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Il Novecento - Letteratura (72): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 73
Il Novecento - Letteratura (72): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 73
Il Novecento - Letteratura (72): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 73
E-book907 pagine11 ore

Il Novecento - Letteratura (72): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 73

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Nel mondo della letteratura, il Novecento è il secolo che sperimenta fino al limite, che mette in crisi più volte la funzione della parola scritta e la sua tradizione per poi più volte recuperarla. Il secolo inizia con l’esaltazione della velocità e termina con un ritorno alla lentezza, mette in crisi la concezione lineare del tempo e riscopre, nell’arco di un cinquantennio, lo spazio e il paesaggio, passa dalla fede nel progresso alla sua sfiducia, promuove la scomposizione – del racconto, del personaggio, delle forme poetiche - e finisce per ritrovare integro ciò che sembrava andato a pezzi, nasce nelle grandi metropoli europee e poi, con movimento centrifugo, torna alle periferie, alle province, ai microcosmi. Molto di ciò che si era preparato alla fine dell’Ottocento arriva a maturazione nei primi due decenni del secolo nuovo. L’analisi del profondo, delle strutture psichiche e percettive, dei meccanismi dell’io porta gli scrittori europei a portare alla luce l’inespresso. I nomi sono quelli di Proust, Joyce, Woolf, Mann, Kafka, Musil e Pirandello per la prosa, mentre nella poesia si riconoscono Rilke, Eliot, Pound, Valéry, Ungaretti, Montale, Garcia Lorca, Pessoa. In questo ebook viene illustrata tutta la letteratura del Novecento, portavoce della complessità di un’epoca e i traguardi che ha raggiunto nelle sue espressioni più recenti, dalle istanze sociali con Camus, Orwell, Gramsci, Elio Vittorini, Sartre, Pasternak, fino al postmodernismo di Borges e oltre.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2014
ISBN9788898828067
Il Novecento - Letteratura (72): Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 73

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    Il Novecento - Letteratura (72) - Umberto Eco

    copertina

    Il Novecento - Letteratura

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Il Novecento

    Letteratura

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alla letteratura del Novecento

    Marco Antonio Bazzocchi e Ezio Raimondi

    Nel mondo della letteratura, il Novecento è il secolo che rischia di più, che sperimenta fino al limite, che mette in crisi più volte la funzione della parola scritta e la sua tradizione per poi più volte recuperarla. Forse lo si può definire, anche dal punto di vista letterario, un secolo breve, ma, a guardarlo da vicino, sembra lunghissimo, interminabile, diramato in tutte le direzioni, capace di ritornare su se stesso, fra strade e sentieri.

