Rosso divino
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Anteprima del libro
Rosso divino - Stefano Cammi
Titolo: Rosso divino
Autore: Stefano Cammi
Editore: Temperino rosso edizioni
Prima edizione 2015
© 2015 Temperino Rosso Edizioni Fortini
ISBN 978-88-98894-45-1
indice
PROLOGO: TERRA A CREDITO
L’INIZIO DI QUALCOSA
LA DISCESA DA QUESTO LATO
PERPETUAZIONE DELLA SPECIE
I REALI DEL MONTGO’
IL RITORNO DEL PREFETTO
VIAREGGIO E DINTORNI
TRADIZIONI E TRADIMENTI
PASSATO REMOTO E FUTURO ANTERIORE
NEL PRECISO ISTANTE IN CUI T’ACCORGERAI DI SCIVOLARE VERSO IL FONDO DEL MARE
UN ANNO DOPO
ELOGIO ALL’ASPREZZA
TUTTI I FIORI AL MONDO ALMENO UNA VOLTA SON RIVOLTI AL SOLE
CERALACCA
PRINCIPI SABOTATORI
SOTTO L’EGIDA DELLA TREGUA
TERMINA TUTTO QUI?
L’ANIMO CRESCENTE DEL MATTINO
DELUSIONI
SCARTOFFIE
L’ELOQUENZA DEL DISTACCO
COLLINE NERE
GRANDINE
ALLA FRANCESE
QUALE CERTEZZA?
LA FINE DEL MONDO CONOSCIUTO
A PROPOSITO DELL’OVUNQUE
HOTEL VISTA CITTA’
IL SENSO DEL BUIO
AMORE E PERICOLO
SEROTONINA
FUORI ORBITA
TASSONOMIA
IL DIAVOLO NELLA SPONDA
AD ULTIMO COMMENTO D’UN AMORALE MINIMO
PUBBLICHE RIVELAZIONI
IL DORSO DI VENERE
DA CAPO
CASA
L’ISOLA FAMIGLIARE
EPILOGO: TORNAR
Ai miei: chi c'è, chi c'era
PROLOGO: TERRA A CREDITO
… Dio?
…Già… Dio.
Questo Dio leggendario.
Questo Dio insostanziale.
Questo Dio inconsistente.
Questo Dio assurdo, lontano, irraggiungibile.
Fuori portata.
Questo Dio affaccendato, occupato, indisponibile, inagibile.
Questo Dio incostante.
Lunatico.
Volubile.
Arbitrario.
Indiscutibile.
Incontestabile.
Assolutistico.
Eccessivo.
Questo Dio tragicomico.
Incomprensibile.
Indisponente.
Insensibile.
Assurdo.
Cavilloso.
Dispotico.
Faticoso.
Ingiusto.
Inscalfibile.
Indispensabile.
Irrispettoso.
Questo Dio vendicativo, permaloso, ripetitivo.
Immodificabile.
Questo Dio inutile.
Questo Dio, non è il mio.
Il mio, concede.
Equo e paritario.
Democratico e coinvolgente.
Presente. Caritatevole. Abbondante.
Il mio Dio soddisfa.
Accoglie; dispensa; sorregge; pazienta; investe; elargisce; soprassiede; rinuncia; intuisce; dispone; concepisce; semina; raccoglie.
Il mio Dio sta nella vigna. Al mio fianco.
Mezzadro laborioso. Fattore illuminato.
Domina le perturbazioni.
Irrora i campi.
Rende fertile questa terra dura.
Ne accudisce i frutti.
Consacra la vendemmia.
Custodisce il mosto.
Vigila la macerazione. Attende l’affinamento.
Rinnova il miracolo.
Annualmente.
Lo diffonde.
Ovunque.
Messaggero di benevolenza e perpetuazione, elargisce suolo.
Il suo grembo.
Tutto lo spazio ed il tempo che ci arroghiamo abusivamente, sono prestiti a termine.
