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Il teatro e la città: I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento
Il teatro e la città: I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento
Il teatro e la città: I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento
E-book201 pagine2 ore

Il teatro e la città: I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento

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Info su questo ebook

Il saggio analizza il rapporto simbiotico tra la vita nei vicoli di Napoli, intesi come unità geografiche e sociologiche, e la loro capacità di essere fonti d'ispirazione artistica per i drammaturghi e gli autori del novecento. Perché la sceneggiata è nata a Napoli, nei quartieri del centro storico? Se De Filippo non avesse vissuto l'infanzia nel retropalco del Teatro San Carlino, osservando suo padre Eduardo Scarpetta recitare le farse nei panni di Felice Sciosciammocca, avrebbe sviluppato una visione teatrale diversa? Se il terremoto non avesse sconvolto la città nel novembre del 1980, avremmo avuto testi come "Le cinque rose di Jennifer" di Annibale Ruccello e "Scannasurice" di Enzo Moscato? La permeabilità tra gli eventi di una città, i suoi luoghi fisici e i suoi spazi mentali narra un secolo teatrale complesso, irrequieto, vivace e multiforme; metafora perfetta della natura di Napoli e dei suoi abitanti.  
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2021
ISBN9788833468679
Il teatro e la città: I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento

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    Il teatro e la città - Raffaele Furno

    teatro_fronte.jpg

    Il teatro e la città. I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento

    di Raffaele Furno

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Progetto grafico e impaginazione di Sara Calmosi

    In copertina: fotografia di Matteo Vocino, del 2017. Lo scatto riprende l’ensemble dello spettacolo Neapopuli della Compagnia Imprevisti e Probabilità

    ISBN 978-88-3346-867-9

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Saggistica – Storia e cultura

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    Raffaele Furno

    IL TEATRO E LA CITTÀ

    I vicoli e i palcoscenici di Napoli nel Novecento

    AliRibelli

    Sommario

    Ringraziamenti

    Prefazione

    Capitolo I

    Scarpetta e Viviani: la fine del regno

    La Napoli comica di Eduardo Scarpetta

    Vicolo e povertà nel teatro di Raffaele Viviani

    Capitolo II

    La sceneggiata e la vita nel basso

    La sceneggiata classica

    La sceneggiata nel mondo e sul grande schermo

    Capitolo III

    Eduardo De Filippo: un napoletano borghese

    La famiglia tra incomunicabilità ed inettitudine

    La magia e il silenzio

    Capitolo IV

    La «nuova drammaturgia» degli anni settanta e ottanta

    Il «teatro dell’ignoranza» di Leo e Perla e l’antropologia teatrale di Roberto De Simone

    La «nuova drammaturgia» urbana: Annibale Ruccello ed Enzo Moscato

    Capitolo V

    Napoli e la globalizzazione a cavallo del ventunesimo secolo: esperienze di drammaturgia e di palco

    Drammaturgia di voci e drammaturgia di corpi: Ruggero Cappuccio e Antonio Latella

    Il palcoscenico corale della città tra centro e periferia

    Conclusione

    Bibliografia

    Ringraziamenti

    Grazie a Giuseppe Siracusa per avermi offerto un luogo accogliente e creativo dove scrivere in tranquillità

    Grazie alla Compagnia Teatrale Imprevisti e Probabilità per essersi lasciata guidare sul palcoscenico in tanti spettacoli che sono nati dai pensieri e dalle idee analizzate in questo saggio

    Grazie alla Prof.ssa Anna Sica, docente del DAMS di Palermo, per avermi invitato a tenere un ciclo di seminari sul teatro napoletano del Novecento. Dal confronto con i suoi studenti sono arrivati spunti che ho elaborato nelle pagine che seguono

    Grazie a mia madre per avermi fatto nascere a Napoli e con la passione per il teatro.

