­zio fra po­co. E che ne so io del­la pat­tu­glia? Può tro­var­si do­vun­que», gli ri­spo­se ti­mo­ro­so Ca­ta­la­no.

    «Amal­ga­ma, ci vuo­le amal­ga­ma!», sbrai­tò il ca­pi­ta­no Mi­la­no, Mi­la­no Ora­zio.

    CAPITOLO II

    Sono penetrati nel municipio

    «Aiel­lo, mi sen­ti? Pron­to, pron­to, Aiel­lo, do­ve ca­vo­lo stai con quell’al­tro mor­to di son­no?», gri­dò Ca­ta­la­no al mi­cro­fo­no. Chia­ma­va la pat­tu­glia, ma la pat­tu­glia non da­va se­gni di vi­ta. Sem­bra­va es­se­re sta­ta ri­suc­chia­ta dal­la not­te, una not­te as­sai buia, sen­za stel­le né lu­na.

    Pro­va­va e ri­pro­va­va, men­tre il ca­pi­ta­no, dal­la stan­za at­ti­gua al­la sua, im­pre­ca­va: ne ave­va fin so­pra i ca­pel­li del­le pat­tu­glie, del­le de­nun­ce, del­le te­le­fo­na­te not­tur­ne, del­la mo­glie che mai si al­za­va di not­te per pre­pa­rar­gli un buon caf­fè.

    «Non c’è più ri­spet­to per l’uo­mo né per la di­vi­sa», l’ave­va più vol­te rim­pro­ve­ra­ta, men­tre lei, che ne ave­va pie­ne le ta­sche di tur­ni fuo­ri ora­rio e di gi­te an­nun­cia­te ed abor­ti­te, non gli ri­spon­de­va af­fat­to o gli ri­spon­de­va con un’al­za­ta di spal­le. L’uo­mo che ave­va spo­sa­to, il ca­pi­ta­no Mi­la­no, non cor­ri­spon­de­va esat­ta­men­te al suo idea­le di uo­mo, e lei, di tan­to in tan­to, quan­do ce l’ave­va stor­to, ma­le­di­ce­va, co­sa as­sai gra­ve e da evi­ta­re, sua ma­dre, che le ave­va ino­cu­la­to co­me si ino­cu­la un ve­le­no, len­ta­men­te, l’idea che nel­la vi­ta oc­cor­re es­se­re pra­ti­ci, far­si be­ne i con­ti, se­gui­re po­co o per nul­la la si­nu­soi­de del cuo­re e ri­flet­te­re, ra­gio­na­re, co­me se il cer­vel­lo, an­ch’es­so, non fos­se pre­da di di­sor­di­ni e di qua­li di­sor­di­ni!, tan­to da fa­re il sol­le­ti­co all’anar­chia. «Quel ca­ra­bi­nie­re», le di­ce­va sua ma­dre, «fa­rà car­rie­ra, ve­drai. E poi ha un un di­scre­to fa­sci­no, un bel na­so pro­nun­cia­to, le orec­chie gran­di, se­gno che cam­pe­rà a lun­go. E poi tu sei or­mai sta­gio­na­ta­tel­la. Ce­di, fi­glia mia bel­la, e be­ne­di­rai in eter­no la tua ge­ni­tri­ce». E lei co­sì fe­ce, pie­gan­do, co­me sem­pre ac­ca­de ad una cer­ta età, l’idea­le al rea­le. Ma sul­la tom­ba del­la ma­dre, per ri­pic­ca, non ci an­da­va qua­si mai, e quan­do ci an­da­va nel por­ta­fio­ri ci la­scia­va un fio­re di pla­sti­ca.

    «Pron­to Aiel­lo, Bot­ta­li­co, mi sen­ti­te?», ri­ten­tò l’ap­pun­ta­to, il qua­le pu­re lui co­min­cia­va a per­de­re la pa­zien­za.

    «Sia­mo qui, Ca­ta­la­no, a tua di­spo­si­zio­ne», grac­chiò fi­nal­men­te la ra­dio. Grac­chiò co­sì for­te che l’ap­pun­ta­to fe­ce una smor­fia di do­lo­re e pre­se a sma­don­na­re co­me un tur­co.

