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Mele marce per la squadra
Mele marce per la squadra
Mele marce per la squadra
E-book263 pagine3 ore

Mele marce per la squadra

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Info su questo ebook

È passato un anno da quando LA SQUADRA poteva dirsi ufficialmente costituita ed i sei ispettori si trovano coinvolti, non per incarico ufficiale, ma quasi per caso, in una nuova difficile, rischiosa e coinvolgente indagine. Senza mai spostarsi dalle loro sedi operative, ma uniti da un vincolo professionale e umano che li fa vibrare all'unisono, fanno emergere il marciume che ha contagiato eminenti esponenti delle forze dell'ordine collusi con la mafia.

Due fatti apparentemente slegati, l'uccisione di un giovane carabiniere e lo scontro tra cosche mafiose diverse, accomunate dall'interesse per un carico di droga arrivato al porto di Messina, portano le indagini a convergere sul GMS (Grande Manovratore Sconosciuto) e a dargli un nome.

Con l'attività investigativa si mescolano i sentimenti e le vicissitudini personali e familiari dei protagonisti. I fatti, seppur crudi ed essenziali, sono sempre visti e vissuti attraverso una precisa e attenta introspezione che, scavando nell'animo di ciascuno e condividendone le emozioni, porta il lettore a conoscere investigatori, vittime e delinquenti come persone.

La squadra ne esce più coesa che mai e Gabriella Franchi, Carlo Dallolio, Piero Fantacci, Anna Gilli, Giovanni Marras e Antonio Palermo sono pronti ad affrontare una nuova avventura insieme.
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2019
ISBN9788831647380
Mele marce per la squadra

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    Anteprima del libro

    Mele marce per la squadra - Elide Ceragioli

    cambio

    Capitolo 1

    Cominciò così.

    In molti lo credono e, quel che è peggio, lo dicono.

    Chi sono io per smentirli?

    Avevo tredici anni e le tette a pera, acerbe eppure sfrontate, puntavano verso l’alto occhieggiando dalla scollatura appena accennata, da bambina che non sa di aver superato la soglia dell’adolescenza.

    Gli uomini mi guardavano di sottecchi, sorvegliavano la mia crescita, con la stessa golosa bramosia con la quale guardavano le arance o i fichi, in attesa del momento di gustarli.

    Tonio arrivò nell’ora più calda del giorno, quando la gente perbene riposa e tutte le finestre sono sbarrate, perché il sole non entri.

    Cominciò così, col suo passo pesante sugli scalini di casa e il suo bussare concitato.

    Il frinire delle cicale, improvvisamente, cessò.

    Mio padre aprì la porta e io corsi a nascondermi in cucina. Mia madre dormiva con la testa ricciuta appoggiata al tavolo. Sentii la voce di mio padre: Trasìte! Entrate, ma non mi fermai ad ascoltare la risposta e corsi fuori, dalla porticina sul retro, nella strada che si snodava come un serpente fra le case silenziose e bianche di sole e di calce.

    In fondo, oltre la linea scura dell’orizzonte, c’era il mare. Ne percepivo l’odore pungente, che mi spingeva ad aspirare con più forza, ad immettere aria nei polmoni, fino al punto che quasi mi scoppiavano e poi a leccarmi le labbra riarse.

    C’era così tanta luce che procedevo cieca, appoggiandomi ai muri caldi.

    Ma non è cominciata lì.

    Il momento è stato un altro. Credetemi.

    Ho sentito Tum… Tum… due colpi secchi come le nocche sulla porta o come lo schianto del legno o il rumore del fulmine quando si scarica sulla terra, e mi sono fermata.

    Avevo chiuso gli occhi ciechi per la troppa luce e quando li ho riaperti, l’ho vista.

    Una farfalla. Nera e blu. Grande, come nei film e nei sogni.

    Succhiava una goccia rosso rubino e sbatteva piano piano le ali.

    Len-ta-men-te. Molto Lentamente.

    Così piano che ho disteso il braccio destro, ho flesso leggermente le dita.

    Rapidamente. Pollice e indice. Solo le prime due dita.

    Prima ancora di rendermene conto.

    Prima di pensare che volevo farlo.

    Ho toccato le ali. Ho stretto le ali.

    Poi l’ho visto.

    Sdraiato nell’ombra fra due muri, proprio dove finivano le gocce di rubino, stava un uomo.

    L’urlo mi è uscito dalla gola querulo come un lamento, inutilmente potente, perché nessuna finestra si sarebbe aperta e nessuno avrebbe portato aiuto.

    Ho cominciato a correre. Toc, toc.

