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Il cadavere e il vinto
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Il cadavere e il vinto
E-book206 pagine2 ore

Il cadavere e il vinto

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Info su questo ebook

Filippo è un ragazzo di circa vent’anni, bello, ricco, frontman di una piccola rock band, pieno di sé e molto popolare. Il suo dramma è quello del tedio e dell’insoddisfazione, alla continua ricerca di approvazione e di un “qualcosa”. Il suo percorso è di non-formazione, una involuzione che lo porterà a rasentare la follia, vittima di sé.

Ettore è un carabiniere cinquantenne, padre fallito, cinico e con scarsa voglia di vivere. Ha dentro di sé una morale focosa, che viene però seppellita dal contesto sociale selvaggio e spietato.

Giorgio è un prete laureato in psicologia. Ascolta i turbamenti di Filippo e lo vuole indirizzare verso la via religiosa, senza essere invadente. Il suo ruolo è quello del “grillo parlante”, la coscienza che troppo spesso non vuole essere ascoltata.

Un ultimo personaggio chiave è MetalMan, batterista della band di Filippo. È un ragazzo senza nome, lo si conosce soltanto attraverso il soprannome. La sua spiritualità e la sua forza vitale sono lo stimolo per Ettore di vedere il prossimo sotto un’altra luce e rincominciare a credere in qualcosa; per Filippo, invece, è il moto di invidia che diventa una pericolosa ossessione.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2016
ISBN9788867825202
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    Anteprima del libro

    Il cadavere e il vinto - Valerio Di Lorenzo

    Valerio Di Lorenzo

    Il cadavere

    e

    il vinto

    EDITRICE GDS

    Valerio Di Lorenzo Il cadavere e il vinto ©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel. 02 9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Immagine in copertina di ©Lorenzo Lattanzi

    Progetto copertina di ©Iolanda Massa

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

    Il presente romanzo è frutto della fantasia dell’Autore. Ogni riferimento a cose, luoghi e/o persone realmente esistenti e/o esistite è puramente casuale.

    Sulla strada c’erano un cadavere e un assassino

    L’assassino conosce il cadavere e

    Il cadavere conosceva l’assassino

    La strada era buia,

    i loro cuori no,

    ma ciò nonostante uno era morto e uno vivo

    su quella strada uno pensava,

    l’altro non poteva,

    un viso era crucciato, l’altro sereno

    l’assassino guarda il cadavere e

    dell’assassinio inorridisce,

    ‘non avrei dovuto’, si dice

    ‘non avrei dovuto guardare

    gli occhi stupiti

    prima di sparare’

    uno di sangue era sporco nel petto,

    l’altro di sangue era sporco

    dentro.

    Ad ogni ricordo, ecco un nuovo rimpianto.

    Ad ogni ricordo, ecco un nuovo rimpianto.

    Della stessa morte l’assassino deve morire

    Anzi, che si raddoppi la pena

    Che doppia sia la sofferenza

    Più lenta la morte,

    per espiare ogni colpa

    il dolore come espiazione

    non importa,

    non importa affatto

    che si dilani ad ogni ricordo

    che la sua anima sudicia

    gridi vendetta

    e richieda un verdetto

    Lapidatelo, impiccatelo,

    anzi meglio, che muoia da solo

    affogando nella mente

    ad ogni ricordo un nuovo rimpianto.

    Capitolo 1: Zero, uno e due

    (Ettore)

    Uscii di casa alla solita ora, le otto in punto.

    A passo pesante attraversai la strada, per poi attraccare al solito bar e ordinare il solito cappuccino con cacao con tanto di cornetto integrale.

    A servirmelo sempre lei, la bellissima cameriera del Golden Bar. Non sapevo il nome, né avevo mai avuto il piacere di parlarle, ma era riuscita a colpirmi. Fare sicuro, sorriso smagliante, sempre la battuta pronta e dalla risposta veloce. Ma il suo asso nella manica era la spropositata bellezza, tipica di una ragazza del sud d’Italia, dalla giuste curve, i capelli neri come la morte e occhi verde intenso.