    «Sì, a mia di­spo­si­zio­ne un cac­chio! Ma è pos­si­bi­le che tut­te le vol­te vi de­vo chia­ma­re all’in­fi­ni­to pri­ma che ri­spon­dia­te?», si al­te­rò il pa­ci­fi­co Ca­ta­la­no, al qua­le non an­da­va pro­prio di ar­rab­biar­si, non es­sen­do­ci por­ta­to per in­do­le e un po’ per in­do­len­za. Ma, poi­ché il ca­pi­ta­no Mi­la­no in­si­ste­va tan­to, e si in­fu­ria­va, e le spa­ra­va gros­se ver­so di lui ed i suoi col­le­ghi, per fa­re bel­la fi­gu­ra ed at­tu­tir­ne i col­pi si fe­ce di­li­gen­te ed au­to­ri­ta­rio. E sic­co­me per lui au­to­ri­ta­rio era chi al­za­va il to­no del­la vo­ce, ec­co che si iner­pi­cò sul­la sca­la dei de­ci­bel si­no a toc­ca­re lo sca­li­no più al­to che po­te­va rag­giun­ge­re.

    «Uei, Ca­ta­la’, non al­za­re la vo­ce, non sia­mo mi­ca sor­di. Dim­mi, che c’è?», ri­spo­se pic­ca­to Bot­ta­li­co, un gio­va­not­to al­to e ro­bu­sto a cui la di­vi­sa an­da­va un po’ stret­ta, trop­po stret­ta, an­zi non era pro­prio la ta­glia sua. Lui, quand’era di­nan­zi al pub­bli­co, but­ta­va la pan­cia in den­tro, e ciò gli co­sta­va una fa­ti­ca del dia­vo­lo, an­che per­ché sfi­do chiun­que a ri­spon­de­re al­le do­man­de del­la gen­te col fia­to so­spe­so. Co­sì, tal­vol­ta, gli ve­ni­va­no fuo­ri del­le fra­si che il suo in­ter­lo­cu­to­re non riu­sci­va a com­pren­de­re che sen­so aves­se­ro, se quell’ap­pun­ta­to aves­se pre­so ap­pun­ti o vin­to ai pun­ti non si sa che co­sa. Ma lui non ce la fa­ce­va pro­prio a sta­re in apnea per ol­tre due mi­nu­ti sen­za ri­pren­de­re fia­to, e co­sì, men­tre si sgon­fia­va co­me un pal­lon­ci­no bu­ca­to, con or­ro­re os­ser­va­va riar­cuar­si il ven­tre, che in­ve­ce la­scia­va ve­leg­gia­re li­be­ro a ca­sa sua, e ac­col­li­nar­si la di­vi­sa. Scon­fit­to, con aria me­sta ri­pe­te­va all’in­ter­lo­cu­to­re quan­to gli ave­va ap­pe­na det­to, scan­den­do be­ne le pa­ro­le, per­ché a lui di pas­sa­re per de­men­te que­sto no, pro­prio non gli an­da­va giù. Ma poi c’era che quel pae­se era po­po­la­to da con­ta­di­ni che con la lin­gua ita­lia­na non in­trat­te­ne­va­no buo­ni rap­por­ti, e lui, che non era di quel­le par­ti, si con­so­la­va pen­san­do che l’in­co­mu­ni­ca­bi­li­tà era do­vu­ta al­la fin fi­ne all’igno­ran­za al­trui piut­to­sto che al­le sue in­spi­ra­zio­ni for­za­te.

    «Pa­re che sia­no an­da­ti a fa­re vi­si­ta al mu­ni­ci­pio sta­not­te»", dis­se Ca­ta­la­no.

    «Chi ci è an­da­to a fa­re vi­si­ta?», lo in­ter­ro­gò Aiel­lo.

    «I fan­ta­smi, Aiel­lo, ci so­no an­da­ti i fan­ta­smi, gli spet­tri, gli spi­ri­ti! San­to cie­lo, Gen­na­ro, non è que­sto il mo­men­to più adat­to per scher­za­re!», ri­spo­se se­rio­sa­men­te Ca­ta­la­no.

    Vi­ci­no a lui vi era il ca­pi­ta­no, al qua­le lui striz­zò l’oc­chio si­ni­stro in cen­no d’in­te­sa, men­tre la pal­pe­bra di quel­lo de­stro pre­se a vi­brar­gli a cau­sa di quel­la pre­sen­za che in­com­be­va mi­nac­cio­sa su di lui, co­me una nu­vo­la ca­ri­ca di piog­gia, e che gli da­va sui ner­vi.

