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Studium - religioni e letteratura: nuove intersezioni
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Studium - religioni e letteratura: nuove intersezioni
E-book281 pagine3 ore

Studium - religioni e letteratura: nuove intersezioni

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Info su questo ebook

Una sezione monografica di grande interesse, sullo stretto legame tra letterature e religioni, con interventi di importanti studiosi italiani e stranieri: Danilo Marino (Il Corano nella letteratura araba premoderna), Emma Mason (L'ecologia francescana di Christina Rossetti),

Gonçalo Cordeiro (Harold Bloom e i limiti dello gnosticismo letterario), Rebecca Suter (La

trasformazione testuale di Amakusa Shirō).
LinguaItaliano
Data di uscita20 ott 2016
ISBN9788838245015
Studium - religioni e letteratura: nuove intersezioni

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    Anteprima del libro

    Studium - religioni e letteratura - Antonio Russo

    Giuseppe Dalla Torre, Emilia Di Rocco, Elena Spandri, Danilo Marino, Emma Mason, Rebecca Suter, Massimo Borghesi, Marco Strona, Vincenzo Bassi, Claudia Villa, Fiorenza Taricone, Pasquale Bua, Antonio Russo

    RELIGIONI E LETTERATURA: NUOVE INTERSEZIONI

    ISBN: 978–88–382–4501–5

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    VINCENZO CAPPELLETTI. Una possente evocazione.

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Unioni civili

    Religioni e letteratura: nuove intersezioni. A cura di Emilia Di Rocco e Elena Spandri

    DANILO MARINO. Il Corano nella letteratura araba premoderna: inimitabilità, citazione, influenza e trasformazione. Qualche osservazione sulla letteratura umoristica

    EMMA MASON. 'All green things': Christina Rossetti's Franciscan Ecology

    REBECCA SUTER. Da demone esotico a salvatore queer: le trasformazioni testuali di Amakusa Shirō

    FILOSOFIA

    MASSIMO BORGHESI. Lotta per il significato e immanenza metodica. Il pensiero di Armando Rigobello

    MARCO STRONA. Cornelio Fabro e la lezione esistenzialista: per un nuovo umanesimo

    DIRITTO E FAMIGLIA

    VINCENZO BASSI. Famiglia e fisco: non assistenza o agevolazioni, ma un sistema fiscale sussidiario ed equo

    LECTURAE DANTIS VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    CLAUDIA VILLA. Nella curia di Enrico VII

    OSSERVATORIO POLITICO. A cura di Paolo Carusi

    FIORENZA TARICONE. Le tessere di un mosaico: il voto delle donne

    RASSEGNA BIBLIOGRAFICA-TEOLOGIA

    PASQUALE BUA. Il concilio Vaticano II cinquant'anni dopo

    INTERVENTI CRITICI

    ANTONIO RUSSO. Walter Kasper e Martin Lutero in prospettiva ecumenica

    LA NOSTRA BIBLIOTECA

    Luca Ghisleri

    Sabino Caronia

    Sabino Caronia

    Giovanni Scarsi

    Giovanni Scarsi

    Giovanni Scarsi

    A questo numero hanno collaborato:

    GIUSEPPE DALLA TORRE, rettore emerito, Università LUMSA, Roma.

    EMILIA DI ROCCO, ricercatore di Letterature comparate, Dipartimento di Studi Europei, Americani e Interculturali, Università Sapienza, Roma.

    ELENA SPANDRI, professore associato di Letteratura inglese, Dipartimento di Filologia e critica delle letterature antiche e moderne, Università di Siena.

    DANILO MARINO, dottore di ricerca in Letterature comparate, Università L’Orientale, Napoli.

    EMMA MASON, professor di Letteratura inglese, Dipartimento di Letteratura inglese e Letterature comparate, Università di Warwick (UK).

    REBECCA SUTER, Senior Lecturer in Japanese Studies, University of Sydney.

    MASSIMO BORGHESI, professore ordinario di Filosofia morale, Università di Perugia.

    MARCO STRONA, dottore di ricerca in Filosofia, Pontificio Ateneo S. Anselmo (Roma). dottorando di ricerca in Teologia, corso di dottorato in Fondamenti e prospettive di una cultura dell’unità, Ius Sophia, Loppiano.

    VINCENZO BASSI, professore incaricato di Diritto tributario, Università LUMSA, Roma.

    CLAUDIA VILLA, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica, Università di Bergamo e Università di Pisa.

    FIORENZA TARICONE, professore associato di Storia delle dottrine politiche, Università di Cassino e del Lazio meridionale.

