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Sette stanze
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E-book200 pagine3 ore

Sette stanze

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Info su questo ebook

Anton Eastman si rifugia nella casa che lo ha visto

crescere, ormai quasi vuota, dopo un evento tragico. La sua vita è un

completo disastro, dedicata a tutto tranne che a ciò che è sempre stato e

la soluzione più semplice sembra essere la più drastica. Il contatto con

ciò che aveva lasciato, però, lo porterà a scoprire nuove cose di sé e a

ritrovarsi, trovando l'amore
LinguaItaliano
Data di uscita5 dic 2019
ISBN9788831650694
Sette stanze

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    Anteprima del libro

    Sette stanze - Paola Ferrero

    P.

    LA SALA DA PRANZO

    Anton Eastman guardava dalla finestra del suo appartamento di sette stanze. Era solo, frastornato dal viaggio e dagli avvenimenti dell’ultimo periodo. In realtà era solo da sempre, concentrato com’era sui soldi e sul successo. Almeno fino al giorno prima.

    Qualcosa in lui si era spezzato. Ancora non sapeva cosa, ma era scappato da Londra e dal lavoro in un lampo ed era tornato alla vecchia casa della madre, in Italia. Vuota, polverosa e scura. Aveva aperto le finestre e guardato verso il mare a lungo, cercando di sopire quella sensazione di angoscia che gli stringeva il cuore già provato. Ma non ci riusciva, non bastava sapere il movimento regolare di quella massa grigio azzurra vicina ma non visibile da casa, un lento respirare ipnotico senza sosta. Si tolse gli occhiali dal naso, tanto a seguire l’orizzonte ci riusciva anche senza e, una volta agganciata la stanghetta al taschino della camicia bianca, si massaggiò gli occhi stanchi con le dita. Stava per arrivare un bel mal di testa a completare la sua sensazione di essersi perso.

    Ma perso dove, non lo sapeva. Era cominciata il giorno prima. Si era seduto alla scrivania e aveva guardato l’agenda con aria assente, ascoltando la voce della segretaria che gli ripeteva cantilenando nel suo accento londinese gli appuntamenti del giorno, senza capire una sola parola di quello che lei gli stava dicendo. Allora aveva sentito una fitta al centro del petto, che aveva razionalmente interpretato come un dolore intercostale dovuto alla sua insistenza nel fare sport nonostante l’avanzare dell’età. Non che fosse vecchio, non esistevano vecchi di cinquantatré anni in Europa. Solo, forse, non esattamente in forma; non dopo l’infarto. Ingobbito psicologicamente dallo stress, teso nella performance ogni dannatissimo istante. Come sempre, da quando era ragazzo. Teso a dimostrare di essere all’altezza delle aspettative, mai sicuro di esserlo davvero. Eppure i risultati c’erano stati, prima a scuola, poi all’università, al lavoro… E con le donne. Mai avuto problemi a portarne a letto anche due o tre per volta, complice un bell’aspetto, il fisico scolpito e l’aria da sbruffone.

    Ecco, ora che a qualche chilometro il cielo e il mare si confondevano quel poco che basta lungo la linea dell’orizzonte, se proprio fissava laggiù dove non c’era nulla, allora si sentiva meglio. Riusciva a respirare. Sì, poteva farcela. Poteva restare lì e respirare.

    Così, mentre il sole altrove calava immergendosi nell’acqua del Mediterraneo, Anton Eastman scendeva lentamente verso il pavimento appoggiandosi alla porta finestra con le mani, quasi piegato in due da un dolore impalpabile. Lacrime calde solcavano il suo viso, ma lui non le sentiva. Non sentiva più niente.

    Il mattino successivo, la porta d’ingresso al fondo del lungo corridoio si aprì. La donna di mezza età, appesantita da un paio di gravidanze di troppo, entrò ciabattando portando con sé una borsa macilenta di un colore indefinito tra il grigio e il marrone. Subito dietro di lei, come spinta dalla violenza di un gesto rabbioso, la porta si richiuse indelicata. Maria, che puliva quella casa da troppi anni per non conoscerne i suoni, sobbalzò. C’era una finestra aperta da qualche parte, ma lei era certa di averle chiuse tutte. Forse erano entrati i ladri, ma per quale motivo? La casa, si sapeva, era vuota da anni. Nulla che avesse un minimo di valore era stato abbandonato tra quei quattro mobili. Dalla morte della proprietaria nessuno era mai venuto, oltre al notaio e un lontano cugino che avevano inventariato oggetti e quadri e provveduto a venderli al migliore offerente. Al figlio della signora Valeria evidentemente non era parso importante rientrare dalla siti per i funerali. D’altra parte non lo si vedeva in città da tanti di quegli anni…

