La Poetica di Tadeusz Kantor: L'eredità di un regista pittore
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Questo lavoro intende rivalutare il ruolo di fotografo di teatro, in un percorso di analisi che parte dagli anni '70 per concludersi nei '90. È il periodo in cui Maurizio Buscarino, fotografo di teatro, segue in numerose rappresentazioni italiane il regista polacco Tadeusz Kantor, regalandoci una vasta raccolta di scatti che ad oggi rappresentano la memoria collettiva del lavoro kantoriano sulla scena.
Questo, dunque, il punto di partenza. La memoria degli spettacoli di Kantor attraverso l'opera fotografica di Maurizio Buscarino. Per introdurre l'argomento, è stato necessario in prima istanza valutare la situazione sociale e storica del teatro di quell'epoca. Un'epoca avanguardistica, dove la sperimentazione riscuoteva un notevole successo in tutto il continente europeo.
Ed è in questo clima di fermento e rinnovamento che prende vita il progetto kantoriano del Cricot2, teatro composto da attori professionisti come da gente comune, atto a rappresentare il valore della memoria dello stesso demiurgo polacco. Buscarino in questo frangente opera con una certa continuità, lavorando con e sul regista in molti spettacoli. Un rapporto di lavoro atipico e “rischioso”, ma certo degno di nota.
A tal fine viene analizzata la poetica kantoriana, i dogmi del regista che in un certo senso si riflettono nelle immagini: gli oggetti, l'allestimento della scena come la sensibilità degli attori, l'atmosfera fatta di ombre tipica di un linguaggio originale e senza precedenti.
Il ruolo del fotografo di teatro viene analizzato nella parte successiva, che funge da introduzione al lavoro fotografico vero e proprio di Buscarino su Kantor. Vengono in questo caso analizzate le motivazioni, le sensazioni e le difficoltà intercorse nel lavoro al fianco del regista, ne viene analizzato lo stile, i tratti riconoscibili, le tecniche.