    Avessi avuto una ventina di anni in meno, avrei fatto di tutto per conquistarla, ma ormai il mio tempo era scaduto. Non ci pensavo nemmeno più. I miei erano commenti contemplativi, nessuna fantasia erotica, niente eccitazione, nessun ruolo da cacciatore, un semplice uomo quasi anziano che ammira una bella ragazza, riconoscendone anche una spiccata personalità.

    Consumato il tutto, pagai il mio solito Euro, più i soliti sessanta centesimi. Tutto era pronto per il classico rito, mi sedevo e incominciavo a leggere il giornale, accendendomi i soliti sigari.

    Il giornale che andavo a leggere poteva essere di qualsiasi tipo; destra, sinistra, sport, locale, nazionale. Non aveva importanza, perché tanto io non leggevo veramente le notizie. Non stavo leggendo e fumando, stavo fumando e quindi leggendo. Non mi importava nulla di quale squadra di calcio vincesse, di chi morisse, o delle stronzate dette dai vari politici, erano sempre le stesse notizie ormai da anni.

    Il mondo è ciclico, è ripetitivo all’inverosimile. Il mondo non si stanca di ripetere sempre le stesse vicende, perché il mondo è tutti e non è nessuno. Solo io, singolo, ero davvero stufo di ascoltarle. Così vincevo la partita infischiandomene totalmente.

    Erano già scoccate le nove ed ero in leggero ritardo per il lavoro, come al solito, mi avviai verso la centrale, a passo lento da bradipo, che tanto fretta non ne avevo.

    Attraversai sulle strisce, ma dal momento che ero in divisa da carabiniere potevo anche attraversare da qualsiasi altra parte. Le macchine frenano sempre per permettere ad un carabiniere di svolgere il proprio lavoro.

    Così carezzando i miei folti baffi entrai nell’edificio che mi permetteva di vivere, che mi dava lo stipendio e senza salutare nessuno mi buttai dietro la mia scrivania.

    Il mio lavoro era il non fare niente. Una volta fatti i giusti favori alle giuste persone, si era in grado di poter beatamente non fare un cazzo e venire comunque pagati. Era il gioco degli zero, degli uno e dei due.

    Non mi importava nulla del comune cittadino, il povero fallito cittadino comune, che se gli venisse data la libertà chiamerebbe il 112 ogni dieci minuti. Il mondo era pieno di stronzi, lo stronzo più forte vince sul più debole che allora chiama i carabinieri per avvalersi della legge. Ne avevo viste e sentite di tutti i colori, quasi trent’anni di servizio erano abbastanza per farsi un’idea del proprio paese e del proprio lavoro.

    Le vere emergenze erano poche, pericolose e non pagate sufficientemente e quindi nessuno se ne preoccupava.

    Entrò nel mio ufficio la mia segretaria, Carla.

    Carla era un perfetto zero.

    Mi porse il caffè e nel servirmelo si abbassò a tal punto da schiaffarmi accidentalmente i seni scoperti in faccia. Carla era una bella donna, ma col gene della zoccola. Non ero bello, né attraente, né con un minimo di fascino, eppure quella donna voleva essere desiderata dal suo capo. Dall’uomo panciuto e baffuto in divisa a cui doveva prestare servizio. Io però non le davo spago, continuavo ad ignorarla, perché una donna zero è donna inutile e quindi brutta.

    Poco dopo entrò Francesco, un ragazzo di ventidue anni, Calabrese, capelli a spazzola e spalle larghe. Un ragazzone robusto e bello che voleva davvero fare il carabiniere. Era un giusto nel mondo sbagliato. Credeva nel suo lavoro e cercava di svolgerlo al meglio, ma era troppo buono per capire chi fossero i suoi veri nemici. Come ad esempio ero io.

    Francesco era un potenziale numero uno, ma gli mancava quella grinta necessaria per sgomitare ed arrivare nel giro di quelli che contano, per quelli che contano davvero.