    La signora Maria percorse il corridoio quasi in punta di piedi, come se aspettasse di trovare una banda di zingari pronta ad aggredirla. Giunta alla sala da pranzo, invece, notò la porta finestra spalancata e un fagotto bianco un po’ troppo grande per essere solo una camicia. C’era un uomo accasciato a metà della finestra, con le gambe ripiegate accanto al corpo. Come fosse svenuto. Si avvicinò piano, incerta. Non sapeva chi fosse, ma non avendo notato i segni di uno scasso era certa che non fosse un ladro. Sperò che l’uomo fosse vivo, almeno per evitarsi lo strapazzo della chiamata alla polizia. Ne aveva fatte, di chiamate negli anni, in quella città. Nel sobborgo da cui proveniva, era facile assistere a scoppi d’ira improvvisi: mogli e mariti, automobilisti in cerca di parcheggio, strozzini e poveracci… Aveva visto di tutto, Maria. E aveva chiamato gli sbirri quando serviva davvero, quando c’era sangue o c’erano dei bambini da proteggere. Ma ora no, non era il caso.

    Riconobbe Anton per averlo visto in qualche fotografia recente, non certo per quello che vedeva al momento. Lui poteva anche essere un viso noto, eppure la sua foto in giacca e cravatta, accanto a una bellissima donna in bianco, non campeggiava da tempo sul comò nella stanza della padrona di casa. Era un ricordo vecchio, anche quello. Non tanto per gli anni trascorsi sul comò, quanto per la rapidità con cui si era estinto quel sentimento che aveva portato a pronunciare il fatidico sì. Come quasi tutte le passioni di Anton, le aveva detto la signora Valeria, anche quella era sfumata in un soffio. Sì, il matrimonio era durato un po’ di più del sentimento, più per convenienza e convenzione che per necessità. Non era una novità; diciamo che era una tendenza di famiglia: il padre di Anton non era mai stato un gran marito, la signora Valeria l’aveva sempre detto, ma aveva anche nutrito la speranza che il figlio fosse diverso. Invece…

    Quindi il figliol prodigo era ritornato. Tardi. Maria scoprì di provare rabbia per quell’arrivo, quasi Anton avesse violato il silenzio di quelle sette stanze semivuote in cui i passi rimbombavano con la sua presenza. Non era il suo posto. Non lo era da tanto. Le piccole abitudini di Maria e della sua datrice di lavoro non avevano a che fare con la presenza maschile. Dopo la morte della padrona era rimasta solo Maria, incaricata da una voce nasale al telefono di dare un’occhiata quello che restava dell’appartamento un paio di volte a settimana per un compenso decoroso. E ora, cosa?

    Anton si mosse, come avesse sentito nel dormiveglia la presenza ingombrante della donna. Maria si spostò, incerta se destarlo del tutto o lasciarlo lì fino a che non si fosse consumato, mangiato dalla polvere. O dalla ruggine che il suo cuore di ferro doveva per forza produrre. Non poteva essere diverso.

    Preferì dimenticarsi della sua esistenza, come lui si era dimenticato della sua casa e della sua città. In fondo l’alloggio era abbastanza grande per non incontrarsi se non per sbaglio. Sette stanze erano tante. A volte anche troppe. Indietreggiò, osservando incantata un sottile filo di bava che colava dal lato della bocca di Anton e brillava dei raggi del sole spinti dal mare distante. Scappò, quasi, al successivo movimento dell’uomo che tuttavia non si svegliò. Maria si chiese da quanto tempo fosse lì, prima di voltarsi e andare a pulire la cucina. O a fingere di farlo. A parte la polvere che continuava a tornare, nessuno abitava quella casa.

    Anton si svegliò che il sole era caldo e alto sul mare. Aveva dolori ovunque e non si ricordava dove fosse. Non subito, almeno. Fu soprattutto l’odore della città natale a riportare alla sua mente alcuni ricordi sopiti dal tempo e da una forza di volontà potente. Qualcuno si muoveva per casa, ma quel posto non interessava nessuno e a meno che non si trattasse di un fantasma l’unica presenza possibile era la donna delle pulizie. Un tempo, in quella casa, era stato felice. Non si ricordava nemmeno un motivo preciso, forse non c’era. Poi era fuggito, anche da lì, come aveva imparato benissimo a fare. Non sapeva esattamente quando era cominciata la sua fuga. Ma era stanco e lo faceva da talmente tanto tempo che non sapeva né il motivo per cui scappava ancora, né da cosa.

