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Lo stregone
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E-book247 pagine3 ore

Lo stregone

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Info su questo ebook

In una vecchia clinica nei pressi dell’Università di Manchester emergono i resti di tre esseri umani. La struttura, un tempo, era una casa di cura per ragazzi, ma il detective sovrintendente Jeff Barton e la sua squadra scoprono che, per un certo periodo, in essa si sono verificati violenze e abusi terribili. Le indagini conducono all’ex-direttore della casa di cura e a sua moglie, i Griffin, ora residenti in una villa in Spagna. Quando i segreti e le menzogne della famiglia Griffin vengono alla luce, si scopre che alcune delle vittime sono più vicine ai presunti colpevoli di quanto non si sospettasse. Ma Jeff, che dopo la morte della moglie è rimasto solo con un figlio e deve equilibrare le esigenze lavorative con la cura del piccolo Toby, comincia a intravedere quello che ad altri è sfuggito: il piano audace e determinato di un ex-paziente della casa di cura, un sopravvissuto in cerca di vendetta. Se Jeff è nel giusto, lui e la sua squadra devono agire in fretta prima che la giustizia sia tolta dalle loro mani. 

LinguaItaliano
EditoreBadPress
Data di uscita19 giu 2016
ISBN9781507145159
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    Anteprima del libro

    Lo stregone - David Menon

    Quest’opera è dedicata a Maddie, per il suo continuo essere straordinaria... a Hilary, Bess, Janet, Noel, Anna, Debbie, Liam, Chris, Andy, Lucy, Katy, e Simon Gper la loro straordinarietà, simpatia e amicizia... e a chiunque si ritrovi circondato dall’oscurità nera come la pece; non è giusto, ma non siete soli.

    Non sarei riuscito a mettere insieme l’edizione riveduta (su cui è basata questa traduzione, ndt) senza la grandissima dedizione e l’appoggio del mio nuovo amico Paul Barker. Grazie, Paul, per aver iniettato nuova vita nella mia storia.

    CAPITOLO UNO

    Pembroke House era stata una casa di cura per ragazzi fino alla chiusura, avvenuta nel 1993. Da allora, l’edificio era caduto in un degrado che gli abitanti del luogo avevano creduto inarrestabile, fino a quando un immobiliarista locale lo aveva acquistato, avendone intravisto il potenziale di sviluppo dovuto alla vicinanza al campus universitario di Manchester. Una squadra di operai edili era stata inviata a effettuare i lavori necessari per trasformare le venti stanze originarie in appartamenti destinati agli studenti. Ma i lavori si erano bruscamente interrotti quando la casa aveva rivelato al mondo i suoi terribili segreti.

    Jeff Barton, detective sovrintendente della polizia della contea di Manchester, ricevette una telefonata e, dopo aver accompagnato a scuola il figlio Toby, si recò direttamente su quella che ora era una scena del crimine chiusa al pubblico. Fu lì che incontrò la sua vice, l’ispettrice Rebecca Stockton.

    Buongiorno, Becky, disse Jeff mentre scendeva dall’auto.

    Buongiorno, capo, rispose Rebecca. Non concedeva a molti di chiamarla Becky, ma Jeff era uno di quelli. June Hawkins ci aspetta dentro.

    Gli operai devono aver cominciato a lavorare presto, osservò Jeff mentre i due si incamminavano verso l’ingresso. Ho ricevuto la telefonata poco prima delle otto.

    Io ho dormito dai miei genitori la notte scorsa; vivono in fondo alla strada, dunque sono riuscita ad arrivare presto.

    Come stanno mamma e papà?

    Bene, grazie, rispose Rebecca. E Toby?

    Stamattina è entrato a scuola mano nella mano con la sua amichetta Emma, rispose sorridendo Jeff. Erano così carini.

    Quel ragazzo farà strage di cuori, un giorno.

    Ovvio. È mio figlio.

    L’anatomopatologa June Hawkings godeva di un’eccellente reputazione presso la polizia della contea di Manchester e collaborava con molti colleghi di Jeff. In quel momento, indossava la consueta tuta di plastica sopra gli abiti civili. Aveva allestito un laboratorio provvisorio al pianterreno dell’edificio, dove alcuni grossi fari squadrati illuminavano un lungo tavolo. La vista di ciò che era appoggiato su quel tavolo fece svanire il sorriso dai volti di Jeff e Rebecca.