    Prefazione

    La storia di Napoli è costellata di traumi. Sono stati questi ultimi a definire le stratificazioni, le svolte, le cesure tra un prima e un dopo che, di volta in volta, hanno dato alla città un nuovo volto o, in alcuni casi, una nuova maschera. La città-mondo che è Napoli si è costruita a partire da un passato violento, oggetto nei secoli della cupidigia di invasori stranieri che hanno lasciato evidenti tracce del proprio passaggio nell’architettura, nella cucina e nella lingua partenopee. Non credo che questa sia una peculiarità solo napoletana. Qualsiasi città che abbia avuto la capacità di sopravvivere nei secoli, forgiando la propria cultura con l’adattamento a contesti sempre nuovi, ha una storia di traumi causati da guerre, pestilenze o catastrofi naturali. Quel che rende Napoli un caso interessante, anzi arriverei a direi unico nel suo genere, è che tutti questi traumi sono iscritti nel suo teatro. Capocomici, attori, drammaturghi e registi hanno interpretato le difficoltà e le pene quotidiane della popolazione napoletana e hanno colto la crisi d’identità di una città ripetutamente costretta alla metamorfosi, per poi trasformare tali ispirazioni in corpi che agivano su di un palcoscenico ed in una coralità di voci e di suoni che rievocavano la multiculturalità delle strade e delle piazze, creando con ciò una comunità di intenti, di desideri e di aneliti con gli spettatori.

    Nei secoli, gli artisti napoletani hanno trasformato le tensioni collettive in maschere da commedia dell’arte. Cos’altro è Pulcinella se non un condensato teatrale della miseria e della fame della classe popolare, ma anche della sua capacità di arrangiarsi e sopravvivere? In alcuni casi, i teatranti si trovarono dinnanzi alla necessità di aggirare la censura o una legislazione particolarmente restrittiva e diedero vita a nuovi generi teatrali, come accadde ad inizi Novecento con la nascita della sceneggiata. In altri casi ancora, gli sconvolgimenti tellurici del territorio che distrussero quartieri e vite divennero un importante spunto di autoanalisi e di riflessione su cosa volesse dire «essere napoletano» e sull’opportunità di modernizzare la città dopo il disastro. Ad esempio, la «nuova drammaturgia» degli anni ottanta prese molto sul serio questo dibattito, inglobandolo nella scrittura scenica e nei personaggi rappresentativi di una società nuova e plurale, che si contrapponeva alla Napoli classica, folclorica o macchiettistica. In altre parole, attraverso uno studio della drammaturgia napoletana si possono individuare i legami tra arte e società, tra rappresentazione e storia vissuta, tra spazi immaginati e luoghi geografici di Napoli, nel tentativo di dare una riposta all’annosa questione se il teatro sia uno specchio della realtà che lo circonda, limitandosi a riprodurre sul palco la vita quotidiana così come la conosciamo, o se invece contribuisca a forgiare la percezione che abbiamo del mondo, modificandolo.

    La Napoli città-mondo è sempre riuscita a metabolizzare gli impulsi stranieri che giungevano a dominarla, mai soccombendovi, ma piuttosto trasformandoli in linfa ed ispirazione per la propria identità culturale in costante divenire. Attraverso processi di ibridazione e di adattamento, il vecchio e il nuovo, il tradizionale ed il moderno si sono integrati per dare vita ad una rete concettuale che ha fatto di Napoli non solo un luogo geografico, ma uno spazio intellettuale per la sperimentazione di linguaggi artistici attraverso l’accumulazione di simboli culturali derivanti da Oriente e Occidente, da Africa ed Europa. Credo che nessun luogo sia in grado di accorpare in sé tutte le sfaccettature della napoletanità, e della sua teatralità, più del vicolo. Il centro storico, i Quartieri Spagnoli, Forcella, piazza Mercato ed il porto sono stati l’epicentro di un fenomeno urbanistico, sociologico e culturale che ha caratterizzato Napoli tanto nei suoi aspetti vitali e creativi, quanto in quelli degradati e malavitosi. I vicoli di Napoli sono stati la cartina di tornasole di tutto ciò che ha reso possibile la sopravvivenza della città fino ad oggi, anche e soprattutto attraverso i generi e gli autori teatrali che furono figli dei quartieri popolari e del vicolo stesso. Non è mia intenzione sostenere che esista un meccanismo automatico di continuità tra luogo di nascita ed ispirazione artistica. Per intenderci, rifuggo dall’idea che i napoletani siano degli attori nati, in quanto si confonde banalmente l’espressività della lingua e della gestualità con il lavoro teatrale che richiede un complesso bilanciamento tra tecnica e passione, tra studio e talento, tra consapevolezza ed improvvisazione. Non esiste un legame indissolubile tra la città come conglomerato urbano stratificato nei secoli e la capacità di immaginare, lì e in nessun altro luogo, la vita come un palcoscenico. D’altro canto, è indubbio che se alcune esperienze teatrali e musicali sono sorte a Napoli e non in altre città, per poi affermarsi a livello internazionale, ciò è dovuto ad un connubio tra geografia fisica del luogo, stile di vita, storia e cultura. In altre parole, il contesto spazio-temporale risulta fondamentale quando si tenta di comprendere come e perché un genere teatrale, un argomento o un personaggio hanno prevalso su altri. Credo che se Eduardo De Filippo fosse nato altrove, la sua drammaturgia sarebbe stata completamente diversa, avrebbe trattato altri temi, sarebbe stata ispirata da altri traumi.