Indice degli Argomenti
- L'Autore
- Introduzione al Lavoro
RINNOVAMENTO E GRUPPI TEATRALI: 1970-1990
1.1 Punti di riferimento
1.2 La cultura del gruppo
1.3 La ricerca di un nuovo metodo
LA POETICA DI TADEUSZ KANTOR
2.1 L'eredità di un regista pittore
2.2 I fermenti creativi della terra polacca
2.3 Una poetica della realtà
2.4 Oggetti e memoria verso un Gesamtkunstwerk
2.5 Una poetica degli oggetti
2.6 Il teatro della morte
2.7 Il manifesto kantoriano: la poetica del rifiuto
IL RUOLO DI FOTOGRAFO DI TEATRO
3.1 Un'arte fotogenica
3.2 L'esempio del ritratto d'attore
3.3 Che rapporto intercorre tra fotografia e teatro?
3.4 Come e quando fotografare
L'OPERA FOTOGRAFICA
4.1 Maurizio Buscarino
4.2 Dal diario di Maurizio Buscarino: “Il rischio quotidiano”
4.3 Riflessioni su un rapporto di lavoro
4.4 Fotografare La Classe Morta
4.5 La tecnica fotografica
4.6 Tipologie di scatto
4.7 La scelta del bianco e nero
4.8 Cosa resta del teatro?
4.9 La parola al fotografo
4.10 Appunti sugli altri esponenti della fotografia di scena in Italia
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La Poetica di Tadeusz Kantor - Emanuele M. Barboni Dalla Costa
Emanuele M. Barboni Dalla Costa
La Poetica di Tadeusz Kantor
L'Eredità di Un Regista Pittore
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Indice dei contenuti
L'Autore
Introduzione al Lavoro
1 RINNOVAMENTO E GRUPPI TEATRALI: 1970-1990
1.1 Punti di riferimento
1.2 La cultura del gruppo
1.3 La ricerca di un nuovo metodo
2 LA POETICA DI TADEUSZ KANTOR
2.1 L'eredità di un regista pittore
2.2 I fermenti creativi della terra polacca
2.3 Una poetica della realtà
2.4 Oggetti e memoria verso un Gesamtkunstwerk (69)
2.5 Una poetica degli oggetti
2.6 Il teatro della morte
2.7 Il manifesto kantoriano: la poetica del rifiuto
3 IL RUOLO DI FOTOGRAFO DI TEATRO
3.1 Un'arte fotogenica
3.2 L'esempio del ritratto d'attore
3.3 Che rapporto intercorre tra fotografia e teatro?
3.4 Come e quando fotografare
4 L'OPERA FOTOGRAFICA DI MAURIZIO BUSCARINO SU TADEUSZ KANTOR
4.1 Maurizio Buscarino
4.2 Dal diario di Maurizio Buscarino: Il rischio quotidiano
124
4.3 Riflessioni su un rapporto di lavoro
4.4 Fotografare La Classe Morta
4.5 La tecnica fotografica
4.6 Tipologie di scatto
4.7 La scelta del bianco e nero
4.8 Cosa resta del teatro?
4.9 La parola al fotografo
4.10 Appunti sugli altri esponenti della fotografia di scena in Italia
Note
L'Autore
Emanuele M. Barboni Dalla Costa (Milano, 1981) è un artista e docente italiano. Interessato all'Arte Visiva e alla Multimedialità dall'età di 18 anni, quando un modem 56k entrò per la prima volta nella sua cameretta, può essere considerato uno sperimentatore in grado di muoversi con agilità attraverso i più diversi linguaggi della contemporaneità.
immagine 1Dalla musica alla scrittura passando attraverso la Pittura, il Teatro, il Web Design e la Fotografia, Emanuele indaga il mondo della multimedialità e l'ibridazione dei nuovi media con curiosità e costanza.
Laureato in Comunicazione all'Università IULM e in Scienze dello Spettacolo e della Comunicazione Multimediale all'Università degli Studi di Milano, dal 2004 lavora nel campo della creatività curando numerosi progetti multi-piattaforma per brand nazionali ed internazionali.
È il creatore di progetti editoriali on-line di successo: magazine, piattaforme di e-learning, siti web, podcast, canali Youtube e pagine social. Dal 2009 è docente di discipline digitali legate al Web Marketing e alla Comunicazione Multimediale.
Maggiori Info su https://zvarts.wordpress.com/progetti/
E-mail: e.barbonidallacosta@gmail.com
Introduzione al Lavoro
Il teatro, per definizione, è un'arte che si sviluppa nel tempo: quello della rappresentazione come quello della sua evoluzione storica. Risulta perciò particolare il rapporto che può intercorrere tra un'azione tanto sfuggente e una macchina fotografica, moderno strumento di memoria.
È vero anche che ogni rappresentazione teatrale include in sé una serie di elementi, incorniciati dalla scena, proprio come un'immagine fotografica incornicia una porzione di realtà.
Un rapporto inedito, quindi, in cui la rapidità dell'azione si scontra con l'immobilità dell'immagine fotografica.
La fotografia di scena, vista l'indubbia funzionalità memoriale che ricopre nel settore teatrale e in generale dello spettacolo dal vivo, è una disciplina ad oggi non sufficientemente analizzata e compresa: un terreno vergine, privo di teorizzazioni nonostante la fertilità dell'argomento. È tempo per una rivalutazione del mestiere, per comprenderne le tecniche e i fini specifici.
La scena focalizza su di sé lo sguardo del pubblico, lo ammalia e lo coinvolge con le sue rappresentazioni. Di fronte o dietro le quinte, sovente, si nasconde la sagoma invisibile del fotografo, sempre attento a non disturbare il pubblico, sempre attento a captare ciò che di importante la scena ha da dire. Un mestiere che va ben al di là della pratica ottocentesca, e ancora oggi utilizzata, di fotografo che immortala il ritratto d'attore
a fini pubblicitari. La fotografia di scena può essere, anzi è, ben altro. Può immortalare l'azione, nel suo svolgimento.