    Era un neonato, una volta, disse June in tono più solenne del normale, lo sguardo fisso su uno scheletrino che doveva essere appartenuto a un bambino molto piccolo. Lo ha trovato uno degli operai. È ancora sotto shock. Dice che gli ricorda suo nipote, che ha poche settimane.

    E non potevano lasciarlo dove qualcuno lo avrebbe trovato ancora vivo? esclamò Rebecca in un tono che era un misto di frustrazione e dolore. Perché il poverino è dovuto morire?

    Beh, è compito vostro scoprirlo, tesoro. Ma secondo le mie stime, il corpicino era lì da un po’.

    Rebecca sussultò. Dove... dove è stato rinvenuto?

    Nello stesso luogo degli altri due scheletri che sono già stati inviati al laboratorio, rispose June.

    Non sono scheletri di neonati? chiese Jeff.

    No, rispose June. Anche se uno appartiene a un bambino tra i sette e gli otto anni. L’altro è di un maschio adulto. Seguitemi.

    June condusse i due poliziotti oltre la porta sottostante alla scalinata principale dell’edificio e lungo i gradini che scendevano nel seminterrato. Era chiaro che il locale era stato utilizzato come magazzino. C’erano vecchi materassi e reti di letto, sedie e persino un piccolo televisore. La presenza di alcune vecchie custodie per videocassette fece realizzare a Jeff che il luogo doveva essere in disuso da tempo: nessuno al giorno d’oggi usava più le videocassette. I due seguirono June attraverso una specie di paravento in plastica che copriva quella che, un tempo, pareva essere stata una porta segreta, incassata circa un metro nella parete. June disse che la porta, in passato, era stata nascosta da una libreria; gli operai ne avevano scoperto la presenza quando il mobile era caduto in pezzi non appena avevano cercato di spostarlo. La porta, che ora era stata rimossa, era dotata di un sistema di chiusura a triplo chiavistello rinforzato da lucchetti. Oltre l’ingresso si apriva un ampio ambiente su cui si affacciavano, a sinistra, due stanze più piccole. Rebecca non sapeva di cosa si trattasse, ma avvertiva un senso di malignità incombente. Le pareti e le ombre proiettate dai loro corpi creavano un’atmosfera carica di tensione. Era come se un dolore e una sofferenza antichi stessero attraversando il tempo e fossero pronti a riemergere.

    Mio Dio, mormorò Jeff, guardandosi attorno. Dal soffitto pendevano delle catene che terminavano con delle manette; altre erano attaccate alle pareti, mentre appoggiata al muro di fronte ai tre vi era una panca. Dal pavimento spuntavano dei ceppi per i piedi, e alla parete erano appese delle manette. Era una specie di cella.

    Non ‘una specie’, precisò June. La situazione mi sembra chiara: i lucchetti sulla porta suggeriscono che qualcuno volesse tenere segreta l’esistenza di questo luogo, il che fa pensare che nessuno potesse entrarvi se non dietro un invito che non poteva rifiutare.

    Qualcuno ha notizie della storia di questo posto? chiese ad alta voce Jeff.

    È stato chiuso per vent’anni, disse Rebecca. I resti umani potrebbero avere questa età, June?

    Sì, è possibile, rispose June. Ma ne saprò di più una volta tornata in laboratorio.

    Io sono cresciuta da queste parti, disse Rebecca mentre si guardava intorno. Ricordo che giravano molte voci su Pembroke House. Si diceva che i bambini cattivi venissero rinchiusi qui. I miei genitori minacciavano sempre di mandarci mio fratello quando lui si comportava male.

    E cosa c’era in questo posto da renderlo una minaccia credibile per tuo fratello, Becky? chiese Jeff.

    Beh, si diceva che il personale infliggesse punizioni molto dure ai ragazzi sotto la loro responsabilità. Ma erano solo delle voci. Non sono mai emerse prove concrete.