    Si alzò, lentamente, con i crampi che gli devastavano le gambe protestando per la notte a mezzo sul balcone. Aveva un gusto orribile in bocca, misto tra acido e metallico. Come dopo una sbronza. Eppure non aveva bevuto molto prima di affrontare la casa di sua madre. No, non molto. Solo non ce la faceva ad arrivare sobrio. Entrare nel vuoto dell’appartamento era stato difficile comunque. Anche da bevuto. Aveva sentito i passi scricchiolare sulla polvere, presente nonostante le pulizie della signora che era rimasta a servizio. Lo spazio sotto la porta d’ingresso aveva sempre lasciato entrare quintali di sabbia sottile e nessuno aveva mai pensato di porre un qualsiasi rimedio. Aveva sentito l’eco dei suoi passi dopo che la porta si era richiusa, visto i fantasmi dei pochi mobili rimasti, coperti da pezzi di tessuto sottile e ormai grigiastro nonostante il lavaggio recente, evidente a causa solo del profumo di bucato che aleggiava per casa. Un misto di sapone Marsiglia e fiori di lavanda che lo riportava all’infanzia. Un profumo che aveva sentito solo lì e che gli faceva male al cuore. Per quello aveva spalancato la finestra e aveva cercato di cancellarlo con l’odore del mare e della città, del poco traffico e del kebabbaro all’angolo. Ma non era servito e la sensazione di soffocare era stata così forte da farlo crollare.

    Ora sentiva di poter affrontare gli spettri della casa e scoprire i mobili, vedere se poteva sistemarsi per qualche tempo, un tempo indefinito, pochi giorni… Chi lo sapeva? Lui no di sicuro. Non sapeva nemmeno perché era tornato. Non ne aveva motivo e in fondo poteva permettersi di andare ovunque. I soldi non erano un problema. Che cosa era un problema, allora?

    Raggiunse l’angolo dove aveva abbandonato l’unica valigia che si era portato dietro. Non ricordava nemmeno in modo preciso quello che conteneva, cosa aveva deciso essergli fondamentale per scappare. Si toccò il mento, perplesso, e decise di cominciare sbarbandosi. Il bagno sapeva dov’era e sentiva la donna muoversi sempre alla medesima distanza da lui, come un gatto che sa esattamente quanto lunga sia la catena del cane che ha di fronte. Era chiaro che nessuno dei due aveva voglia di incontrare l’altro. Forse non era tempo. Così raccolse il suo bagaglio e si diresse verso quella che un tempo era stata la sua stanza e che da un altro tempo era diventata una più formale stanza degli ospiti. Nel momento in cui Anton si era schierato dalla parte del padre, era come se la madre lo avesse chiuso fuori dal suo cuore. Eppure lui l’aveva amata, sua madre. A modo suo. O come aveva visto fare, giacché i figli spesso imparano più dall’esempio che dal proprio animo.

    Le piastrelle chiare del bagno contrastavano con la strana oscurità della casa, come un punto immune dalla decadenza che inquinava tutto il resto. Il lampadario era sparito, venduto a chissà chi come oggetto di valore, e lasciava lo spazio a un filo elettrico nero che terminava con un bulbo incandescente giallastro appena utile a vedersi allo specchio. Quest’ultimo, con mensola incorporata, era rimasto a tenere compagnia al lavabo e agli altri sanitari, mentre dietro la porta campeggiava un mobiletto in vimini che ancora conteneva qualche asciugamano. Forse qualcuno aveva passato del tempo nella casa, forse, invece, la signora Maria – così si chiamava, ricordò – aveva voluto lasciare qualche segno di una presenza umana in quell’appartamento cui era di sicuro affezionata. Accese la luce sopra allo specchio, bianca e efficace, appoggiò il beauty che aveva tolto dalla valigia senza sganciare gli elastici interni ed estrasse l’occorrente per la rasatura. La vecchia lama lunga di suo padre, che aveva imparato a usare fin da ragazzo col bicchiere di sapone alla mandorla e il pennello. Sfilò la camicia e l’appoggiò alla cesta della biancheria sporca, vuota. Sistemò tutto a portata di mano e iniziò, quasi senza guardare la sua stessa immagine riflessa nell’argento dello specchio. Si conosceva a memoria e si evitava volentieri. Certi sguardi non perdonano.