    «Pa­re che ci sia sta­to un fur­to al mu­ni­ci­pio. Un uo­mo – era un uo­mo, ca­pi­ta­no? – Sì, pro­prio un uo­mo ha te­le­fo­na­to e ci ha av­ver­ti­ti che il por­to­ne del mu­ni­ci­pio è aper­to, spa­lan­ca­to. Fa­te­ci un sal­to e poi ri­fe­ri­te su­bi­to, im­me­dia­ta­men­te, va be­ne?», con­clu­se l’ap­pun­ta­to, che pas­sò e chiu­se sot­to lo sguar­do ar­ci­gno del suo su­pe­rio­re.

    «Ca­ta­la­no, co­me sa­reb­be a di­re su­bi­to, im­me­dia­ta­men­te! O su­bi­to o im­me­dia­ta­men­te: so­no si­no­ni­mi, e non si pos­so­no usa­re in cop­pia», os­ser­vò il ca­pi­ta­no al­lon­ta­nan­do­si a pas­so de­ci­so ver­so la sua stan­za.

    Ca­ta­la­no non re­pli­cò, an­che per­ché chis­sà co­sa ca­vo­lo era­no i si­no­ni­mi! Se non po­te­va­no usar­si in cop­pia, pen­sò fra sé e sé, al­lo­ra era­no senz’al­tro co­se brut­te, in­no­mi­na­bi­li, re­pel­len­ti.

    Co­se con­tro na­tu­ra.

    CAPITOLO III

    Io non sono Leopardi e tu non sei Ugo Foscolo

    La pat­tu­glia giun­se sul luo­go del fat­tac­cio che era­no ab­bon­dan­te­men­te pas­sa­te le sei.

    Un ca­pan­nel­lo di per­so­ne os­ser­va­va il por­to­ne del­la ca­sa co­mu­na­le, schiu­so, trop­po schiu­so. Nes­su­no ave­va usa­to in­tro­dur­si nell’an­tro oscu­ro di quel pa­laz­zo del XVII se­co­lo. Ave­va­no sbir­cia­to un tan­ti­no; un tan­ti­no in­tru­fo­la­to le te­ste ap­pe­na ol­tre la so­glia, ma, lo giu­ra­ro­no in co­ro ai due ca­ra­bi­nie­ri, no, non c’era­no en­tra­ti.

    Nei pres­si del­la ta­bac­che­ria di piaz­za Re­gi­na Mar­ghe­ri­ta, per i no­stal­gi­ci dei rea­li, o piaz­za Mat­teot­ti, per i re­pub­bli­ca­ni, si era in­tan­to for­ma­to un al­tro croc­chio di brac­cian­ti gior­na­lie­ri che pia­no pia­no si in­gros­sa­va. Par­lot­ta­va­no tra lo­ro fit­to fit­to, fu­ma­va­no e sca­tar­ra­no che era un pia­ce­re.

    Que­sti se ne sta­va­no in di­spar­te; sem­bra­va­no iso­la­ti dal re­sto, ed in ef­fet­ti lo era­no, ma non in vir­tù di quel con­ti­nuo e sfron­ta­to spu­tac­chia­re, as­sai sgra­di­to all’oc­chio e all’orec­chio di uo­mi­ni e don­ne. Lo era­no, in fin dei con­ti, per una ra­gio­ne di co­scien­za. Di­fat­ti, i brac­cian­ti agri­co­li, quel­li che la­vo­ra­no a gior­na­ta, quan­do sì e quan­do no, non go­de­va­no del­la sim­pa­tia ge­ne­ra­le, o me­glio di quel­la di chi per­ce­pi­sce un red­di­to fis­so e dei com­mer­cian­ti ru­ve­si. Dei pri­mi, per­ché co­sto­ro si sen­ti­va­no de­bi­to­ri ver­so di lo­ro, con la co­scien­za a di­sa­gio nei ri­guar­di di que­gli uo­mi­ni che non ave­va­no avu­to for­tu­na e che cam­pa­va­no strap­pan­do la vi­ta ben al di là del­le or­di­na­rie pe­ri­pe­zie. Dei se­con­di per­ché, es­sen­do co­sto­ro pe­ren­ne­men­te a cre­di­to nei lo­ro ri­guar­di, pro­va­va­no a lo­ro vol­ta di­sa­gio nel chie­de­re de­na­ro a chi a ma­la­pe­na riu­sci­va ad ac­qui­sta­re un pa­io di scar­pe e un abi­to all’an­no.