    A quanto pare, c’è la possibilità che le voci fossero vere, osservò June. Questo doveva essere il rifugio segreto di una persona malata. Un luogo di tortura.

    Per ragazzi adolescenti, aggiunse Jeff.

    Sì, confermò June.

    Le manette sono molto pesanti. Dovevano essere dolorosissime, osservò Jeff mentre esaminava gli strumenti.

    Beh, suppongo che il loro scopo fosse proprio quello, disse June. Il legno del pavimento è pieno di macchie di sangue secco. È chiaro che quei ragazzi venivano portati quaggiù per subire qualcosa di peggio che semplici punizioni.

    A quanto pare le voci non si avvicinavano nemmeno alla realtà dei fatti, affermò Rebecca.

    E tutti quei ragazzi ne sono usciti vivi? chiese June, porgendo ai due una pila di fotografie in bianco e nero. Dopo aver subito questi trattamenti?

    Jeff e Rebecca rimasero profondamente scioccati nel guardare immagini, che mostravano abusi sessuali inferti a ragazzi da figure le cui facce erano state accuratamente censurate. Il terrore e la sofferenza impressi sui volti dei ragazzi erano fin troppo chiari. Ciascuno di loro era immobilizzato nei ceppi che i poliziotti avevano trovato nella stanza. La vista degli altri strumenti di tortura che erano stati usati sui ragazzi provocò la nausea nei due. Alcune delle foto, mostravano i giovani legati alla panca, ora frustati, ora bastonati e quindi violentati.

    Ho l’impressione che si tratti di fotogrammi, osservò a bassa voce June. Non credo che le vittime siano riuscite a dimenticare quello che hanno subito qui. Anche se immagino sarà difficile convincerli a parlare.

    Ecco a cosa servivano le videocassette, esclamò Jack. Hanno filmato le violenze e hanno conservato qui le registrazioni prima di venderle.

    C’è un grosso giro d’affari che ruota attorno a queste perversioni, aggiunse Rebecca.

    Buon Dio. Quanto devono aver sofferto quei ragazzi, disse Jeff, scuotendo la testa. E pensare che avrebbero dovuto essere tutelati dallo Stato.

    È questa la cosa più scioccante, osservò June. Non dovrebbero esserci dei controlli sulle strutture di questo tipo? Voglio dire, stiamo parlando di cose successe appena vent’anni fa. Di sicuro c’erano delle procedure atte a evitare abusi del genere, no?

    Certo che c’erano, rispose Jeff. Ma purtroppo, i pervertiti sono anche molto intelligenti. È per questo che riescono a cavarsela.

    I tre furono raggiunti da un giovane poliziotto in uniforme. Aveva in mano una delle custodie. Le ho controllate tutte e ho trovato questa, disse mentre porgeva a Jeff una fotografia. Sembra che fosse lì per caso. La custodia era la quinta di una pila di circa trenta.

    La fotografia raffigurava un bambino piccolissimo, di circa due anni. Il sorriso che rivolgeva alla telecamera metteva in mostra i suoi pochi dentini. Indossava una camicia in stile polo e pantaloni grigi di velluto a coste. La foto era stata scattata al mare; quella sullo sfondo sembrava la Blackpool Tower. Anche se il bambino aveva un’espressione allegra, Jeff riuscì a intravedere qualcosa di poco sano nel suo sguardo. La sua era un’allegria forzata. Era come se covasse la speranza che qualcuno scoprisse un certo, terribile segreto, che avrebbe portato alla sua liberazione. Jeff trasse un respiro profondo.

    Sorride, ma mi sembra triste, disse.

    Mi faccia vedere, disse June. Osservò la foto, dapprima con superficialità, poi con maggiore attenzione. Non vi sembra che abbia un che di familiare?

    In che senso? chiese Jeff.

    Non saprei, rispose June.

    Lo riconosci, June? domandò Rebecca.

    Beh, no, ma c’è qualcosa in lui che mi fa pensare che dovrei, rispose il medico. Ma no, non ho mai visto in vita mia quel poveretto. Mi domando quale sia la sua storia e perché ci sia una sua foto qua sotto.