    Gli zoccoli sulle pietre, il buio negli occhi e il freddo nella schiena.

    Davanti alla porta chiusa, ansante, mi sono fermata. La farfalla era ancora stretta nella mano.

    Dio, fa che non sia morta!

    Lieve come un dolce pensiero lei ha disteso le ali ed è volata via.

    Sui miei polpastrelli è rimasto un poco di azzurro.

    Il marchio della mia corsa folle.

    Il segno che non era stato un sogno.

    ***

    L’uomo con la pistola era un’ombra contro il muro di calce. Sudava abbondantemente, un po’ per il caldo e un po’ per l’emozione. Aveva portato a termine il compito che gli avevano affidato. Lo aveva fatto bene, ne era certo, o quasi. La ragazzina era stata un imprevisto inaspettato. Si leccò le gocce salate sul labbro superiore e si voltò verso il compagno. Era più vecchio ed esperto di lui.

    Non ci vide! fu la rassicurante risposta. Il telefono gli vibrò in tasca. Per un momento fu tentato di non rivelare quel particolare, che ora gli sembrava di poco conto, insignificante, ma poi la sua grande propensione a credere che prima o poi il capo lo avrebbe scoperto, lo spinse a raccontare tutto. Brevemente, con la voce tranquilla di chi ha compiuto a puntino il proprio dovere, disse: La consegna è stata fatta.

    Gradì? fu la domanda.

    Non si lamentò rispose, e poi aggiunse in fretta passò una picciridda e se ne fuì senza dire niente.

    Gli parve di udire un rumore dall’altra parte del microfono. La voce gli giunse come un sibilo.

    Chi è?

    La figlia di Totuzzo. Neanche a scuola andò. Un poco tarda nacque.

    Ah! disse di nuovo la voce e questa volta il silenzio prolungato gli fece capire che si stava consultando con qualcuno. Era consapevole che poteva giungergli l’ordine di ucciderla, ma aspettò indifferente.

    Totuzzo è un bravo picciotto, che si fa i cazzi suoi. Fate fare un viaggio alla piccina.

    Corto o lungo? chiese, perché non aveva ancora chiara la sorte della ragazzina.

    Lungo… Roma o… meglio a Torino.

    L’uomo annuì, spense il telefono e ripose la pistola in tasca. Il viaggio corto sarebbe stato in qualche buca del luogo, dalla quale certo non avrebbe mai fatto ritorno. Fece un cenno al compagno e insieme andarono a prendere il corpo. Il ragazzo li guardava con occhi vitrei, immobili. Il suo ultimo sguardo era stato quello stupore per la morte inaspettata. Sulle labbra gli era rimasto l’alito di una domanda.

    Perché proprio tu?

    Il sicario non lo sapeva e non avrebbe potuto rispondergli. Obbediva agli ordini e basta. L'antica amicizia non contava. Il foro sulla fronte era rosso, preciso, senza scampo. Aveva fatto un buon lavoro e si era guadagnato la paga. Fece una breve, ma accurata perquisizione. Aprì la fodera della giacca per guardarvi dentro, poi frugò nelle tasche. C'erano un portamonete, i documenti, le chiavi, un biglietto aereo, un telefonino, un pacchetto di fazzoletti di carta.

    Questi te li lascio, disse caso mai ne avessi bisogno. Rise fra sé per la facezia. Di solito non era irrispettoso di fronte alla morte, ma questa volta ne sentiva il bisogno, quasi fosse un modo a buon mercato per sfogare la tensione. Il suo compagno lo guardò perplesso, ma non disse niente. Era molto forte e insieme non faticarono a infilare il corpo nel sacco nero che avevano portato.

    Se i muri delle case avessero occhi o racchiudessero una qualche forma di vita, non era dato saperlo. Il silenzio era totale. Al punto che potevano pensare che stavano attraversando un paese disabitato. Procedettero comunque cautamente, cercando di non fare rumore. Del resto il tragitto dal vicolo stretto si inerpicava nella parte più vecchia, disabitata, verso la chiesa antica, quasi diroccata e sconsacrata da tempo, dove avevano lasciato la macchina. Caricarono il corpo e chiusero il cofano. A Teresina avrebbero pensato dopo essersi liberati del fardello, che iniziava a emanare uno spiacevole odore.

    ***

    Totuzzo aveva versato il vino e osservava la schiuma violacea colare oltre l’orlo, sulla tovaglia bianca di bucato. Era il suo personale tentativo, abbastanza inefficace, di controllare il tremore della mano. Il cane sotto il tavolo uggiolò, quasi sentisse la sua agitazione. L’uomo seduto davanti a lui aveva poggiato un pacchetto di fogli. Totuzzo non aveva mai visto tanto denaro tutto insieme. Mille euro in banconote da dieci. Usate.