    Il secolo inizia con l’esaltazione della velocità e termina con un ritorno alla lentezza, mette in crisi la concezione lineare del tempo e riscopre, nell’arco di un cinquantennio, lo spazio e il paesaggio, passa dalla fede nel progresso alla sua sfiducia, promuove la scomposizione (del racconto, del personaggio, delle forme poetiche) e finisce per ritrovare integro ciò che sembrava andato a pezzi, nasce nelle grandi metropoli europee (Parigi, Londra, Vienna, Berlino, Milano, Lisbona, Atene) e poi, con movimento centrifugo, torna alle periferie, alle province, ai microcosmi. Il Novecento conferisce alla letteratura una funzione conoscitiva centrale e questo mandato continua per tutto il secolo, anche se, soprattutto nel rapporto con la filosofia e la scienza, più volte il ruolo della letteratura rischia di essere abbassato a quello di un sottile gioco linguistico, e là dove si era intravista la ricerca del vero può tornare fuori, invece, l’intrattenimento, il kitsch. All’inizio del secolo le avanguardie sembrano rescindere ogni legame con il passato, all’insegna della modernità assoluta e della tabula rasa. I futuristi proclamano nello stesso tempo la fine della letteratura intesa come mezzo espressivo che segue regole tradizionali e la nascita di una nuova visione estetica complessiva dove sono coinvolte tutte le arti, dalla pittura alla musica al cinema, in una coesione che lascia in secondo piano proprio la parola scritta. Non è un caso che sia la vita delle nuove città industriali il centro del loro interesse, e che la parola venga potenziata attraverso nuovissime tecnologie, come la macchina o l’aereo. Dopo Marinetti, nessun artista esalterà come lui la bellezza superiore dell’automobile in corsa e tanto meno fingerà di scrivere teorie estetiche dalla carlinga di un aereo in volo. Ma la frantumazione della sintassi e la rottura della logica lineare mostrano anche un riflusso del futurismo verso linguaggi primitivi, irrazionali, fatti di evocazioni sonore. È l’aspetto notturno del movimento, quello che porta Marinetti a recuperare, dopo l’incontro con Mussolini e Julius Evola, fantasie arcaiche e sogni di palingenesi. Ed è anche quella componente ribellistica e anticonformista che offre appoggio alle tecniche sensazionalistiche sfruttate poi dall’industria culturale, come aveva intuito un secolo prima Tocqueville. L’apporto più notevole del futurismo, e del conseguente cubismo nel quale confluisce, consiste nelle sperimentazioni tecniche che, inseguendo il mito della velocità e della percezione simultanea, scompongono le forme letterarie con inedite operazioni di frantumazione e montaggio. Sono innovazioni che, assunte poi dal cinema, ritornano di nuovo a premere sulla letteratura, in particolare sul romanzo, per tutto il secolo. Dopo il futurismo, il surrealismo, fatto di tante anime diverse, porterà all’eccesso la sperimentazione, rovesciando il rapporto tra mondo della veglia e mondo onirico a favore del secondo, e prospettando una scrittura guidata dall’inconscio. Proclamerà il rappresentante maggiore del surrealismo, André Breton: Trasformare il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto Rimbaud. Queste due parole d’ordine sono per noi una sola. Molto di ciò che si era preparato alla fine dell’Ottocento arriva a maturazione nei primi due decenni del secolo nuovo. L’analisi del profondo, delle strutture psichiche e percettive, dei meccanismi dell’io, porta gli scrittori europei a elaborare grandi contenitori (romanzi, poemi, opere miste) dove questa analisi può inseguire nei particolari ogni sfumatura, insinuarsi negli interstizi, nelle zone d’ombra, portare alla luce l’inespresso. I nomi sono quelli di Proust, Joyce, Woolf, Mann, Kafka, Musil, Pirandello per la prosa, Rilke, Eliot, Pound, Valéry, Mandel’stam, Ungaretti, Montale, García Lorca, Pessoa, Gottfried Benn per la poesia. Con loro l’Europa letteraria, almeno fino agli anni Trenta, sembra una realtà coesa e sintonica. L’ipotesi che avvicina esperienze letterarie spesso tra loro dissimili sta nel valore di interpretazione totale del mondo che tutti questi scrittori sostengono. Anche quando nelle loro opere viene rappresentato l’assurdo, o l’inspiegabile, si tratta comunque di aspetti della realtà che hanno un valore esaustivo, e, soprattutto nel romanzo, i loro personaggi, pur scomposti in livelli multipli, diventano il prototipo dell’uomo europeo problematico. Nello straordinario romanzo La montagna incantata (Der Zauberberg, 1924), Thomas Mann immagina un personaggio, Hans Castorp, che si trova isolato in un sanatorio e partecipa ai dibattiti di idee che percorreranno tutta la prima parte del secolo, tra rivoluzionari e conservatori. Per quanto riguarda i narratori, l’innovazione fondamentale deriva dalla presa di coscienza che un evento non si può più narrare secondo una progressione lineare, secondo una catena logica di cause e conseguenze come fosse un insieme chiuso. Ora l’evento non si conclude mai, come avviene nella Recherche di Proust, ma torna ogni volta osservato da un’angolazione diversa, moltiplicato e con l’effetto di simultaneità tipico dei sogni. Oppure sono i dettagli, i particolari ininfluenti a venire a galla, unendosi, come avviene nell’Ulysses (1922) di Joyce, in catene di immagini (flusso di coscienza) che contengono tante microsituazioni possibili appena accennate e non sviluppate, ma aperte in tutte le direzioni del tempo. Dal punto di vista tecnico, questa è la grande e forse l’unica vera invenzione del Novecento: il montaggio di un insieme di unità (frasi, o al limite minimo, solo parole) che scorrono sulla pagina come scorrono nella coscienza, e ricordano il flusso delle merci sul mercato della nuova economia. Robert Musil, nell’Uomo senza qualità (1930-1933, ma letto dopo il 1950) descrive le vicende di Ulrich, per il quale è venuta meno la coerenza tra il prima e il dopo, e il mondo è ormai un insieme disgregato che il narratore non può più fingere di tenere insieme, così come il personaggio non può applicare le sue straordinarie qualità a nessuno scopo reale, anche se persegue sempre il principio dell’esattezza. E Pirandello arriva a far raccontare la propria storia a un uomo che in realtà non è ormai nessuno, non ha identità se non quella che gli viene appunto dal raccontare come ha perso ogni identità possibile (Il fu Mattia Pascal, 1904). Al contrario di quello che avveniva nell’Ottocento, nel romanzo ormai l’azione è un elemento da ridurre al minimo, e tutto il secolo cercherà di ritrovare il modo per riavvicinarsi alla realtà dei fatti senza cadere in un realismo che ignora la complessità. A risultare vincente, per parecchi decenni, sarà proprio la grande invenzione del flusso di coscienza (cioè il montaggio illogico e veloce di singoli pensieri lasciati liberi) che diviene subito lo strumento privilegiato per rappresentare le malattie dell’inconscio borghese (per esempio in Schnitzler), o per tenere insieme enciclopedicamente, come in Hermann Broch, la molteplicità incontenibile dei linguaggi (lirico, naturalistico, drammatico e filosofico). Ben presto il grande antagonista della letteratura diventa il cinema, e ben presto la letteratura non sembra potersi più permettere ciò che il cinema riesce a rappresentare efficacemente. Il cinema ha assunto dalla grande letteratura ottocentesca alcune tecniche (il dialogo, il montaggio, il trattamento del tempo) e ora le riesce a potenziare grazie alla sua specificità visiva. Se un film racconta in due ore una storia complessa come quella che riguarda un eroe, o un ricco uomo d’affari, e crea l’immagine di un viaggio interstellare, o di un mondo futuro, la letteratura deve rivolgersi all’invisibile, evocare l’inconscio, alludere a ciò che sta oltre la realtà, riaprire mondi che sembrano perduti, e riprendere le grandi narrazioni arcaiche, i miti e le allegorie, facendole funzionare di nuovo nel moderno. Come avviene spesso con i nuovi generi, quello che viene sfruttato con intensità in un certo momento culturale, difficilmente riesce a sopravvivere a lungo. Prima della metà del secolo, le grandi forme narrative e poetiche moderne sono già usurate, non corrispondono più a esigenze collettive. Mentre la prima guerra mondiale sembrava aver macabramente realizzato ciò che molte avanguardie auspicavano (l’esplosione delle forme, la simultaneità, la scomposizione, l’impatto violento del reale sull’uomo), la seconda guerra mondiale diventa un ricco, emozionante periodo di formazione esperienziale che, finita la guerra, alimenta racconti, poesie, meditazioni. Due sono i momenti centrali: la Resistenza contro i regimi totalitari e la tragedia della Shoah, dalla quale escono alcuni dei racconti più intensi del secolo (Primo Levi, Jean Améry, Danilo Kis , Jorge Semprún, Imre Kertész) e la poesia di Paul Celan e di Nelly Sachs. Lo sradicamento, l’inspiegabilità del male, il senso di colpa sono i temi di queste opere, che si ricongiungono alla linea portante della letteratura dell’assurdo e vedono, alla metà degli anni Cinquanta, nel romanzo e nel teatro di Samuel Beckett il loro culmine (sono gli anni in cui Artaud sognava il suo teatro della crudeltà, tra ebbrezza e violenza). Un’umanità monca e ansiosa di esprimersi attraverso la propria anomalia fisica si ricongiunge così con un’umanità ferita e oltraggiata. Se da una parte abbiamo linguaggi completamente slogati e sospesi, al limite del balbettio infantile o folle, dall’altra la lingua intensa e criptica elaborata da Celan rappresenta l’unico strumento per trovare una voce adatta a esprimere un’esperienza oltre il comunicabile, di là dal soffocamento della vita quotidiana. E ancora nel 1962 René Char parlerà di una parola come arcipelago, alludendo alla frammentazione, all’isolamento, alla dispersione. Dal momento che le esperienze vissute durante la guerra sono cariche di significati, non sembra necessario sottoporle a elaborazione eccessiva. E spesso sono personaggi giovani, alle soglie dell’adolescenza, a diventare protagonisti delle nuove avventure. Si crea così una vera e propria categoria antropologica, quella del mondo giovanile, che prende sempre più piede durante la seconda metà del secolo, fino a imporsi nelle due contestazioni del 1968 e del 1977. Come dirà Italo Calvino (un lettore di Conrad e Kipling), a proposito della sua prima opera, Il sentiero dei nidi di ragno, gli scrittori cercano in questo momento di rendere l’intensità collettiva delle vicende, la forza diretta del racconto orale, il rapporto nuovo con il paesaggio (e i modelli letterari vengono spesso dall’America). Si ritorna così al racconto tradizionale, alla poesia narrativa, alla scrittura di meditazione, a forme dall’apparenza neutra la cui intensità è direttamente proporzionale ai fatti tragici che vengono evocati. Si forma una memoria sociale in cui la letteratura, come poi il cinema, acquista una funzione predominante, di conservazione e di denuncia. Non è un caso che alcuni grandi scrittori della prima metà del secolo siano soprattutto intellettuali impegnati a trattare temi di portata politica e sociale: Albert Camus, George Orwell, Antonio Gramsci, Arthur Koestler, Ignazio Silone, Elio Vittorini, Simone de Beauvoir, Simone Weil, Jean-Paul Sartre. Dopo la metà del secolo, forse anche per un esaurirsi rapido dell’intensità liberata nel decennio centrale, la letteratura è sempre più intenta a guardarsi e indagarsi, a riutilizzare le tecniche esasperandone la portata. Nel 1956, il successo improvviso di un romanzo come Il dottor Zivago di Boris Pasternak sembra riproporre un ritorno alla tradizione ma in realtà mostra come, sotto la superficie, si sia frantumata l’oggettività realistica e il romanzesco tolstoiano sia diventato oggetto di una operazione raffinata, ai limiti della parodia. La trama degli incroci continui tra le vicende dei personaggi denuncia la convenzionalità del racconto, su cui domina una concezione epica della natura e della storia. All’inizio degli anni Cinquanta si è già fatta strada, soprattutto in Italia, l’esigenza di un’uscita dalle strettoie del realismo, imposte spesso per ragioni ideologiche. Si consolida la fama di un grande scrittore anomalo, Carlo Emilio Gadda, autore di esperimenti narrativi fondati sul principio della deformazione e dell’accumulo polifonico, anche se saldamente ancorati alla tradizione del naturalismo francese. Gadda può essere avvicinato all’altro grande irregolare francese Louis Ferdinand Céline, non per gli argomenti trattati ma per il tentativo di elaborare una prosa emotiva, al limite visionaria, costruita come un flusso di parole che risvegliano un movimento vorticoso di immagini. Con Gadda, e con gli scrittori che si vogliono suoi allievi (in particolare Giovanni Testori, Alberto Arbasino e Pier Paolo Pasolini), nasce un nuovo modo di guardare alla cultura italiana, sia essa quella borghese ricca e industrializzata (Arbasino) sia quella popolare e in via di estinzione (Pasolini, che porterà la sua ottica disperata fin dentro l’esperienza cinematografica). All’inizio degli anni Sessanta, la proliferazione delle teorie, delle analisi critiche, l’ansia dei metodi e delle nuove discipline fanno della letteratura uno spazio di indagine privilegiato. Spesso le nuove opere nascono a ridosso delle teorie che interpretano le opere vecchie, in uno scambio soffocante che ricorda i matrimoni tra consanguinei delle famiglie aristocratiche. Da questo momento ogni racconto sembra costruito sulla memoria di altri racconti, alludere a qualcosa di precedente, chiudersi nel perimetro delle propria autosufficienza, mentre la poesia spesso si riduce a complicato virtuosismo linguistico, a struttura sonora, a evocazione di linguaggi specifici. Anche se, dopo le esperienze paralizzanti delle neoavanguardie, è proprio la poesia a riscoprire spesso le realtà particolari, i microcosmi nazionali, i linguaggi sommersi, e a rilanciare a livello collettivo l’urgenza di nuove meditazioni sull’io, sulla storia, sulla natura, sull’oralità della parola (si pensi a René Char per la Francia, a Seamus Heaney per l’Irlanda, ad Andrea Zanzotto per l’Italia). La letteratura prende l’aspetto di un raffinato bricolage, capace di evocare ogni tipo di discorso (politico, filosofico, artistico) senza che si riesca più a scorgere un suo carattere specifico che non sia quello di un’ironia saggistica. Le esperienze dell’école du regard avevano riassunto l’epoca in cui l’Europa si era trovata in piena civiltà dei consumi e l’individuo sembrava quasi assorbito dagli oggetti che lo circondano. Così Robbe-Grillet faceva coincidere interamente l’atto del narrare con la descrizione minuziosa della realtà, rinunciando per sempre alla finzione del personaggio e della trama, o lasciandone la traccia indebolita sullo sfondo. E la poesia era diventata, sul modello recuperato di Pound, una lunga enumerazione di caotici linguaggi che spezzano per sempre l’idea di un linguaggio lirico unitario ed espressivo di uno stato riconoscibile del soggetto. In questo modo il grande peso della soggettività, messa in crisi in molti ambiti filosofici, viene allontanato, o perlomeno messo tra parentesi. Restano i frammenti del suo essere. In Italia, un grande poeta premio Nobel come Montale dedica l’ultima fase della sua produzione (la raccolta Satura, del 1971) a questa entrata del quotidiano e del dimesso nel mondo della poesia, dove la figura stessa del poeta sembra riprodurre il grigio borghese senza qualità, a cui è rimasto come unica difesa un riso sardonico di fronte allo sfaldarsi delle cose.