Da riconoscere.
Serbare con mistero e misericordia.
Da rifondere altrimenti.
A rate maggiorate da interessi dozzinali; tassi da cravattaro spiccio, pronto a fagocitare animi deboli; sgagnare polpa e muscoli; sbrindellare nervi e ciccia; sgangherare tendini, legamenti ed articolazioni.
Tutto questo attraversiamo, solo per un goccio di felicità ed una possibilità di salvezza.
L’INIZIO DI QUALCOSA
Non azzardarti d’iniziar a bere solo, senza me
.
Il rimbrotto lo raggiunge a mezza rampa.
Rallenta la discesa, contemporaneamente guarda di tre quarti in su, da dove giunge voce. Sull’uscio lei; più fuori che dentro, ancora con il braccio sospeso e l’indice ammonitore teso lieve, a sottolineare un mondo d’intenzioni dietro la falsa minaccia.
Altro lo coglie, d’improvviso.
Onde leggere; brividi crescenti; centinaia di minuscoli impulsi fluiscono a formare un corpo unico, compatto, che colpisce proprio lì nel mezzo, tra le viscere ed i ventricoli, da dove nasce la scossa, per dove s’irradia sino a raggiungere l’amperaggio perfetto: la consapevolezza sublime del piacere.
Va bene, farò del mio meglio. Magari solo un aperitivo con gli altri prima del servizio. Senza esagerare. Finirò verso l’una; se m’aspetti alzata, poi usciamo e c’inciucchiamo insieme. Ok?
Vale. A dopo. Buon lavoro
. Rientra.
Giù per gli scalini con un nuovo ritmo; nelle cuffie il principe dei sottovalutati David Gray, canta a quella che ama; alimenta e coccola quest’entusiasmo, lo coltiva con passione, ne protegge i boccioli dalle intemperie, mentre alla sua immagine sul pianerottolo che lo accompagna appena sfocata, rivolge il miglior sorriso a disposizione: niente di che, ma un tentativo d’esser sincero.
Tutto ciò che per molti può ritenersi normale, un onesto vivere seguendo almeno qualche piccola linea guida, delle coordinate precise, è sempre stato ben al di fuori delle sue capacità; verità, amore, impegno, dedizione, sincerità: concetti estranei.
Da poco ha iniziato a porsi delle domande, dubbi timidi; inconsapevole e disinteressato ha vissuto più di 3 decenni come un automa, una scatola vuota che solo ora inizia ad immagazzinare contenuti.
Merito di quest’incontro?
In maggioranza sì, con molta probabilità. Potere del momento giusto, inaspettato, improvviso, non cercato; lo spazio creatosi viene pervaso da sensazioni scatenate da una nuova consapevolezza acquisita pian piano, che cede vecchie scorie ed acquista nuance sconosciute.
Che meraviglia aprile!
I ballatoi e le ringhiere ancora intiepidite dopo giornate di nuovo lucide; il cortile del caseggiato di via Altaguardia riprende colorito e vigore passata l’indisposizione invernale.
Le serate scintillano; sanno di rinascita. Il 25 s’avvicina: la liberazione non poteva che essere una questione primaverile.
Con un’espressione beata tra le labbra esce di lena dall’androne; occorre affrettarsi verso il ristorante, sbrigare rapido le faccende e tornare il più velocemente possibile da lei.
Lo intriga.
Non una bellezza sfacciata, grossolana, di quelle usa e getta trovate finora che sfioriscono in un amen.
Lei seduce.
Cresce, arriva lenta, inesorabile; s’insinua; riempie senza saziare; incanta, non strega. Prende tempo e lo concede. Il fascino, la classe, lo charme: tutta una questione d’istinti, nulla che s’insegni o s’apprenda.
Gradazioni, sfumature che fanno la differenza.