    Aveva la gola secca, arida, incapace di emettere qualsiasi suono. Chinò la testa nel gesto che gli era più abituale e che indicava la passività della sua intera vita, assoggettata alla volontà altrui. Fu l’ospite a parlare.

    A Torino c’è uno specialista molto bravo, che potrà aiutare la tua Teresina. Picciridda, fa pena il suo girare a vuoto, senza scopo né meta, per i vicoli del paese. Potrebbe capitarle qualcosa di brutto. Mi capite? Qualcuno potrebbe farsi persuaso che abbia visto cose che non doveva vedere.

    L’uomo smise di parlare, aspettava evidentemente un cenno d’assenso, ma Totuzzo dovette bere un sorso di vino, prima di trovare la forza di annuire energicamente.

    Subito dopo quello si alzò in piedi. Era stato chiaro e sarebbe stato ubbidito. Scolò il vino d’un fiato e posò il bicchiere nel punto preciso dove l’impronta rotonda era segnata sul lino candido. Totuzzo era incerto se doveva gioire o disperarsi. La pila ordinata di cartamoneta rivelava chiaramente la volontà di Tano D’Ignoto di non fare del male alla picciridda, eppure il brivido freddo della paura continuava a serpeggiargli nella schiena. Dovette appoggiarsi al tavolo per alzarsi in piedi. Il cane si drizzò insieme a lui. Aveva guaito inquieto per tutto il tempo che l’estraneo era rimasto nella stanza.

    Teresina! chiamò imperioso. Sapeva che anche Lucia, sua moglie, sarebbe arrivata insieme alla figlia. Ne aveva intuito la presenza dietro la porta chiusa della loro camera. Aveva sicuramente origliato, col pensiero sospeso, trattenuto nei polmoni a causa dell’ansia. Entrò per prima e gli andò accanto. Fissò lo sguardo sul tavolo e spalancò la bocca per la sorpresa. Non si aspettava l’improvvisa, per loro grande, ricchezza.

    Teresina caracollò dentro, con quel passo sgraziato che la caratterizzava. Aveva lo sguardo da capra selvatica, evitante, ma subito convinta ad avvicinarsi da una semplice manciata di sale. Teneva la mano destra alzata, col pollice e l’indice che si toccavano. Il seno le premeva procacemente contro la stoffa sottile della canottiera e Totuzzo sentì una fitta dolorosa al petto.

    Teresina era bella, ma la sua mente, perduta in inimmaginabili fantasie, la rendeva fragile, costantemente in pericolo. Se aveva visto qualcosa, qualunque cosa fosse, le immagini erano scivolate via, come portate lontane dal vento o dall’acqua di un fiume impetuoso. Era concentrata solo sulla propria mano e ripeteva a fior di labbra una parola: Far-falla.

    Lucia, andrai a Torino da tua sorella. C’è un professore che potrà guarire la picciridda. Qui ci sono i soldi e il biglietto per la corriera delle cinque. Ci ho messo due anni per risparmiarli. Ricordatelo! In quest’ultima affermazione c’era il messaggio che la donna doveva dimenticare la presenza del visitatore. Lucia guardò il marito e domandò solamente: Per quanto tempo staremo a Torino?

    Totuzzo alzò le spalle.

    Per un po’… rispose vagamente ed era tutto quanto sapeva, poi si voltò verso Teresina e la carezzò con tenerezza. Sei contenta che vai sul treno fino a Torino?

    La ragazzina sorrise. Il tono del padre le comunicava una sensazione piacevole e reagì con un sorriso, prima di perdersi di nuovo nella sua fantasticheria. Far-fal-la.

    Alle 17:10, con qualche minuto di ritardo, la corriera semivuota partì dalla piazzetta accanto al bar, l’unico del paese.

    Teresina si era seduta davanti, accanto all’autista e aveva cominciato a canticchiare, ripetendo ossessivamente la canzone che l’iPod le rimbombava a tutto volume nelle orecchie. Sua madre si era seduta in fondo e nascondeva il volto dietro una vecchia rivista dimenticata da qualcuno sul sedile consunto.

    Lucia era ancora una bella donna, che la pienezza della maturità aveva reso più dolce, affinando l’asperità di un carattere forte ed indomito. La miseria e i patimenti non avevano lasciato apparentemente segni sulla sua carne. Solo il tempo aveva disegnato piccoli solchi intorno alla bocca ed al naso e ingrigito i capelli, una volta corvini.