    PASQUALE BUA, professore associato di Teologia dogmatica, Istituto Teologico Leoniano, Anagni (FR).

    ANTONIO RUSSO, professore ordinario di Filosofia morale, Università di Trieste.

    VINCENZO CAPPELLETTI. Una possente evocazione.

    Possente e pacato, e rapidamente apparso come la prassi spirituale, la strategia preferita di Papa Francesco, è stato il rinvio totale, pacato e semplicissimo alla parola dell’Uomo Dio, a quella che non si può non chiamare la sua luminosa onnipresenza con la totale disponibilità che l’accompagna. Ma l’essenziale èla sostanza di quanto evocato: un universo di eventi, di forme, di destini che corrispondono al primo dei giorni scanditi dall’esistenza del mondo, così come all’ultimo, se mai ci sarà. La calma serena del Papa ha saputo dare ai nostri giorni l’apporto più prezioso: l’identità sostanziale di inizio e fine: una fine che dovrà prendere atto d’essere un modo errato di postulare un inizio. Convincente oltre ogni attesa, e semplicissima, la parola del nuovo Pontefice. Perché le parole che ci scambiamo e che diventano cultura, o per meglio dire vengono chiamate così, se aspirano ad essere evocazione verace del pensiero, non possono non assorbire il pregio dell’evidenza. E quest’ultima non diviene: si disvela, fino ad apparire convincente e calma, che è tutt’altra cosa. Impressione profonda, ribadita da Papa Francesco nell’Esortazione apostolica post-sinodale: luminoso documento del magistero, d’insolita estensione, fors’anche per rendere ossequio alla tradizione scritta, epistolare, da parte di un Pontefice che ha nella parola, nel gesto, nel sorriso affettuoso e partecipe l’espressione preferita della propria coscienza.

    Quel che d’essenziale c’era da dire, il Papa lo ha indicato con luminosa e incisiva pacatezza, e con un’apertura a tutte le coscienze umane. Si tratta d’integrare tutti, si deve aiutare ciascuno a trovare il proprio modo di partecipare alla comunità ecclesiale, perché si senta oggetto di una misericordia, immeritata e gratuita. Nessuno può essere condannato per sempre, perché questa non è la logica del Vangelo. Duecentosessanta pagine, nove capitoli, trecentoventicinque paragrafi che sintetizzano i due Sinodi del 2014 e 2015. Si fa cultura, da parte del Papa, con rigorose identificazioni che non perdono il rapporto con la struttura della costruzione teologica. Citiamo uno dei passaggi più rigorosi. Il Verbo divino è la Sapienza. Con quella Sapienza dobbiamo stringere una rinnovata alleanza. L’alleanza con la Sapienza eterna implica partecipazione ad essa a tutti i livelli della sua manifestazione. Rivelare i misteri di Dio, creare, restaurare e perfezionare le creature: ecco altrettante opere della Sapienza, proprie del Verbo di Dio, Gesù Cristo Sapienza incarnata. Vangelo e cultura: quest’ultima, frutto della sapienza dei popoli, la definisce il Papa con rigorosa oggettività ed efficace sintesi, rappresenta un riflesso, nel suo movimento ascendente, della Sapienza creatrice e perfezionatrice di Dio.

    Integrare tutti in una continuità di pensiero, di fede, di opere. Il mondo ascolta e riscopre una pacatezza serena, che è l’involucro della verità. E nessuno vuole o sa dirsene estraneo. Il nuovo Papa ha riproposto con successo il nesso di credenza e vita: nella calma fiduciosa e nella speranza. Le dialettiche vengono dopo, e sono essenziali. Ma i giorni recenti hanno mostrato quale profonda radice abbia l’aspirazione all’ascolto, alla convivenza, all’abbraccio fraterno, alla comprensione dell’essenziale. L’esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia è il germe di una ripresa teologica che promette al mondo cristiano e cattolico un’illuminazione e un arricchimento lungamenti attesi.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Unioni civili

    Dunque abbiamo una legge sulle unioni civili.

    Finalmente, dirà più d’uno, magari facendo forza – come è avvenuto in molte altre occasioni – sull’argomento che si tratta di una acquisizione giuridica già da tempo conseguita in molti Paesi, soprattutto dell’area europea e nord-americana. In realtà si tratta di un argomento teoreticamente debole, perché il fatto che tale regolamentazione sia presente in altri Paesi non è certo criterio veritativo e, soprattutto, è un argomento a doppia lama, giacché in molti Paesi – anche del nostro tipo di civiltà – sussistono norme ed istituti giuridici per noi assolutamente inaccettabili (si pensi solo alla pena di morte!).

