Il domani sorge sempre al tramonto
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E in una di quelle notti, all’uscita dello stabilimento tipografico, viene aggredita e violentata selvaggiamente.
La corsa verso la Clinica del Sole, la convalescenza e il ritorno in redazione. Il direttore le affida un’inchiesta importante: scandagliare e raccontare le storie di Marta, Ilaria, Nadia, Alice e Adele, cinque madri assassine che nel bel mezzo della loro quotidianità, fatta di alti e bassi, decidono senza un valido motivo di togliere la VITA ai propri figli massacrandoli senza pietà.
Vera entra nella stanza del DOLORE che diventerà, in parte, la sua ultima stanza.
Chiudete gli occhi per qualche secondo. Riapriteli pure.
Adesso andate all'indice, entrate nelle stanze delle Madri Adirate: scegliete quale storia leggere per prima, oppure ritornate alla pagina iniziale ed immergetevi fra le pagine di questo romanzo straordinario, così emozionante, a tratti crudo ma sincero, anche quando sbatte in faccia la triste realtà di vite di Donne vissute dietro mura domestiche apparentemente tranquille.
Ma non lasciatela sola: Vera ha bisogno di Voi.
Il professor Nardini, lo specialista che la segue dopo la violenza subita, le comunica che è incinta. Abortire è l’unica soluzione plausibile, ma vorrebbe dire Uccidere: può diventare madre ed accettare un figlio generato dal Male? Può un bambino ancora in grembo subire un tragico epilogo senza alcuna colpa? Vera diventerà, suo malgrado, una Madre Assassina?
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Anteprima del libro
Il domani sorge sempre al tramonto - Mariagiovanna Saladino
Farm
Bianco H
Il domani sorge sempre al tramonto
Mariagiovanna Saladino
Il domani sorge sempre al tramonto
è un romanzo di Mariagiovanna Saladino
Dicembre 2015 © Mariagiovanna Saladino © www.herkulesbooks.com
Tutti i diritti sono riservati.
La stanza ora è chiusa per sempre.
Il mio cuore ora è sepolto vivo.
Il mio cuore ora è chiuso per sempre.
Tutta la stanza è sepolta viva.
Fernando Pessoa
Il domani sorge sempre al tramonto
Ci sono stanze nelle quali non vorremmo mai entrare.
Varcarne la soglia significherebbe essere costretti a guardarci dentro, a scrutare, ad inorridire dinanzi all’abominevole che si sta manifestando senza appartenerci.
Non è la nostra realtà, non è l’immaginario collettivo di quella cronaca che siamo abituati a sfogliare, leggere sui giornali per poi lasciarla andare verso un’altra storia, un’altra notizia.
Ci sono stanze nelle quali alberga il volto estremo della sofferenza, quello di un disagio
che ha deciso di oltrepassare ogni limite, abbandonarsi all’ira, alla violenza più inaudita, e c’è un’informazione che ha deciso di entrare.
La porta si apre e, una volta dentro, sbatte bruscamente sulle nostre coscienze: ci sono madri che uccidono.
E allora, entrare in quelle stanze significa guardare in faccia quell’orrore e comprendere che ciò accade in un modo violento. Lo documentano le immagini video, i testi, le interviste, le domande e le risposte che aleggiano attorno a quelle stanze
e che confluiscono nel reportage di Vera, la giornalista che intraprende questo viaggio nell’orrore orientandosi tra realtà e introspezione. Ma la cronaca si fa riflessione, la violenza di quella realtà tinge di cupo la nostra sbiadita e confusa consapevolezza che, ora, bussa più forte tentando di entrare per capire: bussa insistente, con i colpi di una ricercata attenuante che faccia da conforto alle coscienze evidentemente scosse; un’attenuante che scivola spesso nella discriminante del raptus
o della follia
e quindi nella cosiddetta incapacità di intendere e di volere
; un’attenuante che rimanda negli ospedali psichiatrici dove albergano condanna e assoluzione.
