Studium - Le Università cattoliche oggi
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Anteprima del libro
Studium - Le Università cattoliche oggi - Emerico Giachery
Paolo Carusi, Vincenzo Cappelletti, Paolo Cavana, Giuseppe Dalla Torre, Emerico Giachery, Maria Teresa Giuffrè, Alessio Leggiero, Gian Enrico Manzoni, Massimo Naro, Antonio Giovanni Pesce, Mario Pollo, Michele Riondino, Claudia Villa, Stefano Zamagni
Le Università cattoliche oggi
STUDIUM
Rivista bimestrale
COMITATO DI DIREZIONE
Vincenzo Cappelletti, responsabile; Franco Casavola
COMITATO EDITORIALE
DIRETTORE: Giuseppe Bertagna ( Università di Bergamo);
COMPONENTI: Mario Belardinelli ( Università Roma Tre, Roma), Ezio Bolis (Facoltà teologica, Milano), Massimo Borghesi (Università di Perugia), Giovanni Ferri (Università LUMSA, Roma), Angelo Maffeis (Facoltà teologica, Milano), Gian Enrico Manzoni (Università Cattolica, Brescia), Fabio Pierangeli (Università Tor Vergata, Roma), Angelo Rinella (Università LUMSA, Roma), Giacomo Scanzi (Giornale di Brescia).
RESPONSABILE EDITORIALE: Roberto Donadoni
VICERESPONSABILE EDITORIALE: Simone Bocchetta
REDAZIONE: Anna Augusta Aglitti, caporedattore
Gli articoli della Rivista sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche ci si avvarrà anche di professori esterni al Consiglio scientifico. Agli autori è richiesto di inviare, insieme all’articolo, un breve sunto in italiano e in inglese.
REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE
Edizioni Studium s.r.l., via Crescenzio, 25 - 00193 Roma
Tel. 06.6865846 / 6875456, c.c. post. 834010
Abbonamento cartaceo 2016 € 70,00 / estero € 110,00 / sostenitore € 156,00
Un fascicolo € 16,00. L’abbonamento decorre dal 1° gennaio.
e-mail: info@edizionistudium.it Tutti i diritti riservati.
www.edizionistudium.it
ISBN: 9788838244711
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Indice dei contenuti
VINCENZO CAPPELLETTI. Il silenzio dell’Università
IL PUNTO
GIUSEPPE DALLA TORRE. Giustizia e misericordia
Le Università cattoliche oggi. A cura di Giuseppe Dalla Torre
GIUSEPPE DALLA TORRE. Alle origini dell’Università cattolica
STEFANO ZAMAGNI. Identità e missione dell’Università cattolica
MARIO POLLO. L’Università cattolica tra istruzione ed educazione
MICHELE RIONDINO. L’Università cattolica nell’ordinamento canonico e nel magistero della Chiesa
PAOLO CAVANA. L’Università cattolica negli ordinamenti statali
LECTURAE DANTIS VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE
ALESSIO LEGGIERO. Una criptocitazione dantesca. L’archeologia della lingua rivelata nella scienza ideale
giobertiana
MASSIMO NARO. Alta fantasia: la teologia poetica di Dante Alighieri
LETTERATURA E FILOSOFIA
ANTONIO GIOVANNI PESCE. L’inquietudine e il totalitarismo. Note filosofiche su Graham Greene
OSSERVATORIO POLITICO
PAOLO CARUSI. La Repubblica italiana: 25 anni di interpretazioni (1989-2015)
INTERVENTI CRITICI
EMERICO GIACHERY. Mario Scotti poeta
MARIA TERESA GIUFFRÈ. Coscienza e letteratura - Hans Christian Andersen e le sue Fiabe
LA NOSTRA BIBLIOTECA
Gian Enrico Manzoni
A questo numero hanno collaborato:
GIUSEPPE DALLA TORRE, rettore emerito, Università LUMSA, Roma.
STEFANO ZAMAGNI, professore ordinario di Economia politica, Università di Bologna.