    La questione era aperta da tempo ma, occorre dirlo con franchezza, ha conosciuto a livello parlamentare una inusitata accelerazione che ha in sostanza sottratto un argomento di notevole spessore etico, sociale e culturale, oltre che giuridico, ad un adeguato libero dibattito nelle aule parlamentari. Si pensi solo alla costrizione giuridica di un doppio voto di fiducia: cosa che in un caso come questo, il quale tocca largamente la coscienza ed il sentire, non è apparsa costituzionalmente ragionevole.

    Il risultato di tale inusitata accelerazione è, obiettivamente, una legge mal fatta, pasticciata, con contraddizioni di fondo, tant’è che la platea dei parlamentari insoddisfatti del prodotto legislativo è – seppure per motivi diversi, non di rado opposti – assai larga ed ha potuto essere in buona parte dominata solo grazie alla forzatura del duplice voto di fiducia.

    D’altra parte si tratta di una legge che, proprio sul piano della coerenza costituzionale, solleva molte perplessità e si presta a non pochi rilievi critici.

    Si tratta di una legge che pretende di canonizzare la rilevanza giuridica dell’amore: cosa che il diritto sin dall’antichità ha sempre evitato di fare, perché effettivamente impossibile. L’amore va oltre la misura del diritto e, dal punto di vista fattuale, non è verificabile né misurabile col metro del diritto. Lo si è rilevato più volte in queste pagine. Ma certo è che, ancora una volta, si è dimostrato quanto sia debole di fondamento il brocardo secondo cui la storia sarebbe magistra vitae.

    Come noto, nella sua prima parte (commi 1-36), la legge disciplina le unioni solo fra persone dello stesso sesso, le quali sono fondate su un impegno formale fra le stesse persone: tale impegno dà luogo ad un vincolo potenzialmente stabile, che è risolubile – oltre che con la morte (comma 22) – con il divorzio (comma 23), senza peraltro passare attraverso la separazione. Il comma 24 prevede una forma ibrida di divorzio mediante la dichiarazione anche disgiunta di scioglimento dell’unione, da attuarsi davanti all’ufficiale dello stato civile.

    Nella seconda parte la legge detta una disciplina delle convivenze di fatto fra persone eterosessuali o omosessuali: in questo caso non c’è alcun legame e la situazione di fatto può cessare automaticamente senza alcuna formalità con il venir meno della convivenza (il contratto di convivenza può risolversi anche per recesso unilaterale: comma 59). E qui la legge sembra persino sfidare eccessivamente la logica, nella misura in cui poggia su una irrisolta (e irrisolvibile) contraddizione: coniugare la più piena libertà di un rapporto che si pretende al tempo stesso di fatto e giuridicizzato; affermare la spontaneità di rapporti affettivi caratterizzati dalla precarietà e reclamare al contempo precise pretese giuridiche. Certo comunque è che si tratta di una disciplina segnata da una valenza utilitaristica piuttosto che solidaristica: in sostanza avere più facile e rapido il recesso da un rapporto, quando lo si percepisca ormai non più fonte di utilità personali.

    Non si può negare d’altra parte che la legge, se viene a privilegiare alcune manifestazioni di solidarietà, ne trascura però tantissime altre che pure sussistono nella società civile e che avrebbero meritato adeguata attenzione da parte del legislatore. In effetti si possono individuare nel corpo sociale tanti casi di rapporti stabili, non fondati sull’amore (meglio: sull’amour-passion), sul sesso, ma su puri sentimenti di solidarietà economica e sociale; sentimenti che esprimono concretamente l’adempimento di un dovere che la Costituzione definisce con forza come inderogabile in quell’ultima parte dell’articolo 2 che, purtroppo, risulta dimenticatissima.

    Ora la legge c’è e bisogna fare i conti con essa. Si è ventilato un ricorso al referendum abrogativo; è stata sollevata la questione della possibile obiezione di coscienza da parte degli ufficiali di stato civile. Dal punto di vista giuridico l’uno e l’altra presentano problemi diversi, posto che l’istituto referendario ha un fondamento costituzionale, mentre sull’obiezione di coscienza la nostra Costituzione è silente, presupponendo dunque la cosiddetta interpositio legislatoris. Vedremo.

    C’è però un aspetto che appare essere stato trascurato nelle roventi polemiche del dopo-approvazione, vale a dire il punto fermo dal quale ha preso l’avvio la fase conclusiva della vicenda parlamentare. Il punto fermo è stato dato dal fatto che non si parlasse di matrimonio; che la disciplina che si andava a varare riguardasse un istituto nuovo, tutt’affatto diverso da quello matrimoniale.