La percezione delle molecole odoranti nell’aria, gli stimoli luminosi; contrazioni di chemocettori, sinapsi fotorecettoriale; micro quantità di feromoni sufficienti ad attivare l’organo vomeronasale; sensibilità acuita dalla lunghezza d’onda della luce recepita: chiaro e scuro, persistente o volatile.
Come un animale viene attratto naturalmente da tutto ciò che lo colpisce alle cornee e ne stimola l’olfatto; in meno, si fa sotterrare da una montagna di sovrastrutture sociali che martirizzano la spontaneità.
S’è sempre fatto un sacco di menate; anni passati condizionato, frenato, inibito.
Ultimamente, una delle poche cose che sta imparando a concedersi è la capacità di scelta, il discernimento. Rinuncia, piuttosto che sottostare a qualcosa d’indesiderato. Gestire un locale con una delle migliori cantine della città aiuta nell’intento: rappresenta una palestra dove allenarsi a scindere l’autentico dall’ingannevole. D’acchito ormai, riconosce ed evita i vini truffa dai veritieri; gli artefatti insufflati egomaniaci che subito si concedono, da quelli spontanei che necessitano pazienza, cure, amorevolezza, per schiudersi e scatenare struttura, profumi, gusto.
Li preferisce.
Lei pare così: una promessa per il futuro.
Come certi Barolo prodotti da eremitiche cantine in Langa: al principio nel bicchiere cola quasi una fanghiglia, scarica, odorosa, dal colore improbabile, d’impatto ostico, angolare, sprangato. L’attesa però genera il miracolo: indovinando la tempistica lunga, lo stesso vischio spacchetta tutte le proprie peculiarità una ad una, senza fretta, genialoide ed indolente, tramutandosi nel degno discendente d’un vitigno cocciuto e fiero dei propri difetti, il nebbiolo.
Conquista, non si lascia assoggettare; lega e non avvinghia, mantenendo le distanze, dignitosa, riservata, incompromessa…
… Proprio per questo chiudo gli occhi e spero che tu non scivolerai via, per scomparire come un campo coperto di neve. È il solo desidero, l’unica cosa che vorrei sussurrarti in questa splendida notte senza neppur un alito di vento
.
LA DISCESA DA QUESTO LATO
Dolceacqua è una perla.
Incastonata ai piedi del monte Rebuffao tra la Val Roia e la media ed alta Val Nervia nella riviera di ponente, gode una posizione strategica d’assoluto rilievo; il castello, evoluzione basso medievale del nucleo abitativo primordiale d’origine intemelia, domina dall’alto d’uno sperone roccioso la biforcazione e gli accessi alle montagne; consente il controllo del territorio sottostante e la difesa dell’abitato, quest’ultima avvalorata anche dal torrente Nervia, la cui portata ha rappresentato nel corso dei secoli uno scudo sicuro ed una fonte di ricchezza.
La fortificazione fu acquistata nel 1270 da Oberto Doria, capitano del popolo genovese vincitore dei pisani, direttamente dai discendenti dei costruttori conti di Ventimiglia. Nella seconda metà del ’400, grazie ad un periodo di relativa pace e prosperità, il borgo conobbe un’epoca d’espansione urbana che portò alla costruzione di nuovi quartieri per accogliere le schiere d’abitanti giunti lì sia dalle zone limitrofe, che da altre regioni più turbolente della penisola.
La famiglia Russo compì probabilmente il viaggio più lungo.
Originari d’un minuscolo villaggio poco a sud di Vasto, sul vallone di Buonanotte nell’Abruzzo citeriore, piccoli proprietari terrieri e viticoltori, furono espropriati e costretti alla fuga durante il passaggio dai Caldora, feudatari coi quali vantavano una parentela che aveva garantito protezione ed una certa prosperità, ai d’Avalos, Aragonesi instauratisi al potere verso la fine del XV secolo, decisi a tagliare tutte le agevolazioni alla nobiltà minuta ed ai commercianti concesse dalla dinastia precedente.