Ma dentro quelle stanze hanno sbraitato i cuori di madri adirate e per aprire quelle porte c’è un’unica chiave… quella di una cronaca che si fa informazione, che esige chiarezza ed induce alla riflessione:
«Nella mia inchiesta voglio rischiare – spiega Vera− voglio provare ad illuminare questo macabro buio, questo spazio d’inquietante solitudine tra vittima e carnefice, voglio gettare l’informazione laddove non l’è consentito stare, voglio che sia arrogante nel prendersi la briga di scavare negli abissi di una crudele realtà la cui complessità rimane spesso inesplorata perché protetta da una morale, da un’eticità che per quanto giusta e sensata tende ad allontanare ciò che può scuotere, sconvolgere o negativamente influenzare, evitando, però, che la piena consapevolezza, la brusca chiarezza di quanto accade ci costringa ad una ferma riflessione o stimoli la capacità critica o la sottile presa di coscienza di quale orribile aspetto abbia assunto oggi il nostro tempo.»
Allora ecco che quelle stesse immagini video, e i forti contenuti elaborati da Vera nell’inchiesta, divengono la chiave di volta per aprire, una dietro l’altra, le porte della stanza delle bolle di sapone, della stanza chiusa, della stanza dei giri di trottola, della stanza del lago e della stanza dell’armonia apparente, questi non luoghi che la giornalista circoscrive catturandoli nella dettagliata cronaca di una quotidiana follia e che sono tragicamente vissuti da donne come Marta, Ilaria, Nadia, Alice e Adele, donne che hanno indossato la maschera assassina di una Madre Adirata:
«Colei che è unica nel generare
− chiarisce ancora Vera − finisce per degenerare
; perché queste donne, sane o malate, in bilico tra la fermezza della ragione e le inquietudini del sentimento, agitate in un mare di emozioni e cambiamenti, esasperate tra diritti e doveri, insostituibili nel gestire la maternità, finiscono per tradurre in esclusiva difficoltà
il valore autentico del loro essere madri. Allora ecco che la debolezza diventa ira, la fragilità diventa ira, l’insoddisfazione diventa ira, prima tormento e poi improvvisamente ira.»
Vera entra ed esce dai meandri di queste stanze con addosso il peso della sua personale vicenda, anch’essa tragica, segnata dalla stessa violenza, paradossalmente illuminata da questo stesso buio assassino.
Al tramonto, lungo l’orizzonte di un altro domani.
A tutte le donne e alle madri che,
nel silenzio del loro cuore,
hanno saputo amare…
La stanza della voce dei pensieri
Un silenzio profondo sembra essersi impossessato della stanza. È piombato proprio lì, nel rettangolo lungo ed essenzialmente arredato dell’ambulatorio al sesto piano della Clinica del Sole.
Lunghi corridoi, vortici di scale, stanze, camerate e ponti di collegamento, un’architettura moderna e sinuosa che non ostacola affatto la frenesia quotidiana di quel luogo ove s’intrecciano ed incanalano il dire
ed il fare
di camici e divise, di uomini e professioni, gli eventi buoni e cattivi o semplicemente ordinari della vita.
Ma nella stanza per il momento, solo silenzio e stasi.
Mi ritrovo sdraiata sul lettino, il mio corpo è immobile, supino. Sto bene, così.
La mia attesa è già di una decina di minuti.
Fisso il soffitto.
I miei occhi lo osservano con le pupille incantate mentre il mio sguardo, minuto dopo minuto, si fa sempre più profondo nel proiettare le parvenze di tutti i miei pensieri ormai in discesa libera.
È così che mi abbandono a quell’assenza di suono, a quello strano silenzio che in qualche modo mi fa sentire custodita, protetta, piacevolmente estraniata, un vuoto nel quale posso riversare tutti gli sbattimenti e le agitazioni che, come rapide scoscese, inondano la mia mente.
Adoro il silenzio: è un vuoto, quasi un niente, ma possiede una forza dirompente, riesce a spegnere tutto, a placare le onde di qualsiasi mare agitato, esplode senza boato e ciò che non ti fa sentire lo puoi cogliere nella nitidezza di ciò che ti consente di vedere.