    Respirava a pieni polmoni l’aria tiepida che entrava dal finestrino aperto. Assaporava la sensazione di libertà che, pur incongruamente, stava provando. Scopriva che allontanarsi dal paese, dalla casa, da Totuzzo stesso, non le costava, anche se il futuro aveva contorni molto incerti e doveva ammettere che non sapeva cosa l’aspettava.

    Sfogliò distrattamente il giornale, cercando di non pensare e neppure di porsi domande. Non aveva alcuna idea di cosa avesse improvvisamente consentito alla sua vita di fare quella svolta imprevista.

    Era probabile che l’insipienza di Teresina ne fosse all’origine o forse la causa stessa e per un attimo, solo una frazione di tempo, per la prima volta nella sua vita, cessò di odiare la sua creatura. Di odiarne la bellezza e l’inutilità, l’incapacità di svolgere qualsiasi cosa che non fosse mangiare e bere o fare i bisogni, qualche volta in posti impropri, guidata più dall’urgenza che dalla decenza.

    Sua sorella Maria aveva accettato di buon grado di ospitarle, anche se da molto tempo non si incontravano ed i rapporti fra loro erano sporadici. Il loro era un legame familiare all’antica, inossidabile al trascorrere del tempo.

    Quando la corriera imboccò l’autostrada, imbruniva. Lucia, vinta dalla monotonia e dalla stanchezza, si assopì. Palermo era lontana, Torino le pareva dall’altra parte del mondo.

    Capitolo 2

    La notizia che Innocenzo Di Matteo era scomparso cominciò a circolare in tarda serata, quando il maresciallo Ernesto Caroli, col quale il giovane aveva un appuntamento, stanco di aspettarlo, si decise a telefonargli. Gli rispose la voce registrata per informarlo che «l’utente non è al momento raggiungibile». La pazienza non era la virtù prevalente di Caroli e fu tentato di andarsene, ma il comportamento dell’amico, per lo meno irrazionale, lo allarmava e lo convinse ad aspettare, seduto al tavolo che aveva prenotato. Alle 20:30 il ristorante era affollato e rumoroso, l'incessante aprirsi e chiudersi della porta era cessato e il carabiniere aveva realizzato che il tempo trascorso nell’attesa era troppo per giustificare un plausibile, banale ritardo e occorreva pensare ad altre ipotesi, sicuramente non piacevoli.

    Fece un numero e attese la risposta

    Stazione dei carabinieri disse la voce anonima.

    Sono il maresciallo Caroli, mi passi il tenente Vivoli.

    Sissignore! rispose il centralinista e gli parve che battesse rispettosamente i tacchi. La comunicazione con Vivoli fu breve e sintetica.

    Di Matteo non si è presentato. Il telefono è spento. Che faccio?

    Goditi la cena. Il ragazzo avrà cambiato idea. Se domani non si fa vivo, ce ne occuperemo rispose il tenente. La frase scarna, pronunciata con tono di comando, gli impedì qualsiasi tentativo di replica.

    Ernesto ordinò un’insalata, ma mentre sgranocchiava un grissino nell’attesa del cameriere, il senso di inquietudine lo travolse. Contravvenendo all’ordine, provò di nuovo a contattare l’amico e stette ad ascoltare il messaggio registrato. Sperò, per un folle istante, che fosse interrotto e sostituito dalla voce squillante di Innocenzo, ma fu deluso. Mangiò di malavoglia e bevve un po' troppo, come gli capitava quando era preoccupato, poi uscì. La notte era chiara, luminosa e l'aria profumata di mare e di fiori. Tornò a casa a piedi, percorrendo a ritroso, con passo stanco, le strade che solo poche ore prima gli erano parse familiari e che ora gli comunicavano un senso di estraneità. Alla tensione si era sostituito il peso della delusione per l'incontro mancato, i pensieri gli si affollarono foschi, confusi anche per via dell'alcool e lasciò che lo travolgessero e portassero via la sorda inquietudine. Non fu così, anzi, quando entrò nell'appartamento silenzioso le immagini dei tanti morti ammazzati, che aveva visto nella sua lunga carriera, gli si affollarono nella mente, molti avevano la faccia di Innocenzo. I terribili presagi gli impedirono di riposare e gli regalarono sonni agitati.

    Alle 8:00, indossata la divisa e sorbito in fretta il caffè amaro, prese le chiavi e scese in strada. Sua moglie aveva il turno di notte e sarebbe rientrata più tardi, non poteva aspettarla.