    Jeff sapeva che lui e la sua squadra avrebbero subito forti pressioni perché arrivassero in fretta alla soluzione del caso. L’infanticidio suscitava il disgusto dell’opinione pubblica più di ogni altro reato, e i titoli con cui i media avevano presentato la Casa degli Orrori avevano rivelato fin troppi dettagli. Lui e Rebecca tornarono a Pembroke House dopo che la scientifica ebbe rinvenuto uno scatolone contenente attrezzatura cinematografica. Si trattava di strumenti obsoleti, tra cui vecchie videocamere e diversi rotoli di pellicola da 16 millimetri, ma lo scatolone conteneva anche diverse copie della rivista Today’s Filmmaker datate tra il 1985 e il gennaio del 1993; quest’ultima data precedeva di un paio di mesi la chiusura della clinica. Non c’erano dubbi che qualcuno si fosse dato alla cinematografia in quella segreta, ma i risultati non erano probabilmente adatti a Disney Channel. Era chiaro che sarebbe stato necessario esaminare nel dettaglio la storia della struttura; Rebecca si caricò di quella responsabilità.

    La casa di cura aveva aperto verso la fine degli anni Quaranta, e per un certo periodo era stata una struttura modello. I rappresentanti di autorità locali sparse per tutto il Paese erano venuti a visitarla ed erano rimasti favorevolmente colpiti dall’atmosfera domestica che si respirava tra le sue mura. La struttura aveva continuato a godere di una reputazione immacolata fino al 1984, anno in cui tutto sembrò cambiare. L’incarico di direttore passò nelle mani di un uomo di nome George Griffin e presto si diffuse la voce che costui aveva abbandonato quelli che chiamava i metodi di cura lacrimosi che piacciono tanti ai liberali per tornare alla cara vecchia disciplina ferrea. Erano stati istituiti dei coprifuoco e a ciascun ragazzo erano stati assegnati dei lavori da svolgere, pena la perdita di ‘privilegi’ come la televisione e la possibilità di socializzare con gli altri ragazzi. Il corrispondente di un giornale locale aveva accusato Griffin di aver trasformato la casa di cura in una prigione, ma questi non aveva voluto sentire ragioni. La sua replica era stata che il Paese mancava di disciplina, e che quel male affondava le sue radici nei giovani della stessa estrazione sociale di quelli con cui aveva a che fare abitualmente. Sosteneva di aver adottato quel regime repressivo con lo scopo di preparare i giovani alle responsabilità degli adulti ed evitare che si trasformassero in parassiti sociali; peccato che la quasi totalità di coloro che erano passati da Pembroke House, con una sola eccezione, fossero ora morti, alcolizzati, tossicodipendenti o visitatori abituali di certe strutture statali, in particolare le prigioni. Griffin aveva sempre negato che ai residenti della casa di cura fossero state inferte punizioni corporali, ma nel 2001,all’interno di un documentario televisivo incentrato sulle condizioni dei giovani nelle case di cura, era stata trasmessa un’intervista a un precedente inquilino di Pembroke House di nome Ronnie Wiseman. Questi sosteneva di aver denunciato violenze fisiche e sessuali a un poliziotto nel 1989. Wiseman era stato mandato a Pembroke House in seguito a un crollo nervoso della madre, che non poteva più tenerlo con sé. Avrebbe dovuto rimanere nella casa di cura per poche settimane, ma aveva finito per rimanervi per due anni, durante i quali sosteneva di essere stato picchiato regolarmente e per motivi spesso insulsi, come l’aver mangiato un biscotto al cioccolato di troppo. Wiseman aveva inoltre dichiarato che gli abusi sessuali subiti gli avevano distrutto la vita all’età di quindici anni.

    A lasciare di stucco Rebecca fu il fatto che, all’epoca, la polizia provinciale di Manchester avesse proibito di rendere pubblico il nome dell’agente di polizia che aveva raccolto la dichiarazione di Wiseman. Era un fatto quantomeno inconsueto. Rebecca chiese un favore a un collega più anziano, il quale le diede accesso al file riservato dove era indicato il nome dell’agente. Dopo averlo visto, Rebecca corse da Jeff.

    Quello che sto per dirle non le piacerà, esordì la donna dopo essere entrata nell’ufficio del suo capo e aver chiuso la porta.