    Si trattava di un punto di partenza necessitato, a livello giuridico, dal dettato del primo comma dell’art. 29 della Costituzione, per il quale – come noto – «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». In questa disposizione si vogliono dire sostanzialmente due cose: che non c’è famiglia senza matrimonio; che la famiglia ha un fondamento fuori del diritto positivo, e conseguentemente ha una struttura giuridica essenziale indisponibile da parte del legislatore statale, fosse anche quello costituzionale, perché ad esso antecedente e quindi immodificabile. Non a caso il dettato costituzionale usa il verbo riconosce, che vuol dire la preesistenza della famiglia allo Stato.

    È, a ben vedere, la stessa logica che presiede all’art. 2 Cost., il quale, dichiarando che «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo», vuol dire che questi diritti preesistono allo Stato; che essi sono un portato della stessa persona umana. L’uomo, avrebbe detto Antonio Rosmini, è il diritto sussistente.

    Dunque nel corso dell’elaborazione della legge si è chiaramente inteso evitare che il testo potesse incappare in questioni di costituzionalità, per contrasto con l’art. 29: nello stesso iter parlamentare, nella fase presidenziale della promulgazione o, molto più probabilmente, in un futuro, eventuale giudizio davanti alla Corte costituzionale. Di qui la preoccupazione di fondare costituzionalmente il nuovo istituto nell’art. 2 Cost., cioè qualificandolo quale formazione sociale diversa da quella tipizzata in Costituzione della famiglia; e poi la previsione di una serie di accorgimenti, peraltro di tenore per lo più formale: dalla stessa denominazione di unioni civili alla ripulitura dell’originario testo con l’eliminazione di richiami che estendevano automaticamente a dette unioni disposizioni relative al regime matrimoniale.

    Tutto questo ha prodotto anche qualche conclusione davvero singolare, come nel caso della non menzione, per le unioni civili, dell’obbligo della fedeltà di cui all’art. 143 del codice civile; non menzione dichiaratamente intesa per differenziare le unioni medesime dal matrimonio. Una volontà senza dubbio apprezzabile sul piano delle intenzioni, ma chiaramente risibile se si pensa a che cosa sono ridotti i doveri nascenti dal matrimonio, la cui garanzia tende ormai ad essere riposta piuttosto nel senso etico e di responsabilità dell’individuo che nelle sanzioni del diritto. Come lucidamente osservava ormai molti anni or sono un grande giurista, Luigi Mengoni, è da tempo in corso un processo di de-giuridicizzazione del diritto di famiglia che si sviluppa tra l’altro «rendendo disponibili da parte dei coniugi certi obblighi precedentemente inderogabili» e «privando gli obblighi derivanti dal matrimonio di sanzione giuridica, e così riducendo l’enunciazione di essi nella legge all’additamento di un ideale di matrimonio la cui attuazione più o meno piena è rimessa al grado di sensibilità dei coniugi ai valori».

    Qui occorre però fare un’altra osservazione. E cioè che quel punto fermo dal quale ha preso l’avvio la fase conclusiva della vicenda parlamentare della legge sulle unioni civili, vale a dire che non si confondessero queste col matrimonio, si sostanziò in una sorta di patto non scritto tra diverse forze politiche ed all’interno stesso di alcune forze politiche.

    Nel tormentoso dibattito parlamentare con speculari riflessi nel Paese, quando le sorti della legge apparivano ancora incerte, si cercò politicamente il consenso di chi si mostrava contrario al mariage pour tous ma non insensibile alla giuridica regolamentazione di situazioni personali non riconducibili al matrimonio e tuttavia meritevoli di considerazione quantomeno sotto il profilo solidaristico. Ed è un dato di fatto incontrovertibile che la legge è passata grazie anche all’acquisita disponibilità politica di costoro, sulla assicurazione della non assimilazione dei due istituti.

    Occorre quindi prendere per buoni gli impegni assunti e, soprattutto, tenere conto dei chiari e precisi limiti costituzionali, tirando da ciò tutte le conseguenze sul piano della interpretazione di una legge mal fatta e piena di ambiguità.

    Ciò significa che l’esegesi delle sue disposizioni nella prassi amministrativa e, soprattutto, nell’attività giurisdizionale non può correttamente avvenire se non secondo un criterio ben preciso: quello di differenziazione. Il legislatore non ha voluto, per le ragioni dette, paradigmare le unioni civili al matrimonio, dal che deriva che ogni interpretazione tesa ad assimilare le prime al secondo andrebbe contro la voluntas legis. Ma andrebbe contro anche ad un patto che, in un Paese ed in un Parlamento divisi, ha consentito di giungere alla conclusione nota; ed i pacta, come tutti sanno, sunt servanda.