    Ritengo che il vicolo sia il punto di partenza ottimale per uno studio del teatro napoletano del Novecento per vari motivi. Innanzitutto, la maggior parte degli attori e autori che diedero lustro alla drammaturgia cittadina a cavallo tra Ottocento e Novecento erano figli del vicolo. Antonio Petito, Eduardo Scarpetta e Raffaele Viviani provenivano dai quartieri popolari del centro storico, erano nati da famiglie di teatranti o comunque appartenenti alle classi sociali più basse, e avevano a lungo vissuto sulla propria pelle le privazioni imposte dalla loro condizione socio-economica. Sin da bambini avevano sperimentato l’atmosfera collettiva e condivisa tipica del vicolo. Questo è il secondo elemento discriminante. Il vicolo, come unità sociologica, prevedeva un’esistenza all’aperto, alla luce del sole, in mezzo alla strada e agli altri abitanti del quartiere. Nel vicolo il concetto di privacy era quasi inesistente. Ciò era sicuramente dovuto alla struttura delle unità abitative dei bassi: stanzoni posti sotto il livello stradale che vengono così descritti dallo struggente monologo di Filumena Marturano: «nire, affummecate… addò ’a stagione nun se rispira p’ ’o calore pecchè ’a gente è assaie, e ’a vvierno ’o friddo fa sbattere ’e diente… addò nun ce sta luce manco a mieziuorno […] chin’ ’e ggente».¹ Nei bassi si dormiva e si stava in intimità col proprio partner, ma tutte le altre attività venivano svolte all’aperto, nel vicolo. Per strada si cucinava, si lavava il bucato, si accudivano i figli e, nel frattempo, si commerciava, si flirtava e si socializzava. In virtù di questo totale sovrapporsi tra pubblico e privato, si può teorizzare il vicolo come un Panopticon in cui tutti vedevano e sapevano tutto, giudicandosi a vicenda. La socializzazione del e nel vicolo faceva sì che i suoi abitanti diventassero membri adulti della comunità attraverso un’acculturazione che era sempre condivisa e che portava le persone ad apprendere le regole di comportamento per vivere e sopravvivere nel vicolo per via esperienziale.

    Tale aspetto esperienziale, del crescere e maturare come individuo e come membro di una comunità imitando gli altri ed agendo, invece che studiando sui libri, può contribuire a capire, una volta per tutte, l’origine dello stereotipo secondo cui i napoletani sarebbero dei teatranti nati. Vivere nel vicolo portava ad imparare da subito l’arte dell’improvvisazione. Non esistevano regole scritte a cui fare riferimento, in quanto le leggi dello Stato erano disattese perché imposte da un sistema governativo che nel vicolo non era riconosciuto come valido. Gli abitanti imparavano i comportamenti attraverso l’imitazione tra pari. Le norme non scritte implicavano per forza di cose la capacità di adattarsi a circostanze impreviste e quindi, appunto, a saper improvvisare per far sì che il gruppo e i suoi individui mantenessero o ristabilissero velocemente un equilibrio sociale. In più, l’apprendimento per strada piuttosto che sui libri portava con sé un coinvolgimento cinetico, del corpo, delle sue energie più espressive, vitali e selvagge che erano elementi imprescindibili anche sul palcoscenico. Saper comunicare col corpo, e non solo con la voce, saper gesticolare in modo significativo ed ampio, così da raggiungere anche lo spettatore più lontano o più distratto, saper interpretare con braccia, gambe, torace, schiena e collo le emozioni e gli stati d’animo sono tutte qualità che un attore deve necessariamente possedere. Gli abitanti del vicolo, abituati a competere per reperire le scarse risorse disponibili in situazioni di povertà e disagio sociale, imparavano ad usare un’espressività corporea e vocale forte, che si imponesse sugli altri e che fosse in grado di attraversare la folla. L’apparente disorganizzazione di Napoli corrispondeva perciò alla sua natura molteplice, figlia della commedia dell’arte solo parzialmente pianificata e scritta, che era quindi commedia della vita in virtù del suo mantenersi sempre ricettiva verso l’imprevisto e la creatività.