    Io? Io ero un numero uno. Uno meno, ma comunque uno. Ciò che mancava a me era il desiderio di ambire, l’amore per la vita. Se Dio aveva dotato ogni uomo di un’anima, la mia l’aveva dimenticata. Mi sentivo un perfetto involucro vuoto.

    Squillò il telefono. Liquidai Francesco l’Onesto e posi fine a quell’insistente suoneria del cellulare. Numero privato. Chi cazzo è?

    «Pronto? Ehi, Leone, ciao… certo che sono disponibile, è ovvio. Domenica pomeriggio va bene, certo, certo. Conta su di me non ti preoccupare. Ciao, ciao»

    Una telefonata che non avrei voluto ricevere. Leone, il figlio di Leone Padre, un figlio d’arte d’una marcia stirpe di mafiosi. Si occupava di spaccio ed io lo dovevo proteggere. Ecco il vero ed unico motivo per il quale ero un numero uno, anzi, uno meno: Leone, un numero due.

    I numeri due sono sempre amici di altri numeri due e si servono dei numeri uno per fregare gli zero. Ecco la sintesi del mondo. Si nasce numeri due, raramente ci si diventa, e una volta conquistata la vetta è difficile regredire e mangi i pesci più piccoli. La vita è una merda, prima ce la facciamo piacere, la merda, e prima troviamo la pace.

    Siccome ero un numero uno, anzi, uno meno, chiamai Francesco e lo mandai ad ascoltare le lamentele di una fottuta vecchia rompipalle alle prese col cane ancor più rompipalle del vicino. Giusto perché lui era un numero zero e quindi non doveva fare ciò che gli piaceva, ovvero servire il cittadino. Lo allontanai dai suoi scopi, dalla sua potente veste di carabiniere.

    Io invece uscii dalla caserma per fare un giro, controllo la mia città dalla strada, come fanno i duri. Questo era il mio alibi e la gente, stupida, mi ammirava anche per questo. Come se volessi sul serio rischiare la pelle tutti i giorni, occupandomi da vicino dei problemi di strada.

    Carezzando i miei folti baffi guardavo la gente che a sua volta mi guardava, con rispetto però. La divisa era come un abito magico, dava il potere e il rispetto, nonché una tacita sottomissione. Degli zero, ovviamente.

    Me ne andavo in giro camminando a passo elefantino gonfiandomi per la mia posizione sociale. In Italia tutti avevano qualcosa da nascondere, tutti avevano la coscienza sporca e come fossi il padre di tantissimi bambini pestiferi, camminando tutti facevano largo a me. Il capo famiglia.

    Vedevo una valanga di palle, di uova, venirmi incontro. Erano le folle, gli ammassi infiniti di zero. Non potevo vedere persone, solo numeri, solo vuoto.

    Nessuno aveva un nome, per me c’erano soltanto compiti. Lo zero panettiere, lo zero calzolaio, lo zero barista, lo zero vigile urbano, l’ultra zero barbone che rovista nei secchioni.

    Barboni. Girare per Roma bastava a farmi desiderare ardentemente la doccia alla sera. Mi sentivo sporco e lurido al solo pensiero di dover camminare vicino alla gente che infestava la bellissima città.

    Immerso tra questi rognosi pensieri, ecco un colpo, un impatto, un contatto. Io e una persona a me sconosciuta ci eravamo urtati.

    Chi osava impattare contro un numero uno? Contro un carabiniere? Contro di me??

    Mi voltai indispettito e vidi un ragazzone dai capelli biondi e lunghi. Il tipico teppistello che si fa le canne e magari ha anche il coltellino in tasca. La disgrazia del futuro.

    Uno di quelli che va alle manifestazioni solo per fare casino, uno di quelli che non sarà un buon padre, uno di quelli che tradiscono la ragazza, uno di quelli che da anche i spiccioli ai barboni che chiedono elemosina e si sente un eroe per questo. Uno di quelli che critica il governo, qualunque esso sia e va contro le istituzioni e le forze dell’ordine. Lo aveva fatto apposta. Mi era venuto addosso intenzionalmente.

    «Problemi ragazzo?»

    «Solo qualche pensiero, non l’avevo vista.»