MARIO POLLO, professore a contratto di scienze e tecniche psicologiche, Università LUMSA, Roma.
MICHELE RIONDINO, professore straordinario di Diritto Canonico, Pontificia Università Lateranense, Città del Vaticano; docente a contratto di Canon Law, Università LUMSA, Roma.
PAOLO CAVANA, professore associato di diritto canonico ed ecclesiastico, Dipartimento di Giurisprudenza, Università LUMSA, Roma.
CLAUDIA VILLA, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica, Università di Bergamo e Università di Pisa.
ALESSIO LEGGIERO, dottorando in Teologia Fondamentale, Pontificia Università Lateranense.
MASSIMO NARO, professore di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica di Sicilia, Palermo, e direttore del Centro Studi Cammarata per la Ricerca sul movimento cattolico in Sicilia.
ANTONIO GIOVANNI PESCE, dottore di ricerca in Filosofia e storia delle idee, Dipartimento di Scienze Umane della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Catania.
PAOLO CARUSI, ricercatore in Storia contemporanea, Università Roma Tre.
EMERICO GIACHERY, saggista e scrittore, già professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea, Università Tor Vergata, Roma.
MARIA TERESA GIUFFRÈ, saggista e critica letteraria.
VINCENZO CAPPELLETTI. Il silenzio dell’Università
L’Università tace, non solo in Italia. E tacciono le Accademie, l’altro spazio elettivo della dialettica concettuale, teoretica, ideologica. Senza dare nell’occhio, la stampa quotidiana, settimanale, mensile, comunque affidata a una periodicità che s’illude di creare un flusso continuo di idee, a prescindere dalla serrata concretezza del dialogo; una stampa che questo fa per oculata scelta di campo, affidandosi di preferenza a un paradigma breve – una pagina o poche –, pervade ormai lo spazio e il tempo della società odierna, compresa, duole dirlo, la scuola gelosa fino a ieri della propria oculata lentezza.
Sembra essersi interrotta una lenta continuità, del riflettere in funzione dell’apprendere, del parlarsi e del dialogare nelle molteplici circostanze e ancor più nei successivi livelli, dove si realizza, o meglio si costruisce, l’identità di ciascuna persona e di quell’entità, spesso abusata, talora mentita, che è la patria: il tutto e il flusso storico ai quali si appartiene. Con la lingua che ne esprime l’essenza festosa e gioiosa, ancor prima di affrontarne il roccioso livello dei significati. Della lingua, nel suo costruttivo accomunare speditezza e rigore, la scuola ha saputo essere una garanzia inespugnabile. Fino a diventare nel vertice accademico – Accademie e Università hanno continuato a scambiarsi i significati, pur conservando un’opportuna distinzione – una sola entità, ambita e nobilitante. Si trattava di un presidio della cultura come sapere critico e come dialettica, a tutela della conoscenza ovunque fondatamente richiesta. A una condizione: la consapevolezza della parola come preludio al concetto, a quanto può e deve dirsi conquista del significato e conferimento ad esso di un’oggettiva invarianza.
L’Università aveva conservato il privilegio, fino a tempi recenti, di accomunare la tutela del linguaggio e la ricerca della verità. C’era sempre stata, nel lessico della scuola superiore e dell’Accademia, una prerogativa di significati dei quali venisse serbato l’uso legittimo a chi riconosceva nella ricerca il proprio ruolo. Che cosa può significare un’Università silenziosa, racchiusa nello specialismo o nel presidio della consuetudine? Il distacco della prassi dalla vita, e della verità dalla storia: l’abbandono del divenire da parte dell’essere.
La prassi è pronta a usurpare il discorso sulla verità. È doveroso opporsi energicamente al distacco della ricerca dalla scuola. Nessuna libertà di stampa avrebbe senso, se non al servizio della ricerca, di cui la cultura vive. L’Università non può non ambire il privilegio di rappresentarne ancora l’espressione più alta.