    Dammi un indizio.

    Rebecca riepilogò le sue scoperte, concentrandosi in particolare sulle accuse di Ronnie Wiseman.

    Cosa accadde dopo quella denuncia? chiese Jeff. Ci fu un’indagine?

    Eccoci al punto che non ti piacerà, disse Rebecca. Wiseman raccontò all’intervistatore che quell’agente raccolse la sua deposizione, ma non vi fu mai un processo e lui non seppe più nulla.

    Non capisco.

    La troupe televisiva cercò di intervistare l’agente a cui Wiseman aveva rilasciato quella deposizione, ma la polizia di Manchester ottenne un’ingiunzione contro la pubblicazione del suo nome e negò l’intervista.

    E noi sappiamo di chi si trattava?

    Il file era riservato, ma sono riuscita a dare una sbirciatina, rivelò Rebecca.

    Un giorno o l’altro finirai nei guai, Becky.

    Rebecca sorrise. Adorava quando Jeff la chiamava Becky. A volte essere una ficcanaso ha la sua utilità. Comunque, quell’agente era il sovrintendente capo Hayward.

    Stai scherzando, vero?

    No, anche se all’epoca era semplicemente l’agente Hayward.

    CAPITOLO DUE

    Jenny Lake incontrò sua figlia in un piccolo bar chiamato ‘Cameron’s Place’, situato in Didsbury Street, nel sud della provincia di Manchester. Jenny aveva ordinato un panino al prosciutto, che quando arrivò non aveva un’aria molto appetitosa. Il pane abbondava, ma lo stesso non si poteva dire del prosciutto, e l’insalata di accompagnamento navigava nella vinaigrette dall’odore più mefitico che Jenny avesse mai annusato.

    Mamma, non sembri contenta del tuo panino, commentò Gabby.

    E infatti non lo sono, rispose Jenny. "Questa mattina ho dormito fino a tardi e non ho fatto in tempo a fare colazione. Ho un certo appetito.

    Se non ti piace, cambialo, disse Gabby. Di’ che non ti piace e ordina qualcos’altro.

    Jenny sospirò. No, va bene così.

    No che non va bene, mamma. Non ti piace.

    Sai che non amo attirare l’attenzione.

    Non ti preoccupare, mamma. Cameron non ci rimarrà male.

    Il bar era di proprietà di e gestito da un australiano di nome Cameron James, un uomo sulla trentina. Aveva conosciuto una turista di Manchester e si era innamorato di lei al punto da seguirla fino a casa sua. Si erano sposati e avevano avuto un bambino, ma questo non impediva a tutte le clienti di provarci con Cameron. Era il classico bello australiano: alto, magro e dall’aria vissuta. Non appena il sole faceva capolino oltre le nuvole, i pantaloni corti entravano a far parte del suo abbigliamento. Aveva un modo di fare rilassato e alla mano che gli conquistava le simpatie di tutti. Faceva parte dei club di cricket e di rugby della zona. La sua bellezza era accentuata dai riccioli castano scuro e dall’ombra di barba che non mancava mai di coprirgli il viso. Quella sua aria da persona appena uscita dal letto sembrava convincere ogni donna che entrasse nel suo bar del fatto che Cameron fosse il boccone più prelibato su cui avessero mai posato gli occhi.

    Cameron raggiunse il tavolo con la sua consueta camminata da bullo australe a riposo.

    Tutto bene, signore?

    Gabby spiegò che sua madre aveva trovato sgradevole il panino e, dopo una breve discussione, Cameron promise di portarne uno con pomodoro e formaggio, senza contorno.

    Vi chiedo scusa, signore, disse Cameron, con il consueto atteggiamento piacione. Ho un ragazzo nuovo in cucina e la sua tecnica, come dire, lascia ancora un pelo a desiderare. Ma imparerà.

    Sai, Cameron, se tu non fossi sposato e io non fossi perdutamente innamorata del mio fidanzato, io e te saremmo fatti l’uno per l’altra, scherzò Gabby.

    Cameron sorrise. Chissà, tesoro, magari nella prossima vita.

    La prendo come una promessa.

    "Ma come farò a trovarti? Potresti reincarnarti in

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