Questo lavoro intende rivalutare il ruolo di fotografo di teatro, in un percorso di analisi che parte dagli anni '70 per concludersi nei '90. È il periodo in cui Maurizio Buscarino, fotografo di teatro, segue in numerose rappresentazioni italiane il regista polacco Tadeusz Kantor, regalandoci una vasta raccolta di scatti che ad oggi rappresentano la memoria collettiva del lavoro kantoriano sulla scena.
Questo, dunque, il punto di partenza. La memoria degli spettacoli di Kantor attraverso l'opera fotografica di Maurizio Buscarino. Per introdurre l'argomento, è stato necessario in prima istanza valutare la situazione sociale e storica del teatro di quell'epoca. Un'epoca avanguardistica, dove la sperimentazione riscuoteva un notevole successo in tutto il continente europeo. Ed è in questo clima di fermento e rinnovamento che prende vita il progetto kantoriano del Cricot2, teatro composto da attori professionisti come da gente comune, atto a rappresentare il valore della memoria dello stesso demiurgo polacco. Buscarino in questo frangente opera con una certa continuità, lavorando con e sul regista in molti spettacoli. Un rapporto di lavoro atipico e rischioso
, ma certo degno di nota.
A tal fine viene analizzata la poetica kantoriana, i dogmi del regista che in un certo senso si riflettono nelle immagini: gli oggetti, l'allestimento della scena come la sensibilità degli attori, l'atmosfera fatta di ombre tipica di un linguaggio originale e senza precedenti.
immagine 1Il ruolo del fotografo di teatro viene analizzato nella parte successiva, che funge da introduzione al lavoro fotografico vero e proprio di Buscarino su Kantor. Vengono in questo caso analizzate le motivazioni, le sensazioni e le difficoltà intercorse nel lavoro al fianco del regista, ne viene analizzato lo stile, i tratti riconoscibili, le tecniche.
1 RINNOVAMENTO E GRUPPI TEATRALI: 1970-1990
Questo primo capitolo prende in analisi il teatro europeo degli anni Settanta, con particolare riferimento al fenomeno dei gruppi teatrali e all'avanguardia. Un punto di partenza certo generale, ma sicuramente necessario per indagare correttamente il clima socio-economico-culturale all'interno del quale si è sviluppata l'opera di un drammaturgo del calibro di Tadeusz Kantor, fondatore di un gruppo teatrale, il Cricot2.
Attraverso la lettura di questo capitolo e della seguente particolarizzazione relativa al teatro polacco nel capitolo successivo, è possibile comprendere l'aria, il vento di cambiamento all'interno del quale Kantor ha intrapreso il proprio cammino intellettuale.
Esemplare testimone del suo tempo, di quella insicurezza e quella mancanza di identità che contraddistinguono questi venti anni, nei suoi spettacoli si respira una quotidianità al passo con il suo tempo, con le dinamiche di altri gruppi nati quasi in contemporanea in un clima di notevole fermento creativo, che ha abbracciato il teatro occidentale in maniera costante e cinica, caratterizzando in linea generale il suo stile e i suoi temi in maniera, se possibile, riconducibile ad una vera e propria corrente di pensiero.
1.1 Punti di riferimento
Intorno alla metà degli anni Settanta, una nuova generazione si affaccia sulle scene italiane: inizia così un percorso inedito, dentro e fuori dai teatri, che attraversa e reinventa insieme la scena e la città. Si tratta di un viaggio eccentrico rispetto al teatro ufficiale
, che trova i suoi primi punti di riferimento - oltre che nelle avanguardie, teatrali e non - nel cinema, nelle arti visive, nella musica, nella nuova danza, nella televisione (Siamo la prima generazione cresciuta con la televisione
, è un ritornello spesso ribadito), ma anche nei fumetti e nei fotoromanzi, e poi nel rock e nel jazz, nell’antropologia o nella letteratura.