    Se tutto ciò è vero, ne discendono alcune conseguenze.

    La prima è di carattere formale e si pone sul piano del lessico. Non si può parlare – come pure già si va facendo – di famiglie e di nuove famiglie. Non lo consente la Costituzione, per la quale non c’è famiglia se non fondata sul matrimonio; non lo consente la volontà del legislatore, che chiaramente ha inteso distinguere unioni civili e matrimonio, dando alle prime un diverso fondamento in Costituzione (l’art. 2 Cost.); non lo consente il patto politico-parlamentare cui s’è fatto riferimento.

    Altre conseguenze si pongono sul piano più propriamente sostanziale. Il caso più evidente è in relazione alla delicata e dibattuta questione dell’adozione.

    Se c’è una evidenza indiscutibile nel dibattito parlamentare sulle unioni civili, questa si ravvisa nella volontà, decisamente manifestatasi alla fine, di stralciare la tematica della adozione perché fortemente divisiva nelle aule parlamentari e nel Paese. Questa volontà è stata senza dubbio determinata anche da preoccupazioni di tattica, nel senso che l’estromissione della questione dalla legge ne ha consentito il varo. Ma ciò non toglie che la legge abbia potuto essere approvata proprio perché si è rimosso uno dei più grossi ostacoli alla sua accettazione: ostacolo politico, in considerazione di chi si batteva per la non assimilazione delle unioni civili al matrimonio; ostacolo giuridico, per l’esigenza di differenziare le une dall’altro al fine di non incorrere in eccezioni di incostituzionalità.

    Sotto tutto c’è però una logica, che poi è quella che presiedette nel lontano 1967 alla legge sulla cosiddetta adozione speciale per i minori, divenuta legittimante con la legge, tuttora vigente, del 4 maggio 1983, n. 184 (art. 27) e destinata a divenire l’adozione tout court. Con quel provvedimento di altissimo spessore umano e di grande civiltà giuridica, che mette al centro l’interesse del minore in stato di abbandono, il legislatore venne a scardinare le plurisecolari configurazioni dell’istituto, capovolgendo la prospettiva che aveva dominato sin dal diritto romano: l’adozione non serve a dare un figlio a chi non ne ha, ma a dare una famiglia – quindi un padre ed una madre, stabilmente uniti in matrimonio – a chi non l’ha. La preoccupazione legislativa di innestare l’adottando in una famiglia vera, nascente da matrimonio, stabile (di qui i minuziosi e penetranti controlli del giudice minorile e dei servizi sociali prima, durante e dopo il procedimento adozionale), divenne – come noto – il paradigma di riferimento, rendendo del tutto residuali e marginali altre forme come quelle dell’adozione in casi particolari e dell’adozione dei maggiori di età.

    Da quanto detto discende che sia la volontà politica (il patto parlamentare), sia soprattutto il dato giuridico soggiacente alla deliberata scelta di differenziare senz’altro unioni civili e matrimonio, interdicono i tentativi di estendere la possibilità di adozione alle coppie non unite in matrimonio.

    C’è però un’altra considerazione da fare.

    Logica avrebbe voluto che, prima di por mano alla regolamentazione delle unioni civili, il legislatore si fosse preoccupato di dare finalmente attuazione al trascuratissimo art. 31 della Costituzione, per il quale «La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose». È noto che il diritto riguardante la famiglia non si esaurisce nelle norme del codice civile; che in molta parte esso è sparso disordinatamente nell’ambito del diritto pubblico, con la conseguenza più volte lamentata che nell’insieme la famiglia viene ad essere sfavorita. Gli esempi possono essere tanti, ma si pensi solo all’ambito fiscale che penalizza le coppie unite in matrimonio.

    Non è stato così. Ma ora che si è provveduto alla regolamentazione di una tra le tante formazioni sociali contemplate dall’art. 2 Cost., ci si attende un intervento fattivo a favore della famiglia, formazione sociale che invece è stata tipizzata dal Costituente. Un intervento che tocchi non tanto il diritto di famiglia ma il diritto sulla famiglia (il campo di intervento è enorme: dai servizi sociali alla scuola, dalla sanità al sistema fiscale), onde permettere all’istituzione famigliare di potere perseguire al meglio le finalità che per natura ha, e che la Carta costituzionale riconosce, protegge e vuole promuovere.

    Sarebbe molto bello ed assai significativo che il prossimo anno, 2017, si potesse celebrare il settantesimo della Costituzione con l’attuazione – finalmente – del programma contenuto nel suo art. 31.

    Giuseppe

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