Vincenzo Cappelletti
IL PUNTO
GIUSEPPE DALLA TORRE. Giustizia e misericordia
Nella bolla Misericordiae vultus, con cui papa Francesco ha indetto il Giubileo straordinario della misericordia, ben due paragrafi – precisamente i nn. 20 e 21 – sono dedicati ad un tema antico per gli studiosi del diritto, ma non solo per loro: ci si riferisce alla questione del rapporto tra giustizia e misericordia.
Dopo aver affermato che non si tratta di aspetti contrastanti fra di loro, ma di «due dimensioni di un’unica realtà che si sviluppa progressivamente fino a raggiungere il suo apice nella pienezza dell’amore», il documento mette in chiaro come una concezione integralistica della giustizia abbia non poche volte portato «a cadere nel legalismo, mistificando il senso originario e oscurando il valore profondo che la giustizia possiede». Sottolinea poi che la misericordia «viene rivelata come dimensione fondamentale della missione di Gesù», per giungere ad un’affermazione forte, che può persino apparire audace: «Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge».
È evidente che il documento pontificio non intende essere una trattazione di filosofia del diritto o di teologia del diritto; ha finalità altre che quella, pur di non secondaria importanza, di sciogliere il nodo che da secoli arrovella i giuristi circa i rapporti tra giustizia e misericordia. Tuttavia l’aver puntato l’attenzione anche su questi rapporti non può non costituire una forte sollecitazione a tornare a riflettere su una questione antica.
Una prima considerazione al riguardo viene ricordando il brocardo di derivazione romanistica «dura lex, sed lex». Pare che questa espressione si sia venuta formando nell’antica Roma, al momento del passaggio dal diritto orale, non sempre così certo per la fragilità della memoria e la soggettività dei replicanti, al diritto scritto: come tale un diritto certo, immutabile, eguale per tutti. E però un diritto che non per questo è necessariamente, in ogni caso, realizzatore di giustizia.
Giova notare al riguardo che la diffidenza verso una giustizia senz’anima, senza umanità, non è sentimento di oggi.
Certamente nella contemporaneità, e soprattutto in alcune realtà socio-politiche e ordinamentali, quella della giustizia come implacabile applicazione di una legge positiva che non fa differenze e di un giudice che non distingue, non guardando in faccia a nessuno, è percezione diffusa, per non dire comune; una percezione cui fa specularmente eco l’anelito ad una giustizia vera, sostanziale, non formale, non legalistica.
Il riferimento non è solo a quelle realtà politico-giuridiche, ispirate dall’ideologia e segnate dal totalitarismo, nelle quali la ferrea ed inesorabile riduzione del ius al iussum contrabbanda per giustizia il formalistico adeguamento al precetto normativo, anche se dal contenuto ingiusto. Da questo punto di vista il secolo che abbiamo appena alle spalle ha disvelato, con i suoi Lager ed i suoi Gulag, le lacrime ed il sangue che rappresentarono il frutto di quella che fu davvero l’orgia del positivismo giuridico.
Il riferimento alla pervasiva percezione di diffidenza diffusa nei confronti della giustizia si sostanzia oggi, infatti, anche nelle società democratiche, per il tornante pericolo di un cortocircuito tra legalità e legittimità che incombe, nonostante l’imponente strumentario tuzioristico dato dai diritti umani, dalle carte fondamentali, dai sistemi di controllo della costituzionalità delle leggi. Al denunciato sentimento ha contribuito in maniera forse non chiaramente percepita, ma reale, quell’istanza così fondamentale e imprescindibile all’eguaglianza, che conduce sovente l’uomo contemporaneo a pensare che nella égalité, prima ancora che nella liberté, si fondi la democrazia. Perché si tratta – al di là di ogni affermazione o di ogni intenzione – di una eguaglianza precipuamente intesa in senso formale e, quindi, livellatrice del trattamento giuridico; perché si tratta di una égalité che ha dimenticato la fraternité. Una eguaglianza che davvero, se così intesa, può essere ricondotta al novero di quelle che, acutamente, sono state dette da un grande storico del diritto, Paolo Grossi, le «mitologie giuridiche della modernità»; mitologie che risultano dure a morire.