Attraverso queste traiettorie eccentriche si disegna un viaggio alla scoperta del teatro: o meglio, una moltitudine di percorsi che reinventano via via altrettanti teatri possibili. Non si tratta tanto di rinnovare il linguaggio teatrale dall’interno
, quanto di aggredirne i margini, ridefinirne il senso e la funzione muovendosi sui suoi limiti, misurandosi con i segni e il panorama della contemporaneità, con le sue suggestioni e contraddizioni. Certamente, non tutto il nuovo
che nasce in questi anni viene dai gruppi. E, con la stessa ovvietà, non tutti i gruppi operano con la stessa profondità e intensità. Ma il loro lavoro offre, per due ordini di motivi, un innegabile interesse.
Da una parte, per i risultati estetici
in cui si condensa una pratica di lavoro che presenta alcune caratteristiche inedite e comuni (fermo restando l’autonomia dei singoli itinerari). D’altro canto, è curiosa e rilevante la scelta, da parte di numerosi esponenti della stessa fascia generazionale, del teatro come occasione privilegiata di espressione e del gruppo teatrale come possibile forma d’aggregazione: un’aggregazione che coinvolge anche un pubblico1 che, in genere, ha caratteristiche anagrafiche e culturali simili.
Se oggi, per molte ragioni, la fase che ha visto i gruppi in un ruolo centrale sembra tramontare, diventa ancora più importante cercare di ripercorrere le tracce di quel percorso, documentarne per quanto possibile l’evoluzione, cercando di identificare alcuni dei motivi che sottendono quell’esperienza. I rischi di semplificazioni arbitrarie sono numerosi, a cominciare dalla riduzione di una infinità di traiettorie personali e spesso divergenti a una rassicurante omogeneità. E quindi, più che di una prematura storicizzazione, si tratta forse di offrire, partendo da un’esperienza recente, alcuni temi di riflessione e di dibattito2.
Il panorama teatrale italiano, alla metà degli anni Settanta, non appare monolitico. Il decennio precedente ha già assolto una funzione di aggiornamento e di rottura, con la stagione delle cantine
romane3 e l’imporsi di alcune indiscutibili personalità artistiche, con precise visioni d’autore: solo per citare alcuni punti di riferimento, Carmelo Bene4, naturalmente, Leo e Perla5, Carlo Quartucci6, Remondi e Caporossi, Giancarlo Nanni, Memè Perlini, Giuliano Vasilicò, Carlo Cecchi. Molti di loro sono entrati in rapporto con l’istituzione e il mercato, seguendo percorsi assai frastagliati, con risultati diseguali; ma generalmente il teatro pubblico si chiude a riccio di fronte a un’operatività artistica che esula dai suoi schemi, o tenta operazioni di addomesticamento più o meno proponibili e efficaci, mentre il cosiddetto mercato finisce per premiare soltanto Carmelo Bene, forse più per la sua abilità nel costruire il proprio personaggio che per adesioni estetiche. Ma, al di là di questo guado impossibile, resta l’indicazione di tanti possibili teatri diversi, e di altrettante invenzioni di mondi e di sguardi sul mondo. Si innesca così un rapido processo di aggiornamento, necessario e inevitabile per un teatro che sconta un ritardo storico rispetto a altre forme d’espressione.
Dall’interno dell’ambito spettacolare e artistico arrivano altre incisive suggestioni: a cominciare dal radicale interrogarsi sulla necessità del teatro, su cui Jerzy Grotowski7 sviluppa la propria ricerca; a cominciare, anche, dall’esempio del Living Theatre8, con la sua comunità itinerante, libera e liberante, egualitaria e creativa: il modello ideale e pratico di un’utopia che non è solo artistica e che propone il teatro come scelta e stile di vita. Così come, con modalità e intenti diversi, il gruppo teatrale come possibile modello di microcosmo sociale e culturale sarà una delle chiavi del percorso dell’Odin Teatret9 di Eugenio Barba.