È nell’assenza che emerge la chiarezza dell’essenza.
In questo momento sono una ladra, rubo a questa obbligata attesa un po’ di quiete: in redazione non mi è mai concesso, non può essere così per chi, come un giornalista, ha un confronto continuo e diretto con il divenire di un reale sempre incombente, attuale.
La realtà è assordante: va letta e scritta nel caos stesso in cui diviene; il frastuono dell’oggi non è mai lo stesso del domani.
«Bene, benissimo, cara Vera, anche per oggi tutto bene!»
È l’improvviso suono della voce chiara e rassicurante del professor Attilio Nardini: irrompe nella stanza e infrange, anche questa volta, ogni attimo di quella profonda e taciturna dimensione in cui mi sono rifugiata.
Eccolo Nardini, puntuale, preciso, dai modi accurati, sempre così, fuori e dentro al camice. Arriva dalla stanza accanto con le mani impegnate in uno scambio di fogli e referti, ha lo sguardo concentrato tra le righe impugnate ora nella sua mano destra ora nella sua sinistra. Quelle occhiate sono soltanto ulteriori controlli, il suo per oggi tutto bene
è assodato e finisce col riavviare l’ordinario dinamismo del fluire della mia vita.
Mi risollevo velocemente dal lettino dell’abbandono, mi riapproprio della postura eretta e rientro nuovamente nel gioco verticale di ritmi e cadenze che scandiscono la quotidianità, più o meno velocemente: pensare, dire, fare, immergersi nelle situazioni del proprio vivere ed affrontarle secondo il proprio essere.
Si posiziona dietro la sua scrivania.
Distoglie l’attenzione dalle sue cartelle.
Poi Nardini cerca il mio sguardo; accenna un sorriso di cordialità, lieto del buon esito della visita di controllo: una soddisfazione comunque moderata dalla sua professionalità di medico, esternata solo con un pizzico di entusiasmo, quel tanto che basta al dottore che intende rassicurare un paziente in attesa del referto.
Neanche io riesco a manifestare apertamente il sollievo che dovrebbe derivare dal buon esito dei consulti medici: è qualcosa che non capisco ancora bene, c’è del distacco, mi basta sapere che tutto procede nella normalità di questa mia condizione, senza fare troppe domande, basta affidarmi a quel periodico… «bene, bene».
Pochi convenevoli e una cordiale stretta di mano mi divincolano da quell’incontro; un gesto, quest’ultimo, che fin dal primo consulto aveva assunto un significato emblematico. Essere dispensata, uscire da quella stanza e da quella clinica per precipitarmi in redazione, era un po’come riappropriarsi di quella parte di me, forte e sicura, che avrei voluto essere sempre.
E lo sono.
Quando sono completamente presa dalla dedizione per il mio lavoro, immersa nel piacere di leggere, scrivere, raccontare di luoghi e situazioni, quando dalla cronaca vengo totalmente calata nella realtà della vita come un giudice che ha in mano l’autorità di poterla osservare da ogni prospettiva e giudicarla, rivelarla.
La vita è un groviglio di tempi, spazi ed anime che si dipana in infinite sfaccettature: quello che considero un privilegio per il mio ruolo professionale consiste nell’essere testimone di quelle sfaccettature, l’interprete, il cronista che, nel dover rendere agli altri la propria testimonianza, ha la facoltà di muoversi con autorevolezza in quella rete di tempo, spazio ed anima, ed esserne in qualche modo il coordinatore.
Le notizie, poi, decadono presto.
L’attualità è un perenne evolversi che non lascia il tempo di guardare indietro.
Questo ritmo incalzante dell’informazione quotidiana mi permette di continuare ad immergermi nella realtà senza mai sentirne il peso. Nulla può, nulla deve rimanermi addosso. Cambio continuamente pelle al ritmo di ciò che ininterrottamente accade.
E oggi, per me, è come se tutto succedesse due volte, una fuori di me ed un’altra dentro di me,