Insomma il «dura lex, sed lex» passa sopra il dato reale di una regola data tenendo conto della generalità; una regola che va bene nella stragrande maggioranza dei casi ma che talvolta, nella concretezza di una persona o di una situazione, diviene sostanzialmente ingiusta.
Qui si coglie una delle differenze sostanziali dei diritti secolari con il diritto canonico. Questo, essendo finalizzato al bene spirituale della persona, alla salus animae, non può permettersi che una disposizione data, tenendo conto delle esigenze del comune fedele, possa, in un caso concreto, divenire anziché strumento di salvezza occasione di peccato o, comunque, ostacolo al bene spirituale del soggetto. Se ciò dovesse accadere, evidentemente il diritto della Chiesa non solo non perseguiterebbe il proprio fine, ma addirittura contraddirebbe sé stesso. È evidente che il problema si pone per le norme di produzione umana, sempre imperfette anche quando sono opera di un legislatore raffinato ed accorto; norme che, quindi, non sono mai effettivamente giuste per tutti. È altrettanto evidente che il problema non si pone, viceversa, per le norme di diritto divino, che ovviamente trascendono la fallibilità umana e quindi sono perfette per definizione.
A ben vedere, è proprio dall’accennata esigenza intrinseca al diritto canonico che discende il pullulare di istituti canonistici quali la dispensa, la grazia, la tolleranza, ovvero le singolarità dello stesso sistema penale e sanzionatorio, ispirati all’idea di un diritto su misura del singolo fedele; un diritto capace di realizzare effettivamente la giustizia nel caso concreto.
Guardando al divenire della storia, si coglie una costante aspirazione dell’uomo a che la giustizia, per essere veramente tale, debba ricomprendere in sé l’umanità, la filantropia, l’amore per gli uomini, che come scriveva in un saggio filosofico-giuridico di molti anni fa Guido Fassò, «solo permette di comprenderli pienamente e di stabilire quindi con essi il più perfetto, giusto rapporto».
Sin dall’antichità si è posta in evidenza la necessità, per giungere alla vera giustizia, di una ispirazione del diritto di volta in volta indicato con termini quali aequitas, humanitas, pietas, benignitas, clementia, misericordia e persino, dopo che la cristianizzazione del mondo antico erasi compiuta, caritas. Una ispirazione tesa a consentire il perseguimento della giustizia attraverso lo strumento giuridico, ma evitando i tradimenti che possono essere perpetrati da una rigida ed integrale applicazione del diritto nel caso concreto: «summum ius summa iniuria», denunciava come noto Cicerone, riportando un ormai consolidato proverbio circolante nella società romana del suo tempo.
Ma in fondo, a ben vedere, l’istanza ad una giustizia giusta, quindi attenta all’uomo, non rigida, non autoritaria, non insensibile alle sciagure umane, era già presente nella cultura greca; si può cogliere, ad esempio, sottesa all’inquietante interrogazione che Sofocle fa porre da Antigone a Creonte sulla inderogabilità delle leggi non scritte degli dei
, dato che queste, a differenza di quanto può accadere nelle umane, sono pietose. Si tratta di una istanza ben presente, d’altra parte, nella tradizione vetero-testamentaria, posto che sin dai primordi della storia religiosa di Israele il riferimento ultimo è a Iahvé, conosciuto come «un Dio di grazia e di misericordia» (Esodo 34, 6).
La misericordia anzi, a differenza di quanto accade tra gli uomini, risulta essere attributo propriamente di Dio: «Io non agisco seguendo l’ardore della mia ira – dice in maniera fulminante Osea (11, 8 s.) – poiché sono Dio e non un uomo».