    Secondo lo studioso Stefano De Matteis lo stereotipo del napoletano teatrante nato descrive Napoli in negativo, in quanto: «la recita quotidiana serve meno a creare una coesione e più ad esaltare il paradosso, la tensione e la differenza».² Credo che questa interpretazione connetta il vicolo ed il teatro partenopeo solo se prendiamo in considerazione il rapporto che i napoletani hanno con l’umorismo. Il teatro napoletano è fortemente improntato alla tragicommedia e ha fatto propria, in modo subliminale, la distinzione pirandelliana tra comico ed umoristico, tra «avvertimento del contrario» e «sentimento del contrario». Le maschere napoletane, dal già citato Pulcinella al moderno Felice Sciosciammocca, abitano in sé l’amarezza della riflessione sulle proprie condizioni che caratterizza l’umorismo, in cui al divertimento iniziale subentra un’attenta considerazione del contesto e del significato di ciò che ha fatto scaturire la risata. Tale «sentimento del contrario» è centrale alla dinamica sociale del vicolo in quanto è solo attraverso un approccio semiserio alla vita che quest’ultima può essere sostenuta anche in condizioni di deprivazione estrema, senza che il popolo arrivi alla rivoluzione. Quindi l’umorismo nel teatro napoletano si sposa con l’idea della parodia, anch’essa tecnica ambivalente. Da una parte, parodiare il potere ha insito in sé il desiderio di criticare lo status quo e di avviare una fase di cambiamento. Dall’altra, la parodia mette in luce il rapporto di subordinazione che esiste tra chi parodia e chi viene parodiato. Ad esempio, il filosofo russo Michail Bachtin nel suo studio intitolato L’opera di Rabelais e la cultura popolare individuava il rapporto di ambiguità nella tradizione medievale carnevalesca dell’elezione del Papa dei folli, che i più ricorderanno come scena iniziale del libro di Victor Hugo Notre-Dame de Paris. Era infatti pratica diffusa durante il Carnevale che venisse eletto un re o un papa dei folli, in genere scelto tra le maschere più grottesche o, in alcuni casi, tra persone deformi. L’uso stava a parodiare il potere temporale del vero re o papa che nel periodo del Carnevale precedente alla Quaresima era come sospeso. Nei giorni di festa le persone, uomini e donne, ricchi e plebei, potevano liberarsi dalle catene delle regole sociali più stringenti e, camuffandosi, avevano a disposizione l’arma dell’anonimato per dare libero sfogo alle pulsioni più profonde, erotiche, violente e abiette. Al contempo però, veniva appunto eletto in pubblica piazza un re o un papa che, per quanto parodico e senza avere alcuna capacità decisionale, rappresentava un omaggio al potere o, se vogliamo, indicava la necessità del popolo di essere guidato e comandato anche nei momenti di festa. In questo sottile legame tra subordinato e dominante risiede l’ambiguità della parodia che, da una parte, critica e lancia strali contro i potenti, dall’altra omaggia e quindi reitera la medesima struttura di potere, sebbene invertita. Il popolo napoletano, ed il teatro che ne è nato, hanno fatto propria l’arma della parodia, provando il desiderio irrefrenabile di autodeterminarsi e di ribellarsi, ma non di rivoluzionare il sistema, se non in rarissime occasioni.

    Partendo da queste premesse che fanno del vicolo un’unità urbanistica e sociologica di interesse anche per la rappresentazione teatrale, nei capitoli successivi declinerò il rapporto tra la città, la sua storia traumatica e la produzione teatrale con particolare riferimento al Novecento, ma con necessarie incursioni nel secolo precedente ed in quello attuale. Il primo capitolo si svolge parzialmente nell’Ottocento, perché ritengo che uno dei primi passaggi epocali per la Napoli moderna sia stato il decadimento da capitale del Regno delle Due Sicilie a città marginale nelle dinamiche politiche ed economiche del neonato Regno Sabauda d’Italia. Non mi annovero tra coloro che sostengono che la Napoli borbonica fosse un luogo paradisiaco brutalmente invaso dai nemici piemontesi. La produzione teatrale di Raffaele Viviani, ad esempio, indica con chiarezza che la miseria del vicolo napoletano aveva radici ben più antiche dell’Unità d’Italia. Credo tuttavia che aver perso il ruolo di capitale del regno abbia influito sia psicologicamente che materialmente sulla produzione culturale dell’epoca, a

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