    Alla ricerca di un difficile equilibrio

    Alla fine degli anni Settanta sembra rinascere sotto varie forme la possibilità del racconto, così come la poesia viene presa da una nuova urgenza di comunicare, soprattutto in pubblico, diventando performance, spettacolo. Nella Vie: mode d’emploi (1978) di Georges Perec la descrizione di un caseggiato parigino di dieci piani viene trasformata da un narratore esterno e onnisciente nel racconto di tutte le vite degli individui che vi abitano e di tutti gli oggetti che li circondano, facendo di innumerevoli descrizioni altrettanti micro-intrecci che spesso si collegano e interferiscono tra loro: la vita non più come libro ma come catalogo. Il modello adottato da Perec è quello del puzzle, il gioco di ricostruzione di una figura scomposta in frammenti irregolari. Nel 1980, Il nome della rosa di Umberto Eco sembra ridare forza all’insieme delle prospettive umanistiche che si alleano per sostenere un intreccio di indagine e ricerca spostato nel Medioevo ma continuamente allusivo al presente. Nel suo caso il puzzle è costituito dagli indizi che devono risolvere un giallo dal valore metafisico (nella linea che va da Chesterton a Brecht), ma nello stesso tempo il termine può essere riferito all’incastro di rimandi storico-eruditi che definiscono l’atmosfera del racconto, fruibile a livelli diversi: l’indagine, la ricostruzione storica, l’allusione filosofica. È l’inizio di una nuova epoca per il romanzo, che prende sempre più piede negli ultimi 20 anni del secolo per merito di alcuni autori le cui opere acquistano diffusione europea (Christa Wolf, Thomas Bernhard, Milan Kundera, Ian McEwan, Iosif Brodskij, Czeslaw Milosz, Martin Amis, José Saramago, Javier Marías, Umberto Eco, Antonio Tabucchi, Michel Tournier, Marguerite Yourcenar, Michel Houellebecq). Al di là delle poetiche che si rifanno al postmodernismo, di cui viene assunto come emblema lo scrittore argentino Borges, e che implicano una parodia di tecniche e forme, un gioco continuo e a volte irridente con le citazioni del passato, sembra ritornare in vita l’idea della letteratura come ricerca e indagine conoscitiva, senza niente di definitivo o di predeterminato. Arriva così al suo estremo l’ipotesi che aveva mosso la letteratura moderna, la visione dell’individuo come pluralità di esistenze, come incrocio di realtà possibili, addirittura compresenti negli stessi luoghi. Solo che ora non si tratta più di un io sprofondato nel tempo, moltiplicato in piani di visione successivi ma simultanei, né di un flusso di immagini che riassume la percezione densa e insostenibile della vita metropolitana. Il personaggio con cui si chiude il secolo è interamente portato sulla superficie, costruito come un collage di immagini e una collezione di istantanee. Non a caso l’ultima opera di Italo Calvino è dedicata a un individuo perplesso, il signor Palomar, che vorrebbe mettersi in rapporto con il mondo attraverso piccole porzioni di esso, e fallisce quasi sempre nel suo compito. E solo negli ultimi anni si afferma in tutta Europa la fama di uno scrittore modernista come il portoghese Pessoa, inventore di personalità multiple ognuna caratterizzata dall’uso di uno stile diverso: a lui il Nobel José Saramago dedica uno dei suoi romanzi più affascinanti, L’anno della morte di Ricardo Reis. Nello stesso tempo diventano internazionali alcuni autori che rappresentano il passaggio tra lingue e culture diverse, come il praghese francesizzato Milan Kundera o il russo americanizzato Vladimir Nabokov, o il giapponese anglicizzato Kazuo Ishiguro, supportati inoltre dall’industria cinematografica e giornalistica. La traduzione da una lingua all’altra, l’uso di linguaggi specifici, il passaggio dalla scrittura al cinema sono i segnali più rilevanti del destino della letteratura tra la fine del secolo e l’inizio di quello successivo: l’essere un ponte di comunicazione tra esperienze diverse, tra mondi piccoli e grandi, tra centri e periferie, tra punti di vista marginali e opinioni condivise pubblicamente. Così la letteratura è ancora alla ricerca di nuovi equilibri e di nuove esperienze tra i due poli del locale e del globale.

    Gli stili

    Il modernismo, uno stile europeo. La poesia

    Marco Antonio Bazzocchi

    Fin dall’inizio del secolo lo stile modernista in poesia avvicina esperienze di diversa provenienza e formazione, creando una specie di tendenza europea che si interrompe per intervalli più o meno lunghi ma ritorna in vita spesso, con continue variazioni e riprese. Importante è la mescolanza, nel testo poetico, di elementi del romanzo, con un emergere esplicito nella seconda metà del secolo di raccolte poetiche dalle caratteristiche narrative.