A tale aspirazione antica il cristianesimo ha offerto un alimento formidabile, come con le sue indicazioni tra le beatitudini, laddove giustizia e misericordia appaiono strettamente connesse, addirittura consequenziali. Perché se sono «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati», subito dopo si annuncia che altrettanto lo sono «i misericordiosi, perché troveranno misericordia» (Matteo 5, 6-7).
Il discorso della montagna si colloca, è vero, in una prospettiva escatologica e le beatitudini promettono una futura salvezza; ma quel discorso ha, nel corso della storia, una forza pedagogica straordinaria che permea la cultura e forgia una identità. Pur nel primato che il messaggio evangelico conferisce, in caso di lite, alla riconciliazione, alla carità reciproca, al cercare di evitare il giudizio – e nelle pagine Matteo (5, 23-25) e di Luca (12, 57-59) è anche, forse, l’eco della diffidenza popolare di sempre per una giustizia umana incerta e precaria –, esso finisce per veicolare nella christianitas una concezione rivoluzionaria di giustizia, nella quale l’istanza antica trova appagamento in una idea di fondo: quella che coniuga giustizia e misericordia.
Il processo di inculturazione del cristianesimo tra tardo antico e medioevo porta a superare l’antica contrapposizione tra rigor iuris e humanitas, tra una concezione della giustizia intesa come espressione eccellente della forza, che con la sua spada taglia netto, rispetto alla humanitas che non con il ferro ma con l’unguento sana le ferite dell’uomo. La manifestazione più evidente, ma anche la più autorevole, la si ha nel medioevo maturo, nell’ambito della più elevata speculazione filosofica e teologica in cui si esprime l’antropologia ormai consolidata del tempo. Dirà, infatti, nella quaestio 21 della Prima Secundae della Somma teologica, Tommaso d’Aquino: «misericordia non tollit iustitiam, sed est quaedam iustitiae plenitudo» (a. 3, ad 2). Dunque misericordia e giustizia non si escludono; anzi, quella senza misericordia è in qualche modo una giustizia incompiuta, una giustizia parziale, nella concretezza della fattispecie forse anche ingiusta.
Il processo di collegamento fra giustizia e misericordia non andrà avanti, nell’età di mezzo, tanto facilmente e de plano; il rapporto tra le due, e più in generale il rapporto tra giustizia e carità – il precetto cristiano per eccellenza – darà luogo ad elaborazioni teoretiche diverse, non solo tra gli studiosi del diritto secolare ma tra gli stessi canonisti. Con l’avvento dell’età moderna, la misericordia tende ad eclissarsi dalla sfera della giuridicità. Il ralliement che il Medioevo cristiano aveva favorito poco a poco si scioglie, man mano che i paradigmi religiosi cedono all’avanzata progressiva, ma implacabile, di una secolarizzazione che in realtà è secolarismo e persino le mutazioni del linguaggio giuridico tradiscono questa transizione.
Il divorzio moderno tra giustizia e misericordia avviene precipuamente in due ambiti.
Il primo è quello del rapporto tra diritto e morale. Radicandosi nella coscienza moderna la convinzione dell’eterogeneità del diritto rispetto alla morale, si è prodotta in definitiva la perdita del senso della dimensione etica della giustizia, e con essa l’oblio dell’antica certezza per la quale non vi può essere vera giustizia senza il supplemento d’anima
della misericordia. Giustizia e misericordia sono attitudini che ora si pongono in ambiti diversi, il giure la prima e la morale l’altra; esse non debbono essere confuse, perché la misericordia infrange il rigor iuris che è proprio della giustizia, rompe la freddezza che deve caratterizzare l’attitudine di chi giudica, inquina la giustizia che non deve guardare in faccia a nessuno: dura lex sed lex, appunto. Viceversa la misericordia: che è calda, compassionevole, attenta al caso per caso.