    «Dovresti stare attento a dove vai»

    Il mio tono era aggressivo, il suo piuttosto pacato. Voleva fregarmi. Non reggeva un faccia a faccia.

    «Ha ragione, mi scusi.»

    «Ecco bravo, e ora vattene.»

    Avevo messo in chiaro le cose, chi stava sopra e chi sotto. Chi era zero e chi uno.

    Ma improvvisamente qualcosa nel suo sguardo cambiò all’improvviso.

    «Sa cosa le dico? Rimangio le mie scuse, perché potrebbe benissimo essere che non sono stato io a venirle addosso, ma il contrario. Eravamo distratti entrambi, quindi non le devo alcuna scusa. Stia attento lei se non vuole essere impattato, a me in fondo non frega un cazzo»

    Certo, perché sei una nullità. Che schifo, mi aveva pure risposto. L’istinto era quello di spaccargli la faccia col manganello, che tanto l’avrei scampata con niente, ma decisi di lasciar perdere, semplicemente perché in fondo sapevo che aveva ragione. Ero distratto io per primo, quindi meglio lasciar correre.

    «Ma levati dai coglioni, hippie»

    Gli diedi uno spintone e mi feci strada, lo sentii bofonchiare qualcosa alle mie spalle, del tipo stronzo giudicante.

    Ecco nuovamente della feccia umana, zingari che chiedono l’elemosina sfruttando i propri figli, mutilati che provano a farti pena e si aspettano i tuoi soldi, musicisti da strapazzo che pensano d’intrattenerti.

    La realtà è che ai figli degli zingari avrei dato tanti calci in culo per poi mandarli in fabbrica, almeno sarebbero stati utili. Ai fottuti mutilati che scoprono le loro disgrazie avrei dato un pugno dritto sul naso e sputato in faccia, perché l’unica cosa che ottenevano era farmi schifo e non pena. Infine, agli stronzi musicisti che s’illudevano di avere un qualche talento incompreso o sprecato avrei spaccato le loro cazzo di chitarre in testa, facendogli presente che non mi dilettavano affatto, ma anzi, mi assordavano con suoni distorti e lontani dal diletto.

    Ma tutto ciò non era possibile, troppo civile la nostra cazzo di patria, troppi moralisti, troppa ipocrisia. La realtà è che tutti avrebbero voluto quelle merde fuori dal paese, lontano dagli occhi, eppure nessuno aveva le palle sufficienti per dirlo.

    Tutta quella gente mi fece passare la voglia di sfoggiare la divisa, decisi di tornare al bar e continuare a leggere comodamente il giornale.

    Inoltre c’era la bella cameriera. Una bella presenza femminile è quello che ci vuole quando si odia troppo il mondo, ed era ancora troppo presto per una prostituta.

    Capitolo 2: Post-Concerto

    (The Rock)

    Ed eccola davanti a me. Occhi verdi, capelli castani, un visino dolce.

    Corporatura minuta, di quelle che piacciono a me. Piercing al naso, qualcun altro sugli orecchi, che si vedevano appena per via dei capelli lunghi che vi si posavano sopra.

    La vedevo per la prima volta e mi piaceva. Stava davanti a me e sorrideva. Labbra rosee, piccole ma dall’aria morbida e travolgente, di quelle che ti fanno sognare il bacio.

    Nasino fino, piccolo, grazioso. Era una vera bambolina di porcellana, così dolce e carina ma dall’aria tanto fragile.

    In contrasto col suo corpo c’erano i vestiti, un po’ dark e stravaganti, il che la rendeva ancor più interessante. Aveva la maglietta dei MusicHead, il mio gruppo rock. Non ce ne erano ancora in commercio, quindi se l’era fatta stampare appositamente, da vera fan.

    Era stata scelta a caso, fra la folla, insieme ad altri ragazzini della sua età, poco meno della mia.

    Io ero The Rock, leader e voce dei MusicHead e le fan che venivano nei camerini volevano soltanto una cosa, scoparsi il loro idolo e lei era lì per me.

    «Il

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