Alla fine del loro perigliare verso nord, si stabilirono nel nuovo quartiere del Borgo oltre torrente, collegati al resto del villaggio dal ponte a schiena d’asino di recente costruzione, poco distanti dal principio della strada di congiunzione col paese montano di Rocchetta Nervina, oggetto di brama da parte dei Doria, ormai signori incontrastati della zona.
Gli abruzzesi vennero accolti con favore e non impiegarono molto ad integrarsi nel tessuto mercantile della nuova realtà; sistemate le impellenze, in poco tempo furono in grado d’acquistare qualche piccolo possedimento per dedicarsi nuovamente all’attività che aveva consentito loro un certo agio: la produzione agricola e vitivinicola. Nelle terre del Regno di Napoli, al confine col Contado di Molise, la lavorazione della Tintilia, uva autoctona di qualità eccelsa, dava come risultato un nettare rubino intenso, quasi violaceo, dal sapore liquoroso, secco, morbido, armonico e caratteristico, che incontrò il gradimento dei potenti e permise un florido commercio nei possedimenti del reame. La posizione unica dei domini, l’altitudine collinare, le caratteristiche morfologiche del territorio, l’unicità del clima soleggiato, ventilato, salmastro, acuivano le potenzialità economiche di questo frutto privilegiato, fattore che non sfuggì ai nuovi regnanti. I d’Avalos presero possesso dei terreni scacciando i Russo, instillando la falsa credenza dell’origine spagnola della vigna grazie all’etimo d’origine iberica per giustificare il sopruso e controllare così lo smercio, godendone i tornaconti pratici.
Il nuovo insediamento dei migranti, riproduceva quasi specularmente alcune caratteristiche dei luoghi abbandonati: il microclima mesomeditterraneo subumido; l’influenza della brezza salmastra, seppur mitigata da distanza ed altitudine; la possibilità di coltivare un vitigno indigeno dalle caratteristiche uniche, il Rossese, per ottenere un derivato deciso e qualitativamente sublime. Purtroppo l’assuefazione locale al consumo di vino più leggero d’influenza provenzale, basato su una vite identica nella sostanza, il Tibouren, trattata però con altre meno aromatiche per la creazione di rosati dolci di scarsa consistenza, allungati con acqua e miele, rese molto più complicata l’affermazione commerciale: il successo del bianco Ruzzese, più consono agli usi topici, permise la sopravvivenza del rosso in purezza, ma solo 4 secoli più tardi al Rossese venne riconosciuta una valenza peculiare.
Nel frattempo la dinastia Russo, cocciuta, laboriosa, ostinata, ricostruì un piccolo grado di fortuna grazie alla lavorazione della terra, arrivando ad estendere il proprio raggio d’azione con l’acquisto di ulteriori poderi tra Bussana, Triora e Taggia. La loro opera, sapiente e consapevole, divenne fondamentale per il mantenimento di vitigni autoctoni destinati all’oblio data l’enorme pluralità di prodotti e l’eccessivo frazionamento d’una superficie ardua, impegnativa: dove le caratteristiche del paesaggio e la natura individuale dei liguri tendevano a suddividere, il lavoro d’aggregazione e recupero svolto dagli infaticabili abruzzesi, permise la salvaguardia e la ripresa di produzione e compravendita, con effetti immediati per le fortune commerciali della famiglia ed inestimabili influssi benefici sia sullo sviluppo di tecniche sempre più raffinate, che per la conservazione di patrimoni arborei storici di valore unico.
Solidità terrigna.
Valori affondati nelle radici, nelle certezze della pietra, nella sicurezza dolente della fatica, nel silenzio. I Russo non paiono simpatici sognatori; mancano di visione magica, aerea, complanare, del vivere: alle fandonie ed ai labirinti senza via d’uscita, preferiscono la scevra giustezza d’un solco dritto.
Da secoli, nei secoli.