    Verso nuovi ritmi

    Dino Campana

    La notte

    1. Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell’Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo. Archi enormemente vuoti di ponti sul fiume impaludato in magre stagnazioni plumbee: sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva: tra il barbaglio lontano di un canneto lontane forme ignude di adolescenti e il profilo e la barba giudaica di un vecchio: e a un tratto dal mezzo dell’acqua morta le zingare e un canto, da la palude afona una nenia primordiale monotona e irritante: e del tempo fu sospeso il corso.

    2. Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio: mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente. Laggiù avevano tratto le lunghe vesti mollemente verso lo splendore vago della porta le passeggiatrici, le antiche: la campagna intorpidiva allora nella rete dei canali: fanciulle dalle acconciature agili, dai profili di medaglia, sparivano a tratti sui carrettini dietro gli svolti verdi. Un tocco di campana argentino e dolce di lontananza: la Sera: nella chiesetta solitaria, all’ombra delle modeste navate, io stringevo Lei, dalle carni rosee e dagli accesi occhi fuggitivi: anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo.

    D. Campana, Canti orfici e altri scritti, Milano, Mondadori, 1972

    In un saggio degli anni Sessanta, Il linguaggio mondiale della poesia moderna, Hans Magnus Enzensberger sostiene che la poesia moderna entra in una fase nuova pressappoco intorno al 1910. Nel 1908, infatti, appare la prima raccolta poetica di Ezra Pound, A lume spento, l’anno seguente escono il manifesto dei futuristi e Image à Crusoé di Saint-John Perse; nel 1910 esordiscono gli espressionisti in Germania, Velimir Chlebnikov in Russia, Costantinos Kavafis ad Alessandria; nel 1912 pubblicano Gottfried Benn (Morgue), Vladimir Majakovskij, Antonio Machado (Campos de Castilla), nel 1913 Guillaume Apollinaire (Alcools) e Giuseppe Ungaretti (le poesie poi raccolte nel Porto sepolto del 1917). Inizia così un processo di diffusione del linguaggio poetico che permette alla poesia di superare le barriere nazionali. I contesti provinciali in cui spesso queste poesie nascono e i linguaggi nazionali che utilizzano vengono proiettati su uno scenario mondiale. La caratteristica principale di questo nuovo linguaggio poetico è senza dubbio quella di essere spesso oscuro, ai limiti del comprensibile, fondato su analogie e metafore virtuosistiche, con apparente predominio del gioco formale sui contenuti. In un famoso libro degli anni Cinquanta, La struttura della lirica moderna (Die Struktur der modernen Lyrik, 1956), Hugo Friedrich sintetizza le difficoltà della poesia moderna in due indirizzi, riconducibili ad Arthur Rimbaud e a Stéphane Mallarmé: per il primo si tratta di liberare attraverso la lirica il linguaggio dalla logica, per il secondo di portare la lirica verso la perfezione astratta delle forme. Friedrich sintetizza con le due formule crollo dell’intelletto di André Breton e festa dell’intelletto di Paul Valéry, unite nello scopo di rifuggire dalla comprensibilità, dalla mediocrità e dal quotidiano, nella volontà di rendere la poesia una forma di espressione fine a se stessa, il cui contenuto sussiste soltanto grazie alla sua fantasia illimitata o al suo irreale giuoco di sogno, e non grazie a una riproduzione del mondo.

    Per Friedrich si tratta dunque di innovazioni tecniche, della ricerca esasperata di una nuova lingua distante dalla lingua d’uso. Per questo egli indica nel gruppo di poeti spagnoli che riscoprono il loro predecessore barocco Luis de Góngora (in occasione del terzo centenario della sua morte) quanto di meglio la poesia europea produce all’inizio del secolo: Antonio Machado, Ramon Jiménez, Jorge Guillén, Federico García Lorca, Vicente Aleixandre, Rafael Alberti. E si ferma sullo scritto di Apollinaire, L’esprit nouveau et les poètes (apparso nel 1918 sul Mercure de France), il proclama per la nuova libertà assoluta della poesia, libertà che consente al poeta di accogliere nei suoi testi qualsiasi oggetto, dalle cose più grandi e potenti a quelle più quotidiane, dalle innovazioni della tecnica ai miti del passato. Il fine di questa poesia è la sintesi del conoscibile, una mescolanza veloce ed efficace di oggetti disparati che hanno come scopo quello di provocare stupore. Ne derivano le più importanti soluzioni formali. Friedrich parla di una esplicita ostilità verso la frase che caratterizza questa poesia, e di una ricerca della contrazione, di un’alterazione esplicita della sintassi: una poesia di Jorge Guillén, Niño, in 20 versi non contiene un solo verbo, e soprattutto nessun riferimento al bambino promesso dal titolo, ma una serie di immagini simboliche che rimandano all’esperienza del poeta; così Nacht di Gottfried Benn, contiene solo sostantivi, ognuno correlato a un’immagine notturna; e O notte di Giuseppe Ungaretti inizia con un’enunciazione puramente nominale (Dall’ampia ansia dell’alba / Svelata alberatura. // Dolorosi risvegli). I sostantivi e le immagini a essi correlate acquistano un valore assoluto, una tensione simbolica e un’intensità che fanno della poesia un insieme di frammenti, collegati attraverso processi analogici. Così molti testi poetici diventano spesso il risultato di un montaggio di immagini simboliche, di sensazioni ridotte a pura sonorità con fini suggestivi ed evocativi. In Zone, del 1912 (la poesia che apre la raccolta Alcools), Apollinaire elimina la punteggiatura e lascia i versi o isolati o a gruppi per restituire il ritmo di una passeggiata per le strade di Parigi e il sovrapporsi di ricordi e immagini che la compongono (Io amo la grazia di questa strada industriale, afferma a un certo punto il poeta). Ne nasce un testo chiave della nuova poesia simultanea.

    Come spiega il critico ginevrino Marcel Raymond in un libro fondamentale degli anni Trenta (De Baudelaire au surréalisme, 1933) su di un unico piano si giustappongono senza prospettiva, senza passaggio e spesso senza apparente rapporto logico, elementi disparati, sensazioni, giudizi, ricordi che si confondono nel flusso della vita psicologica. Si potrebbe affermare che la nuova tecnica sintetica giunge in anticipo a elaborare quel flusso di coscienza di cui poi si impadroniranno i romanzieri. La stessa tecnica del montaggio di immagini che rimandano a tempi e mondi diversi, si trova nei Fiumi di Ungaretti, una poesia del 1916 che fa parte del primo libro del poeta, Il porto sepolto, poi rifuso nella raccolta più ampia del 1919, Allegria di naufragi. Dal presente della guerra, rappresentato attraverso l’immagine di un albero mutilato, il poeta risale a epoche lontane della sua vita, ognuna espressa attraverso un fiume. Nello stesso tempo, l’acqua del fiume acquista un profondo valore simbolico dove si mescolano morte e rigenerazione, senso dell’isolamento e armonia cosmica, fino all’immagine analogica finale dove la vita appare una corolla / di tenebre. Non a caso una delle fonti di ispirazione di Ungaretti è stata individuata da Fausto Curi nella filosofia di Henri Bergson, e nell’idea della vita interiore come flusso ininterrotto di immagini che dal passato premono sul presente.

    Maschere e racconto

    Una tendenza molto particolare del modernismo in poesia è quella di adottare alcune modalità della prosa per organizzare i singoli testi poetici in insiemi più ampi dall’andamento esplicitamente narrativo. Al di là di quello che fanno gli ermetici, per esempio, che tendono a una forte astrazione di situazioni e personaggi (la voce dell’io lirico è spesso anonima, vagamente connessa al poeta), molti poeti italiani creano complesse strutture dove il poeta si mette in scena direttamente, o con maschere differenti, e rappresenta episodi della propria esistenza con riferimenti concreti a luoghi e persone. I nomi più notevoli di questa tendenza sono Guido Gozzano (che se ne può considerare il capostipite), Umberto Saba, Camillo Sbarbaro, Cesare Pavese per la prima parte del secolo, Giorgio Caproni, Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini e Vittorio Sereni per la seconda.