    Come quello di suo padre, il suo sguardo era capace di trasmettere terrore puro all’interlocutore. Aveva passato gli anni dell’adolescenza a esercitarsi allo specchio, lo stesso davanti al quale si stava radendo ora. Uno sguardo che sapeva essere fiero, orgoglioso, cattivo, severo. Suscitava rispetto e spesso bastava a sottomettere l’altro, senza una parola. Sapeva conquistare una donna, ma non la sapeva amare. Possedere, forse, non di più. Sapeva condannare. Sì, era uno sguardo che preferiva evitare di incrociare. Così fece ruotare il pennello lentamente nel bicchiere, lo riempì di sapone che allungò sul viso dove serviva senza guardare i confini, appoggiò la salvietta sulla spalla sinistra e cominciò a radersi. Pelo e contropelo, guardando il mento, il collo, le guance senza mai sbagliare ad alzare gli occhi, finché l’opera non fu completa. Sciacquò il viso, pulì l’attrezzatura con gesto meccanico e si lavò le ascelle. Non aveva sudato, ma aveva bisogno di rinfrescarsi comunque, di pulirsi. Senza pensarci rimise addosso la camicia del giorno prima e, una volta chiusa la maggior parte dei bottoni, uscì dal bagno sfiorando per pochi istanti il passaggio della signora Maria.

    Ora non sapeva che fare. Non voleva affrontare i suoi fantasmi con la presenza vagante e corpulenta della donna delle pulizie, quindi decise di uscire e andare al mare. Sperava che, essendo la fine di ottobre, in spiaggia non ci fosse la calca di agosto, certo di saper ritrovare i luoghi solitari in cui era sceso ogni estate con suo padre senza bisogno di chiedere istruzioni. Così, dopo aver preso automaticamente portafogli, cellulare e orologio, si mise in tasca le chiavi di casa e uscì senza salutare. Forse un giorno la signora Maria avrebbe superato la distanza di sicurezza, ma a lui ora non interessava. Scendendo le scale ripide che portavano al portone, un solo piano fatto quasi di corsa come da ragazzo, si ricordò delle volte in cui era fuggito da quella casa con sollievo. Forse i fantasmi non erano rimasti chiusi nell’appartamento, magari se li portava dietro da chissà quanto. Oppure erano scappati dal loro nascondiglio il mattino precedente e avevano deciso di fargli visita tutti insieme. Uscì dal portone con un vago senso di nausea, ricordandosi che non aveva fatto colazione e che in realtà non mangiava da un giorno o quasi, escludendo gli orribili stuzzichini del bar dove si era fermato a bere prima di tornare a casa di sua madre. A casa sua.

    La strada per il mare la ricordava istintivamente. Era lunga, ma non aveva impegni. Percorse la via senza guardarsi intorno, dritto come un fuso. Non ascoltò rumori, non annusò l’aria. Camminò fermandosi solo a prendere un tramezzino e un caffè a un bar qualsiasi, senza riconoscerlo e senza avere la possibilità di tornarvi se non sotto ipnosi. Mangiò meccanicamente, senza smettere di muoversi. Come rincorso da un’orda di cani invisibili, un passo dopo l’altro, un incrocio dopo l’altro. A lungo, senza sentire fatica. Il peso che si portava dietro, lo trascinava da talmente tanto tempo che non lo sentiva quasi più. Non dipendeva certo dagli eventi del giorno precedente, questo lo stava capendo sempre più profondamente e il senso di malessere che gli impediva di sentire la stanchezza nelle gambe era la forza che gli permetteva di camminare ancora. Non aveva nemmeno guardato l’orologio, voleva solo fermarsi davanti a quella massa d’acqua inquieta quanto lui e perdersi nell’andirivieni regolare del suo respiro.

    Finalmente lo vide, a una dozzina di chilometri da casa. Il mare. Verde e azzurro, che impone il silenzio con un regolare sshhh… Qualche gabbiano, qualche idiota che correva sulla battigia. E il resto era quiete, era un attimo di sollievo. Fissò l’acqua a lungo, senza porsi domande e limitandosi a far succedere un respiro all’altro. Poi si alzò, si ricordò di avere in tasca il cellulare e lo accese, come per cercare un contatto con quello che era. Un bip lo avvisò dei messaggi in segreteria. Era ovvio ce ne fossero. Ce n’erano sempre.

    La voce della segretaria, normalmente gradevole, aveva un suono metallico e impersonale nella registrazione. Diceva di essere preoccupata, che tutti lo stavano cercando, che il casino che era scoppiato il giorno precedente stava

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