    La sua Ford, insolitamente solitaria, era parcheggiata poco lontano. Ricordò che era il giorno della pulizia della strada, prima ancora di vedere il camion della nettezza e il carro-attrezzi.

    La Fiesta era già attaccata e la stavano issando sul pianale. Sentì il rumore sibilante dell’argano ferirgli le orecchie.

    Nei giorni a seguire si sarebbe domandato che cosa lo avesse spinto a rallentare il passo e a non correre incontro al camion, nel tentativo di fermarlo. L’ordigno doveva essere a tempo e non controllato a distanza, altrimenti forse non lo avrebbero attivato. Non era nemmeno potente. Probabilmente era più dimostrativo che finalizzato ad uccidere.

    Desiderò che fosse così. Lo scoppio fu seguito da una fiammata nel momento in cui la macchina toccava il pianale del camion. La vigilessa fu sbalzata a terra dallo spostamento d’aria e Caroli vide, con una certa soddisfazione, il blocchetto delle multe lanciato lontano.

    Solo di sfuggita il maresciallo realizzò che qualcuno ce l’aveva con lui.

    ***

    A mezzogiorno e dieci la stanza era, finalmente, diventata silenziosa. I colleghi erano usciti tutti ed era rimasto solo col tenente Vivoli. Si guardarono dritto negli occhi.

    Pensa che ci sia una qualche correlazione con la scomparsa, chiamiamola così, di Innocenzo Di Matteo? Parli sinceramente! disse il tenente.

    Ernesto Caroli scosse la testa ed alzò le spalle.

    Non so rispose, ostentando una certa superficialità. Non ho idea di cosa volesse il collega. Magari per lui il nostro appuntamento era solo l’occasione di una rimpatriata.

    Vivoli aggrottò la fronte.

    Siamo seri. Il ragazzo avrebbe attraversato l’Italia con un viaggio al limite del massacrante, per una semplice rimpatriata?! Assurdo! Ci pensi bene. Possibile che non le abbia accennato a qualcosa?

    Caroli scosse energicamente la testa.

    No. Mi ha dato appuntamento per le 19:30 alla trattoria e mi ha detto che mi avrebbe raccontato una storia interessante. Niente di più.

    Era sincero, Vivoli se ne accorse e non insistette.

    Io posso crederci, ma chi ha tentato di farla saltare in aria non mi pare sia dello stesso parere. Ci riproverà.

    Caroli portò istintivamente la mano alla pistola, quasi potesse, con quel gesto, assicurare che sarebbe stato attento e si sarebbe difeso.

    Ovviamente, continuò il tenente, sfogliando il fascicolo che aveva davanti, terremo in considerazione per le nostre indagini anche i casi che ha seguito recentemente. Ho sollecitato i tecnici ad esaminare la sua auto e a darci i risultati il più presto possibile.

    Poi alzò la mano in un segno che voleva essere di rassicurazione e di congedo. Ernesto Caroli rispose con il saluto militare e uscì per tornarsene nel suo ufficio.

    In quella caserma di periferia, le attività erano poche ed i ritmi di lavoro rallentati. Si occupavano prevalentemente di litigi familiari, qualche reato di abigeato o furtarelli di poco conto. Lo scoppio della sua macchina e il suo miracoloso ‘scampato pericolo’, ne era certo, sarebbero finiti nella cronaca locale con notevole rilievo.

    Andò al suo tavolo, dove la pila dei fascicoli da sistemare era ordinatamente disposta a lato del vecchio computer. Lavorò fino alle 13:30, poi ripose la penna e si alzò. Solitamente faceva la pausa-pranzo mangiando un panino nella saletta adibita a mensa, ma aveva voglia di fare un paio di telefonate private, lontano dalle orecchie dei colleghi. Salutò il piantone e uscì in strada.

    La calura estiva rendeva l’aria infuocata e le pietre del selciato roventi. Cercò un po’ d’ombra sotto un platano e si sedette sulla panchina, accavallando le lunghe gambe. A trentanove anni, con un principio di adipe, Ernesto si disse che avrebbe dovuto cambiare dieta e fare più movimento. Riprovò a chiamare, senza alcuna speranza e neppure senso, il numero di Innocenzo, ma probabilmente la batteria si era scaricata, perché non gli giunse alcuna risposta, neppure quella preregistrata. Sperò che le ricerche dei colleghi della scientifica consentissero di ritrovarlo. Non doveva essere troppo difficile. Addentò il panino e chiamò sua moglie. Elisabetta lavorava come infermiera in ospedale e aveva orari che ciclicamente la tenevano lontana, così la loro storia continuava

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