    I Colloqui (1911) di Gozzano sono l’esempio di una rappresentazione compiuta – la Letteratura – che allude di continuo a una rappresentazione drammaticamente inconcludibile – la Vita. Ma né la prima giustifica la seconda, né la seconda riscatta la prima. La messa in scena del personaggio Gozzano mette al riparo da qualsiasi rischio di identificazione con il Gozzano autore. Inizia così un lungo processo di esibizione in poesia dei fatti della vita che si differenzia dall’autobiografia di stampo dannunziano. L’io registra un limite (i 25 anni) prima del quale esiste un repertorio di memorie utilizzabili ma oltre il quale c’è il vuoto. E proprio perché dopo c’è questo vuoto, anche il prima si riduce a manifestazione falsa, non reintegrabile in un’esperienza vissuta che continua. La prima poesia della raccolta, che ne ripete il titolo, parla della gioventù come di un bel romanzo non vissuto però dal poeta, che ha travasato solo nella finzione (nei miei sogni d’arte) quanto un suo alter ego (quello / che mi seguì, il mio fratello muto) ha invece effettivamente vissuto: muto sulle mute carte / ritrassi lui, meravigliando spesso. A parte l’introduzione del tema romantico del doppio in poesia (che ha precedenti comunque in Pascoli), non è senza importanza che il termine romanzo venga introdotto qui a designare quanto il soggetto lirico sente distante da sé. È come se l’esperienza lirica nascesse dalla sconfessione di un possibile intreccio narrativo: la poesia parla dell’impossibilità del racconto.

    Un’esplicita attenzione al racconto si trova anche nei Canti orfici (1914) di Dino Campana, il poeta che più di altri si trova all’incrocio tra tardo simbolismo ed espressionismo. Se la biografia del poeta è fatta di pochi episodi drammatici (la fuga da casa, l’erranza in tutta Europa e in America del Sud, le crisi di nervi, l’internamento in manicomio), nell’opera invece tutti i fatti della vita vengono trasfigurati per assumere un significato assoluto. Unendo Carducci a d’Annunzio, i futuristi a Rimbaud, il filosofo Weininger a Nietzsche, Campana propone un libro a tendenza mitica che deve alludere a tutte le esperienze poetiche moderne filtrate attraverso il racconto dell’iniziazione di un personaggio che parla di sé e del suo complesso rapporto col mondo della poesia. Il libro è definito orfico perché contiene il racconto di un contatto col mistero, simile a quello degli antichi riti di iniziazione, ma nello stesso tempo esibisce drammaticamente l’impossibilità del poeta di realizzare l’opera perfetta alla quale allude solo per improvvise illuminazioni della memoria.

    Un vero e proprio romanzo in versi è quello contenuto nel Canzoniere (1921, poi 1945, poi 1948) di Umberto Saba, testo complesso nato dall’aggregazione di tante singole raccolte. È come se Saba, di raccolta in raccolta, volesse continuamente rifare la storia della propria poesia, ricapitolandone i momenti fondamentali in uno sforzo cosciente di oggettivazione e trasfigurazione (Furio Brugnolo). Alla crescita del personaggio interno alle singole poesie corrisponde di continuo la crescita del libro, con un effetto di simultaneità che molti lettori hanno riportato al pensiero nietzschiano dell’unità come circolo. L’operazione complicata dei parallelismi strutturali e metrici, delle riprese, delle mise en abîme, porta a una specie di manufatto che da una parte sembra perfettamente chiuso in se stesso, dall’altro rivela un inesauribile bisogno di comprensione e ascolto. Ma questo movimento opposto si riflette dal libro al suo autore. Lo stesso Saba, come ha notato Gian Luigi Beccaria, è riconducibile al gruppo dei numerosi io divisi della cultura moderna, per cui ogni simbolo di pienezza (Trieste, il lavoro, la vita militare, i corpi giovani, il passato) è anche segno di privazione, in un’alternanza continua tra possesso e perdita, tra aggressione e regressione.

    Diversa l’esperienza poetica di Cesare Pavese. Le short stories (come le definisce Mengaldo) di Lavorare stanca, raccontate da una ben riconoscibile voce monologante che modula la serie paratattica di lunghi versi ritmati, costruiscono un intreccio dove un personaggio indefinito scivola inavvertitamente dall’esperienza della campagna a quella della città. Questa specie di primitivo e raffinatissimo monologo si accompagna a un altrettanto primitivo delinearsi di immagini simboliche: il mare, la collina, la vigna, il fiume, le vie. Il tutto sembra ripetersi a ondate regolari, con lievissime progressioni, fino a giungere a una specie di cancellazione dell’umano a favore di simboli estatici e assoluti (simili a quelli che persegue anche il Pavese narratore).

    Tra gli anni Venti e gli anni Trenta alcune delle grandi esperienze poetiche europee confermano il ritorno, dopo il predominare di una poesia frammentaria e sintetica, a forme ampie, poematiche, spesso fondate su densi e intricati recuperi mitologici. Basti pensare alle due fondamentali raccolte di Rainer Maria Rilke, le Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo (entrambe le raccolte, dopo lunga gestazione, vengono compiute nel 1923), dove si insegue una visione interiore del mondo, connessa esplicitamente alla superiorità del linguaggio poetico, o al lungo poema in prosa Anabase (1924) del premio Nobel Saint-John Perse, una specie di cosmogonia oscura dove si parla di un conquistatore irrequieto che cerca il luogo adatto per far sorgere una nuova città, metafora dell’ansia di novità e di cambiamento dell’uomo moderno.

    Tra le riprese moderniste della seconda parte del secolo, si segnala per l’Italia quella che riunisce intorno a Pasolini i componenti del gruppo della rivista Officina, in particolare il bolognese Roberto Roversi. Sia Pasolini sia gli amici Attilio Bertolucci e Vittorio Sereni cercano un’alternativa alla cultura ermetica imperante recuperando stili e forme dalla poesia ottocentesca (Tommaseo, Carducci, Pascoli) e primo-novecentesca – i vociani, in particolare Clemente Rebora e Sbarbaro, ma anche Saba. Per Pasolini, sono i poemetti riuniti nelle Ceneri di Gramsci (1957) a costituire il momento di maggior riuscita in questa direzione. Bertolucci arriverà ad alti risultati con la raccolta Viaggio d’inverno (1971) e proseguirà il tentativo del romanzo in versi fino alla lunga autobiografia intitolata La camera da letto (1984 e 1988), dove la ripresa del tema memoriale di Proust si unisce alla tecnica cinematografica del montaggio. Per Sereni, vanno ricordate le raccolte Gli strumenti umani (1965) e Stella variabile (1981). Soprattutto negli Strumenti è intensa la tendenza a interrompere il flusso della voce lirica con vere schegge di racconto, evocate dal soggetto e colte nel loro mostrarsi momentaneo. Al senso crescente di vuotezza dell’io corrisponde un aumento progressivo di flash psichici, insieme sensoriali e memoriali: colpi di vento, muoversi di foglie, scrosci di pioggia, lamine di luce, toppe di sole, macchie di colore sono le figure in cui si manifesta un essenziale contatto con il mondo (come ha ipotizzato Enrico Testa). L’io non può raccontare il mondo, ma il mondo offre un supporto indispensabile dove l’io può appoggiare la propria inconsistenza.