Il divorzio tra giustizia e misericordia avviene, in età moderna, anche per un’altra ragione. Sempre Paolo Grossi ha delineato, con mano sapiente, il passaggio da una idea della giustizia come legge, che marca l’età di mezzo, all’idea della legge come giustizia, che segnala invece la modernità. Qui ormai il diritto appare come comando autoritario che piove dall’alto, indifferente alla varietà delle situazioni che pretende di regolare. Il diritto si riduce alla legge, alla volontà normativa del sovrano; e la legge è tale perché astratta e generale, quindi indifferente dinnanzi ai singoli casi, alle umane sventure, alle peculiarità delle situazioni personali, una diversa dall’altra. Legalità, che è conformità alla legge positiva, e legittimità, che è conformità a giustizia, finiscono per confondersi, per cui è legittimo ciò che è legale. Ma la legge, proprio perché tale, non ammette deroghe di sorta; la certezza del diritto è principio inderogabile.
In realtà, all’occhio del giurista accorto è possibile ancora trovare qualche traccia della misericordia negli odierni ordinamenti secolari: ad esempio nell’istituto della grazia e, più in generale, in alcuni risvolti delle pratiche sanzionatorie in campo penale, specie nell’ambito delle cosiddette cause di clemenza
. Ma qui prevalgono, in realtà, istanze di politica criminale ispirate piuttosto al principio della funzione emendativa e rieducativa della pena.
E tuttavia è proprio nel contesto penalistico, dove è più evidente, che l’eclissi della misericordia induce la dottrina più sensibile a pensare nuovi modelli della giustizia umana, nei quali in qualche modo la misericordia torna ad essere centrale superando le tradizionali concezioni della sanzione ancorata a schemi retributivi.
La parole di papa Francesco, dunque, costituiscono uno stimolo a riprendere un colloquio interrotto, a riannodare quanto si è sciolto nel tempo.
Giuseppe Dalla Torre
Le Università cattoliche oggi. A cura di Giuseppe Dalla Torre
Quale le cause storiche della nascita delle Università cattoliche? Quale la loro identità? Quale il ruolo tra ricerca, formazione ed educazione? Quale il loro statuto giuridico canonico e civile? E soprattutto: c’è ancora una ragione della loro esistenza?
Nel cinquantesimo anniversario del decreto Gravissimum educationis del Concilio Vaticano II, e nel venticinquesimo anniversario della costituzione apostolica sulle Università cattoliche Ex corde Ecclesiae, pubblicata da Giovanni Paolo II il 15 agosto 1990, la Libera Università Maria Ss. Assunta - LUMSA ha promosso un Convegno diretto a rispondere a questi interrogativi.
Il Convegno ha avuto luogo il 1° dicembre 2015 per iniziativa della Scuola di Alta formazione in Diritto canonico, Ecclesiastico e Vaticano dell’Ateneo cattolico romano. Aperto da un intervento introduttivo di S.E. Mons. Vincenzo Zani, Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, e da un saluto di Angelo Rinella, Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza, i lavori si sono sviluppati sotto la presidenza del rettore Francesco Bonini con le relazioni di Giuseppe Dalla Torre, Stefano Zamagni, Mario Pollo, Michele Riondino e Paolo Cavana.
Dato poco conosciuto è che attualmente nel mondo vi sono 1365 Università cattoliche approvate dalla Santa Sede, le quali, insieme alle Università ed alle Facoltà ecclesiastiche, formano 1865 istituti di ricerca e formazione superiore della Chiesa: numeri imponenti, che testimoniano l’attenzione e la cura per quella carità intellettuale
che costituisce, per riprendere un pensiero montiniano, una delle più alte forme di carità.
Nel complesso i lavori del Convegno, di cui si pubblicano le relazioni, hanno messo in evidenza l’attualità dell’opinione di John Henry Newman, autore della famosa The Idea of University, secondo cui «quando la Chiesa fonda un’Università, essa non coltiva il talento, il genio od il sapere per loro stessi, ma nell’interesse dei propri figli, dei loro vantaggi spirituali, della loro influenza ed utilità, allo scopo di educarli a meglio