Ma questi sono anche gli anni in cui Luca Ronconi progetta e imposta il Laboratorio di Prato: l’esperimento viene anticipatamente interrotto, ma sotto più di un aspetto il lavoro dei gruppi finirà per costituire una galassia di piccoli laboratori paralleli. Da un altro versante, ecco il precedente degli happening e delle performance di artisti che, lungo l’arco di un decennio, hanno praticato la contaminazione tra arte e vita, tra realtà e finzione; ed ecco, insieme, l’attenzione per l’arte come gesto (contrapposta all’arte come rappresentazione) che trova rinnovate sollecitazioni nell’esempio di John Cage10 e che si rifletterà nella pratica di numerosi artisti e danzatori. Ancora, le opere-rivelazione di Robert Wilson, con il loro implosivo senso del tempo e dello spazio, il vertiginoso gioco di associazioni, la capacità architettonica di comporre i vari livelli dello spettacolo, e quindi la possibilità di ridefinire gli a priori
della percezione, e ricostruire così i fondamenti stessi di un mondo.
Altre suggestioni arrivano dalla new dance americana11 che, muovendosi contro ogni pretesa mimetica e rifiutando quindi gli aspetti più banalmente naturalistici, descrittivi e illusionistici, sottolinea il gesto e il movimento come rapporto di pesi, forme e materia, come gioco di forze, spinte e contro-spinte, come incontro (e scontro) di corpi: la coreografia assume, così, la funzione di scoperta e definizione (e quindi, ancora una volta, di invenzione) del corpo e dello spazio.
Sono queste alcune delle linee su cui si muove inizialmente il lavoro dei gruppi, in una ricerca che tiene, comunque, sempre ben presente la lezione delle avanguardie artistiche del Novecento, che costituiranno un costante punto di riferimento anche negli anni successivi.
C’è però un’altra possibilità per attraversare il percorso iniziale dei gruppi. In un paese in cui il tessuto sociale si è profondamente trasformato in pochi anni, si è verificata una vera e propria mutazione antropologica, in un inestricabile intreccio di fughe in avanti e ritorni del rimosso, con convulsioni e lacerazioni spesso tragiche. E forse questa una delle chiavi per capire la scelta di un medium come il teatro da parte di numerosi giovani: per questa generazione, affacciatasi alla maturità poco dopo il fatidico Sessantotto, il teatro ha rappresentato anche un tentativo di vivere e interpretare questa mutazione e le sue conseguenze, cercando nel contempo di elaborare una possibilità d’espressione. Scegliendo il teatro come specchio del proprio itinerario, si tratta di operare in uno spazio certamente periferico, marginale: ma proprio per questo in grado di trasformarsi in una sorta di laboratorio aperto in cui reinventare e ricostruire il panorama della contemporaneità, in cui utilizzare e sperimentare le nuove tecnologie e le diverse modalità percettive e comunicative imposte dagli altri media.
La spinta propulsiva sembra quella di una esasperata necessità di affermare e testimoniare la propria esistenza. Ma è anche quella di una onnivora appropriazione della realtà, della possibilità di ricreare un universo rubando e ricomponendo frammenti di realtà. Da questo punto di vista, lo sguardo rischia di farsi acritico, preda di una passione onnivora e divorante per il nuovo: ma è una passione che si distacca sempre sullo sfondo d’un disagio intimo e personale, spesso segnato da un’inquietudine autentica. Perché c’è un paradosso ineliminabile nella scelta di confrontarsi a viso aperto con la modernità (fino a simularne i meccanismi), utilizzando però un mezzo vecchio
come