    Un interessante tentativo di racconto su base modernista si trova nel poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarani, che si muove in area sperimentale. La narrazione di Pagliarani si imposta con un distacco netto tra il personaggio che racconta e quello che è raccontato. Da una parte c’è Carla, personaggio di un mondo ben definito (si è parlato della scapigliatura, di Delio Tessa e di Carlo Porta, ma anche di Brecht e Majakovskij, di neorealismo e di Erwin Piscator), dall’altra c’è la voce lirica e colta del poeta che fa da controcanto morale e che è capace di mimare stili e toni diversi. Il genere potrebbe essere quello del romanzo di formazione, dal momento che Carla vive un passaggio da adolescente a donna che trova corrispondenza nella ricerca del lavoro e nei fenomeni sociali di una realtà impiegatizia oggetto di sfruttamento. Romanzo espressionistico-crepuscolare lo definisce Pasolini in una lettera all’autore. L’effetto più forte deriva dal montaggio alternato di frammenti che si relativizzano a vicenda: la lingua della prosa sottopone a trattamento ironico i moduli poetici, anche se non si può negare che in certe zone del testo la densità stilistica si conquisti evidenti priorità. Ma in questo modo si accentua proprio il fatto che il personaggio viene messo sullo stesso piano uniforme di tutti gli altri elementi del racconto (i luoghi milanesi, gli uffici, il paesaggio, il linguaggio tecnico) anche se il narratore non può fare a meno di avvicinarsi spesso a Carla, con la stessa ottica di un romanziere tradizionale. Alla fine del Novecento la poesia recupera le caratteristiche del romanzo di un secolo prima: lo sperimentalismo può anche non rinnegare la memoria culturale.

    Rimandi

    Volume 54: La poesia spagnola

    Volume 64: La reazione al positivismo: lo spiritualismo

    Volume 66: Origini e linguaggi del simbolismo letterario

    Volume 71: L’espressionismo

    Il modernismo, uno stile europeo. La prosa

    I futurismi

    Memoria: il classicismo

    Le lingue della poesia

    Federico García Lorca

    Il gioco con la letteratura

    Lo sperimentalismo

    Eugenio Montale

    Jonathan Sisco

    Massimo poeta del Novecento italiano, premio Nobel nel 1975, Eugenio Montale è anche prosatore, traduttore e critico letterario fra i principali del secolo. Dagli anni Venti fino alla fine degli anni Settanta, la sua poesia e la sua voce intellettuale rappresentano non solo un punto di riferimento per la vita letteraria del Paese, ma anche una delle testimonianze più vive e indipendenti sulla realtà civile italiana.

    La formazione

    Eugenio Montale

    La bufera

    La bufera che sgronda sulle foglie

    dure della magnolia i lunghi tuoni

    marzolini e la grandine,

    (i suoni di cristallo nel tuo nido

    notturno ti sorprendono, dell’oro

    che s’è spento sui mogani, sul taglio

    dei libri rilegati, brucia ancora

    una grana di zucchero nel guscio

    delle tue palpebre)

    il lampo che candisce

    alberi e muro e li sorprende in quella

    eternità d’istante - marmo manna

    e distruzione - ch’entro te scolpita

    porti per tua condanna e che ti lega

    più che l’amore a me, strana sorella, -

    e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere

    dei tamburelli sulla fossa fuia,

    lo scalpicciare del fandango, e sopra

    qualche gesto che annaspa...

    Come quando

    ti rivolgesti e con la mano, sgombra

    la fronte dalla nube dei capelli,

    mi salutasti - per entrar nel buio.

    E. Montale, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1984

    Ultimo di sei figli, Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896 in una famiglia della media borghesia, da Domingo, commerciante di prodotti chimici, e Giuseppina Ricci. Nel primo tempo della sua vita, trascorso nella città natale, studia presso i Barnabiti, si diploma ragioniere e si dedica agli studi di canto, progettando intorno al 1917 di sfruttare la bella voce da baritono per intraprendere la carriera musicale. La morte del suo insegnate Ernesto Sivori e una timidezza innata gli impediscono il debutto in teatro ma la passione e la competenza musicale diventeranno ragioni fondamentali del suo fare poetico, come riconoscerà egli stesso descrivendo con molta lucidità il suo esordio di poeta: Ubbidii a un bisogno di espressione musicale. Volevo che la mia parola fosse più aderente di quella degli altri poeti che avevo conosciuto. […] E la mia volontà di aderenza restava musicale, istintiva, non programmatica. Nelle lettere agli amici, Montale descrive i suoi anni giovanili come un intreccio di sofferenze incredibili fisiche e filosofiche. La sua prima guida è la sorella Marianna, con la quale il giovane poeta avvia un vero e proprio sodalizio intellettuale, scambiando con lei pareri di lettura, consigli e impressioni. L’arricchimento culturale dell’esperienza montaliana è documentato in forma asistematica dalle pagine del cosiddetto Quaderno genovese, un diario intellettuale risalente al 1917, ma pubblicato postumo nel 1983. Montale legge Dante, Shakespeare, Tasso, Leopardi e i simbolisti francesi. Cita con ammirazione la poesia di Guido Gozzano e di Corrado Govoni e include i filosofi Cartesio, Spinoza, Bergson e Schopenahuer fra i 40 autori da condurre con sé nell’ipotesi scherzosa di ritirarsi a vita cenobitica. Se si aggiungono l’influsso del filosofo Giuseppe Rensi, nato in Veneto ma genovese d’adozione, la passione per la musica descrittiva e impressionistica di Debussy e, di lì a poco, il dialogo diretto con i poeti liguri, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Adriano Grande e soprattutto Camillo Sbarbaro – sulle poesie di quest’ultimo, Trucioli, scrisse il primo articolo letterario, nel 1920 sul periodico L’Azione – si completa il ritratto del giovane Montale dilettante di gran classe, per usare un’immagine cara al poeta.

    Durante la prima guerra mondiale viene richiamato alle armi e mandato alla Scuola d’applicazione di fanteria di Parma dove stringe amicizia con il coetaneo Sergio Solmi, poeta e critico di raffinato gusto modernista. All’indomani della guerra, dopo aver militato al fronte fino al 1918, prima in Vallarsa e poi a Caldaro, viene comandato come sottotenente capo a Torino, presso un campo di concentramento di prigionieri nemici. Questo soggiorno si rivela molto importante anche sul piano intellettuale perché, tramite la mediazione di Solmi, si avvicina moltissimo all’ambiente culturale e ideale della città, allora particolarmente vivo in grazia della presenza simultanea di Antonio Gramsci e Piero Gobetti, direttore ed editore, quest’ultimo, dei settimanali La rivoluzione liberale e Il Baretti, ai quali Montale viene presto invitato a collaborare. Attraverso gli ambienti letterari torinesi, conosce i protagonisti della letteratura triestina, sia poeti già maturi come Umberto Saba, a cui lo legheranno negli anni una stima e un’amicizia sincere, sia personaggi geniali ed enigmatici come Roberto Bobi Bazlen, che gli consiglia di leggere Kafka, Musil, e soprattutto Italo Svevo, del quale Montale riconosce precocemente il valore fin dal 1925, con l’articolo Omaggio a Italo Svevo uscito su L’Esame.