    E sic­co­me lì, in quel luo­go e in quel gior­no co­me al­tro­ve ed in tut­ti gli al­tri gior­ni, nel­le an­ti­ca­me­re dei me­di­ci o nel­le se­zio­ni di par­ti­ti, i brac­cian­ti ri­sul­ta­va­no in mi­no­ran­za, que­sti se ne sta­va­no per i fat­ti lo­ro, a de­si­de­ra­re con lo sguar­do e a fa­re com­men­ti in­no­cen­te­men­te ever­si­vi, da ade­ren­ti ad una cel­lu­la ri­vo­lu­zio­na­ria che, vin­ti dall’eter­na glo­ba­liz­za­zio­ne dei ric­chi sui po­ve­ri, ave­va­no in­fi­ne ap­pe­so al chio­do tut­te le lo­ro uto­pie.

    «Ma­re­scia’, e che ci en­tra lì den­tro! Ci pos­so­no es­se­re an­co­ra i la­dri. E poi le im­pron­te dei pie­di e quel­le di­gi­ta­li! Se uno di noi, tan­to per dir­ne una, aves­se sa­li­to la ram­pa di sca­le che por­ta all’an­ti­ca­me­ra del sin­da­co, non avreb­be la­scia­to del­le trac­ce, del­le im­pron­te, dei se­gni? Po­te­va pas­sa­re un gua­io con i fioc­chi, o no?», dis­se un uo­mo sul­la qua­ran­ti­na, ci­gliu­to e col na­so schiac­cia­to, ri­vol­gen­do­si a Bot­ta­li­co.

    «Le im­pron­te dei pie­di si chia­ma­no or­me, or­me, non im­pron­te dei pie­di, è chia­ro? Ma qua­li la­dri vuo­le che ci sia­no do­po non so quan­to tem­po dall’av­ve­nu­to fur­to, am­mes­so che di fur­to si trat­ti. I la­dri so­no la­dri, non tu­ri­sti a spas­so. Co­mun­que, ave­te fat­to be­ne a non sa­li­re», ri­spo­se Bot­ta­li­co che, chia­ma­to il suo col­le­ga, si in­tro­dus­se nel mu­ni­ci­pio.

    «Sen­ta, mi fac­cia la cor­te­sia di bloc­ca­re chi ten­tas­se di en­tra­re», sog­giun­se all’uo­mo che gli ave­va ri­vol­to la pa­ro­la. Bot­ta­li­co non l’ave­va ri­co­no­sciu­to, ma quell’uo­mo, cer­to Gae­ta­no Si­ni­ga­glia, era me­glio no­to co­me Toc­ca­tae­fu­ga o Pu­gno­chiu­so, a se­con­da del ti­po di rea­to che com­met­te­va. Co­stui si stu­pì al­quan­to del­la ri­chie­sta, ma non se la sen­tì di ri­fiu­ta­re una cor­te­sia all’av­ver­sa­rio sto­ri­co. E co­sì si piaz­zò sull’uscio co­me un co­los­so, le spal­le sol­le­va­te e lo sguar­do fie­ro e tru­ce, su­sci­tan­do lo sghi­gnaz­zo di chi ne co­no­sce­va le ful­gi­de ge­sta.

    Si sen­tì un’al­tra per­so­na, Gae­ta­no, e per un istan­te rim­pian­se di es­ser­si da­to al­le ru­be­rie, e ma­le­dis­se pu­re la ca­sa do­ve era na­to, per ca­so e sen­za vo­ler­lo, per­ché, se aves­se po­tu­to sce­glie­re do­ve na­sce­re, avreb­be sug­ge­ri­to al Pa­dre­ter­no una di­ver­sa de­sti­na­zio­ne, una reg­gia o una ca­sa di gen­te col­ta o, più sem­pli­ce­men­te, di per­so­ne one­ste. «Ah, l’eter­no pi­sil­lis», so­spi­rò Gae­ta­no, che ne­gli an­ni era

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