PERPETUAZIONE DELLA SPECIE
Il processo instituito a Triora nel 1587 durò 2 anni.
Fu il termine ultimo di crudeltà raggiunto dall’Inquisizione in Italia, ispirato dalle indicazioni contenute nel Malleus Maleficarum pubblicato un secolo prima dai frati domenicani Jacob Sprenger ed Heinrich Institor Kramer, contenente le linee guida per stanare e debellare la stregoneria.
Una terribile carestia imperversava da diverso tempo. Stanca, affamata, terrorizzata, la popolazione trovò nelle donne sole, orfane o vedove che fossero, un capro espiatorio sul quale riversare la propria rabbia per le ricorrenti sciagure; la mattanza venne subito supportata e benedetta dall’opera e dalle parole del vicario dell’inquisitore generale di Genova ed Albenga: almeno una ventina di presunte fattucchiere vennero catturate, torturate ed in diversi casi arse vive. Secondo la leggenda una di loro, poco più che adolescente, amante della solitudine, contemplativa, attratta dall’osservazione della Luna, rifiutò di confessare, sopravvisse alle pene inflittele e riuscì a fuggire.
Sorto a circa 800 m sul livello del mare, alle estremità meridionali d’un costone che dai 2000m del massiccio del Saccarello scende nella valle Argentina, il borgo beneficia di un’ubicazione vantaggiosa per chi desidera darsi alla macchia; i monti sono facilmente raggiungibili da una prima parte di cammino semplice, su sentieri ampi e sgombri che si restringono poi sino a diventare inaccessibili mulattiere utilizzate nel corso dei secoli da contrabbandieri e fuggiaschi che attraverso il Piemonte guadagnavano la via per la Francia; passaggi impensabili dove al diradare della già esigua presenza umana, corrisponde un irrigidirsi delle condizioni di vita e delle probabilità di sopravvivenza. Malgrado ciò il corpo della giovane non fu mai trovato. Su di lei fiorirono miti e saghe: il suo ritratto venne tratteggiato in pose di vario tipo, in genere con i profili stravolti tipici di maligne figure sconvolte dagli spasmi della possessione; apparizioni e visioni che la riguardavano furono evocate in un raggio sempre più ampio, ogni volta che sciagure d’ogni sorta si verificarono nel corso dei secoli: molti testimoni d’epoca, sopravvissuti al terremoto che nel 1887 rase al suolo Bussana, 35 km più a sud verso Arma ed il mare, giurarono che pochi attimi prima del sisma, la figura evanescente d’una giovane donna danzava veloce tra le viuzze, mormorando incomprensibili litanie, praticando strani segni sui muri, per poi sostare corporea con aria assorta di fronte alla chiesa di S. Maria delle Grazie, costruita sui resti d’una precedente costruzione d’origine medievale.
I muri perimetrali ressero all’onda d’urto, ma inspiegabilmente il tetto della basilica, gremita di fedeli per il primo giorno di Quaresima, crollò al suolo senza dar scampo alla maggior parte dei presenti.
Al ricordo di questa ragazzina che portava il cognome di famiglia, vissuta più di 400 anni prima, Selene Russo deve il proprio nome.
Appare solida, nel fisico e nell’animo.
Travolge con una vitalità ossessiva qualsiasi incertezza, sua e di chi le sta a fianco. Ozio ed inerzia le sono sconosciuti, degna discendente d’una stirpe che ha costruito le proprie vicende zolla dopo zolla, pregando, sudando, sputando l’anima ed ignorando la spossatezza; sacrificando la vita pur d’arrivare al raccolto, al nocciolo della questione.
Generazione dopo generazione.
Senza fronzoli. Diretti allo scopo. Manualità, produzione, negozio.
Ella rappresenta una facciata opposta rispetto ad un substrato diffuso in questa splendida porzione di riviera, dove l’inazione, il gusto d’un sin troppo semplice arrendevolismo
, giustificano una