    Le prime raccolte e l’ambiente fiorentino

    Nel 1922, intanto, pubblica alcuni articoli e le prime poesie su un’altra rivista torinese di area gobettiana, Primo Tempo, fondata dal critico Giacomo Debenedetti, tanto che tre anni dopo, nel 1925, sembra quasi naturale che la sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia, esca proprio per le Edizioni di Piero Gobetti. In quello stesso 1925, Montale sottoscrive tempestivamente il manifesto degli intellettuali antifascisti promosso dal filosofo liberale Benedetto Croce, mentre nel 1928 – ancora a Torino, ma dall’editore Ribet – avrebbe dato alle stampe una seconda edizione degli Ossi, accresciuta di alcune poesie fondamentali fra le quali Delta (poi tradotta in inglese da Samuel Beckett) e Arsenio, il testo di lì a poco accolto, nella traduzione dell’anglista Mario Praz, dall’importante rivista internazionale di poesia Criterion, redatta da Thomas Stearns Eliot. L’atonia vitale e la disperazione metafisica degli Ossi danno voce alla spiritualità latente di una nuova generazione di letterati. Soprattutto nella sezione eponima, Ossi di seppia e in Meriggi e ombre, le poesie mettono l’accento sulla vanità ingannevole della rappresentazione umana, chiudendo definitivamente i conti con l’idea di una rivelazione trascendentale. La realtà altro non è che un insieme di frantumi, residui, relitti, rottami, ossi di seppia, appunto, abbandonati sulla spiaggia dopo la tempesta. Negli Ossi il lettore riconosce la presenza di Pascoli e d’Annunzio, ma non trova l’ammiccare al verso altrui. A questo proposito il critico Guido Guglielmi ha spiegato che la parola di Montale è da subito una parola della molteplicità, che se riprende altri poeti non si limita a evocarli, ma li piega analiticamente alla propria intenzione oggettivante, espressa da una lingua cosale, aspra e petrosa.

    Nel 1927 Montale si trasferisce a Firenze, allora capitale letteraria italiana, dove si pubblica una rivista di vocazione europea come la Solaria di Alberto Carocci e dove sono presenti scrittori come Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, Antonio Delfini e i futuri ermetici Mario Luzi e Carlo Bo. Lavora prima per l’editore Bemporad, poi come direttore del Gabinetto Vieusseux. Nel 1938 viene sollevato dall’incarico per aver rifiutato di iscriversi al partito fascista e da allora fino alla fine della guerra vive soltanto di traduzioni e sporadiche collaborazioni. Traduce narratori come Nathaniel Hawthorne, Herman Melville, John Steinbeck, collabora attivamente all’antologia Americana curata da Vittorini e comincia un denso percorso di traduttore di versi (confluito nel 1948 nel Quaderno di traduzioni, dove si leggono poesie di Eliot, Jorge Guillén, Gerard Manley Hopkins, Emily Dickinson, William Butler Yeats, Joyce e Costantinos Kavafis). Nel 1932 esce La casa dei doganieri e altre poesie, nucleo centrale del libro che consacra Montale fra i più importanti poeti dell’epoca, Le occasioni, uscito nel 1939 e dedicato a I.B., Irma Brandeis, una giovane dantista americana di cui il poeta si era innamorato, presente nel libro con lo pseudonimo mitologico di Clizia, visiting angel, donna messaggera fra terra e cielo. Libro strutturalmente complesso, Le occasioni raggiungono il risultato di una poesia in cui la ricerca del segreto nel pulsare assoluto dell’attimo si fonde con l’esperienza privata del soggetto lirico. Il cuore del volume è rappresentato dalla seconda sezione, i Mottetti, fatta di poesie brevi che, in una dialettica continua di assenza-presenza, attesa-epifania, sviluppano un canzoniere d’amore, in parte stilnovistico, in parte petrarchesco. Nelle Occasioni, Montale impiega la tecnica del correlativo oggettivo (introdotta da Eliot nel 1920), che prevede di collegare concretamente una serie di oggetti e di eventi esterni a una particolare trama emotiva. Il poeta italiano spiega più volte di essere giunto indipendentemente a questa poetica, avendo sentito il bisogno di esprimere l’occasione biografica della poesia traducendola in un oggetto reale.

    A Milano

    Nel 1946, dopo aver partecipato alla breve esperienza politica del Partito d’azione e aver fondato, con Alessandro Bonsanti, il quindicinale Il mondo, si trasferisce a Milano, la sua terza e definitiva città, dove viene assunto al Corriere della sera come redattore ordinario della terza pagina. D’ora in avanti il secondo mestiere di giornalista, saggista e prosatore accompagnerà costantemente quello creativo (le prose di viaggio, gli scritti di critica letteraria e musicale escono, approvati dall’autore ma non per sua cura, rispettivamente nei volumi Fuori di casa, del 1969, Sulla poesia, del 1976 e Prime alla Scala, del 1981).

    Nel 1956 esce La bufera e altro, preceduta nel 1943 dalla plaquette Finisterre, pubblicata clandestinamente a Lugano con l’aiuto del critico e amico Gianfranco Contini. Montale considerava Finisterre un’appendice all’esperienza petrarchesca delle Occasioni: "Finisterre conclude le Occasioni; mentre le altre poesie della Bufera tornano a un’espressione più diretta, allentano le maglie di una tessitura fin troppo rigorosa, e precisa ancora dopo la Liberazione ho scritto poesie di ispirazione più immediata". Nel medesimo 1956 esce anche Farfalla di Dinard, un libro apparentemente minore, di prose autobiografiche e d’invenzione, che è in realtà un piccolo capolavoro da leggere a fianco della raccolta di versi. Nella Bufera, infatti, l’esperienza assoluta del negativo e del male, dopo Auschwitz e dopo Hiroshima, procede di pari passo con una rivalutazione del lato terreno dell’esistenza definito dell’eros e dai valori di una resistenza etica istintuale. Non a caso con questa raccolta Montale approfondisce il suo straordinario confronto con la lezione di Dante. Secondo il modo dantesco della pluralità dei sensi della scrittura, nella Bufera i temi apocalittici della storia collettiva e gli aspetti minimi del quotidiano più dimesso si inseriscono gli uni negli altri, narrando una storia di speranze e delusioni che comunque non esclude, nell’explicit sospeso delle Conclusioni provvisorie, l’attesa e il sogno di una diversa realtà.

    Dopo la Bufera, Montale smette di scrivere poesie per quasi un decennio. Nel 1966 pubblica Auto da fé, un importante volume di saggi e meditazioni intellettuali, mentre il successivo libro di versi, Satura, esce nel 1971 e riunisce, eccetto Botta e risposta I che è del 1961, poesie scritte a partire dal 1964. La raccolta, dedicata alla moglie Drusilla Tanzi (detta Mosca), da poco scomparsa e presa a interlocutrice dall’io poetico, introduce un tono nuovo di comunicazione affettuosa e familiare. Anche sul piano stilistico, infatti, Montale si mostra capace di un rinnovamento molto profondo, attraverso il dialogo serrato con la poesia di Pier Paolo Pasolini, della neoavanguardia e di Vittorio Sereni. I materiali degradati, gli oggetti-scorie della lingua e dell’esperienza si caricano e danno luogo a una scrittura impostata sul ritmo franto delle allitterazioni interne e delle rapide interiezioni, tendente spesso al comico. Per il Montale vecchio la poesia ha il valore di una cosa fragile e apparentemente dimenticata, può ormai solo stare, come la pietra o un altro oggetto, senza altro scopo che la sua mera presenza. Nel dicembre 1975, durante il suo discorso di accettazione del premio Nobel assegnatogli nell’ottobre precedente, dal titolo interrogativo È ancora possibile la poesia?, Montale afferma che le opere letterarie, seppure ormai ridotte a una polifonia di voci sfuggenti e praticamente impossibili a identificarsi nella civiltà consumistica, dovrebbero perseguire sempre l’obiettivo di porre un limite al diffondersi di quello spirito utilitario che in varie gamme si spinge fino alla corruzione, al delitto e a ogni forma di violenza e di intolleranza, rifiutando con orrore il termine di produzione. Seguiranno questa poetica intima e civile tutte le raccolte della senilità, precedenti di pochissimo la morte del poeta, avvenuta a Milano il 12 settembre 1981, ma tutt’altro che opere minori. Nel 1973 esce Diario del ’71 e del ’72, nel 1977 Quaderno di quattro anni. Nel 1980, all’interno dell’edizione critica dell’Opera in versi, viene inserita la silloge degli Altri versi (organizzata dai curatori Gianfranco Contini e Rosanna Bettarini).

    Rimandi

    Volume 66: Le forme liriche

    Volume 66: Origini e linguaggi del simbolismo letterario

    Il modernismo, uno stile europeo. La poesia

    Le lingue della poesia

    Il gioco con la letteratura

    Lo sperimentalismo

    Gli scrittori di fronte ai regimi

    Pier Paolo Pasolini

    Le riviste

    Natura e paesaggio

    Letteratura e psicanalisi

    Volume 73: Debussy, Ravel, Satie: la musica francese del primo Novecento

    Il modernismo, uno stile europeo. La prosa

    Giulio Iacoli

    Il significato del modernismo europeo è legato alla rottura con le costrizioni vittoriane espressa dagli scrittori del gruppo londinese di Bloomsbury, capeggiato da Virginia Woolf. Intanto, si irradia nel continente una serie di sperimentazioni formali e tematiche, la destrutturazione del romanzo canonico per via dell’inserzione di frammenti saggistici o poetici, al punto da rendere irriconoscibili l’intreccio e le figure dei personaggi. L’interesse per i moti della coscienza, per nuovi temi affini alla scienza e alla tecnica, determina così la nascita dei capolavori di Joyce, Svevo, Proust, Musil.

    Digressioni e ritmi della modernità

    Virginia Woolf

    Gita al faro

    Ma potrebbe diventare bello - credo che sarà bello disse la signora Ramsay, attorcigliando la calza rossiccia che stava lavorando a maglia, con impazienza. Se l’avesse finita quella sera, se dopo tutto fossero andati al Faro, era destinata al guardiano del Faro per il bambino, minacciato di tubercolosi all’anca; insieme a un fascio di vecchi giornali, un po’ di tabacco, qualsiasi cosa, in breve, trovasse in giro, non proprio necessaria, ma che soltanto ingombrava la stanza, per darla a quella povera gente che doveva annoiarsi a morte a starsene tutto il giorno seduta senza niente da fare se non lucidare il fanale o regolare lo stoppino e lavorare con il rastrello quel fazzoletto di giardino, qualcosa per distrarli. A te piacerebbe rimanere chiuso per un mese di seguito, e forse più se il tempo volgeva alla tempesta, su uno scoglio non più grande di un campo da tennis? Chiedeva; e senza lettere né giornali e senza vedere mai nessuno; se poi eri sposato, senza vedere tua moglie, senza sapere come stavano i tuoi figli - se erano malati, se erano caduti e si erano rotti le braccia o le gambe.

    V. Woolf, Gita al faro, Milano, Mondadori, 2003

    Dopo avere convissuto con la definizione di moderno fino agli anni del secondo dopoguerra, il sostantivo modernismo, come l’aggettivo modernista, si emancipa fino a godere di una certa fortuna presso la critica degli anni Sessanta e Settanta, in particolare quella anglosassone. Sono anni in cui si guarda indietro all’arte che ha segnato la propria distanza rispetto agli esiti del tardo Ottocento, e vi si ravvede una forte tensione sperimentale, una volontà di riscrivere le regole dello stile o quelle relative ai generi letterari, per esempio portando il romanzo sempre più in prossimità del territorio poetico: indubbiamente, è il caso di due opere che si vedranno più da vicino, Ulisse di James Joyce (Ulysses, 1922), e Le onde di Virginia Woolf (The Waves, 1931). Restano fluidi, ancora, i confini temporali della corrente modernista: alcuni pongono l’accento sulla continuità con l’Ottocento, legando opere e autori dei primi decenni del nuovo secolo all’età vittoriana; altri sottolineano la frattura nella transizione e isolano alcuni punti fermi al suo interno. Avremmo così un primo periodo modernista (una fase protomodernista o paleomodernista, secondo il critico americano Frank Kermode) che, avviatosi con i primi anni del Novecento, si arresta con lo scoppio della Grande Guerra; una fase della pienezza modernista, che abbraccia il periodo postbellico, gli anni Venti e Trenta; infine, una lunga transizione, un periodo tardomodernista, che trascolora in quella nuova temperie culturale che risulterà dominante nella seconda metà del secolo, il postmoderno.

    Se ci atteniamo a queste oscillazioni cronologiche, non avremo però dubbi sul carattere spiccatamente inglese del modernismo e sulla centralità geografica di Londra, una metropoli pulsante di vita culturale, di cenacoli letterari (celebre quello londinese di Bloomsbury, frequentato da Virginia Woolf e dalla sorella Vanessa, pittrice, dal critico e scrittore Lytton Strachey e dal romanziere Edward Morgan Forster e altri) e di fermento editoriale, nella quale si può leggere il carattere complesso e frenetico della nuova vita sociale, le nevrosi dell’individuo, il crollo dell’equilibrio psichico e ambientale: ne è un esempio il reduce dal fronte, impersonato da Septimus Warren Smith, che si suicida in Mrs Dalloway di Virginia Woolf (1925), assediato da rumori e luci della città. Più propriamente si dovrà parlare di un fenomeno legato primariamente ai Paesi di lingua inglese, dove rientrano i nomi irlandesi di Joyce e di William Butler Yeats, e quelli statunitensi di Thomas Stearns Eliot ed Ezra Pound, attivamente legati all’Inghilterra, e almeno quello di Gertrude Stein, oltre alla neozelandese Katherine Mansfield. Ma, da più parti, si invoca l’estensione della definizione critica a prodotti letterari extrabritannici (da tempo è assodata una nozione di modernismo tedesco, per esempio), alle periferie europee dove prendono forma opere segnatamente novecentesche (per l’Italia, la Trieste di Italo Svevo, la Sicilia di Luigi Pirandello, la Toscana rurale e delle piccole città di Federigo Tozzi) e questo per evitare l’impropria sovrapposizione con i fenomeni di avanguardia intesi in senso stretto (Franco Moretti). Nel cuore del modernismo, l’Inghilterra, si possono ravvisare i caratteri di una poetica così composita quale quella modernista, a livello di veri e propri ordigni narrativi: tale è la portata del monumentale Ulisse di James Joyce, un romanzo che fonde una miriade di percezioni della città – la Dublino attraversata dal protagonista, Leopold Bloom, dal giovane Stephen Dedalus, e che infine si riconnette, negli interni di casa Bloom, sulla moglie del protagonista, Molly – per mezzo di deviazioni fisiche, digressioni narrative, divagazioni della coscienza del personaggio. La profonda impronta modernista dell’opera risiede prima di tutto nella sua organizzazione interna: il romanzo è costituito per blocchi, episodi autonomi che ritraggono da punti di vista spesso distinti il protagonista nella sua giornata dublinese; la narrazione rifiuta così di seguire l’ordine lineare, cronologico delle vicende garantito a suo tempo dal romanzo del XVIII e XIX secolo). In secondo luogo nella sua tessitura stilistica: ci si sorprende spesso a chiedersi chi sia a pronunciare le parole che leggiamo, in un moto sempre articolato, scomposto, di voci che contendono al narratore il saldo possesso del racconto. L’impasto linguistico che ne deriva è ricco di citazioni, spesso argute e ironiche, dalla tradizione letteraria, filosofica e religiosa, saturo di irruzioni di voci appartenenti a personaggi sullo sfondo, al limite della riconoscibilità. Joyce adatta un particolare registro stilistico a ogni singolo episodio narrato, ne consegue un effetto di disorientante quanto ammirevole polifonia, di fuga continua sul motivo conduttore della giornata di Bloom: il punto massimo di libertà nelle associazioni di idee sarà costituito dal monologo finale di Molly, nel quale ella ripensa al primo incontro con il marito, e forse, in nome di un sentimento genuino nei suoi confronti, riscatta

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