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Sessantotto pedagogico: Passioni, ragioni, illusioni
Sessantotto pedagogico: Passioni, ragioni, illusioni
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E-book803 pagine11 ore

Sessantotto pedagogico: Passioni, ragioni, illusioni

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Info su questo ebook

Sul piano pedagogico, nei più di 50 anni di storia che ci separano dal ’68 – caratterizzati in gran parte da miopia progettuale, aggiustamenti-tampone dell’esistente, tatticismi dalla vista corta – l’unica eredità condivisa in contro tendenza, che rinasce continuamente dalle ceneri della dimenticanza e dalle spinte conservatrici della rimozione, è l’esperienza pedagogica ed umana di don Milani. Il famoso pamphlet Lettera ad una professoressa è del 1967 e quel testo intercetta temi, problemi, prospettive storico-politico-socio-pedagogiche che, affrontati subito e nella giusta maniera, forse avrebbero spuntato le armi della successiva protesta sessantottina, con tutti gli eccessi che si conoscono.
Di fatto, le denunce del Sessantotto furono elaborate in proposte di cambiamento in parte, e solo più tardi, tra circospezioni e reticenze. Il volume esplora questa dialettica di continuità/discontinuità dal punto di vista della pedagogia generale e della storia della pedagogia, mostrando, nelle quattro sezioni in cui è articolato, quanto, in fondo, essa resti tuttora irrisolta. Emblematico in questo senso il “caso” della scuola pedagogica patavina, con il suo protagonista Marcello Peretti, a cui è dedicata, appunto, l’intera quarta parte del libro.
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2020
ISBN9788838250248
Sessantotto pedagogico: Passioni, ragioni, illusioni

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    Anteprima del libro

    Sessantotto pedagogico - Carla Xodo

    Carlo Xodo - Mirca Benetton (edd.)

    Sessantotto pedagogico

    Passioni, ragioni, illusioni

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Con il patrocinio del CIRPED

    Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Padova

    – Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata (FISPPA)

    Copyright © 2020 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-382-4024-8

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838250248

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Introduzione, Carla Xodo e Mirca Benetton

    1. I MOVIMENTI DELLA PEDAGOGIA ITALIANA

    I. Il Sessantotto pedagogico italiano, Massimo Baldacci

    II. Pedagogia e Sessantotto in Italia, Enver Bardulla

    III. I saperi dell’educazione: note per una storia, Egle Becchi

    IV. Il Sessantotto pedagogico: linee di consolidamento e spinte di innovazione nella pedagogia italiana, Chiara Biasin

    V. Anti autoritarismo, utopia e rottura della tradizione, Giorgio Chiosso

    VI. Il mondo come ‘totalità educabile’ o l’implicito pedagogico in Pier Paolo Pasolini (1968-1975), Antonia Criscenti

    VII. Il Sessantotto fra apollineo e dionisiaco: nascita di una narrazione e sue ambivalenze, Maurizio Fabbri

    VIII. Il Sessantotto oltre il Sessantotto. Linee di continuità/disconti- nuità educativa, Riccardo Pagano

    IX. Dal Vaticano II al Sessantotto e ritorno: traiettorie di un rinnova- mento religioso in prospettiva pedagogica, Andrea Porcarelli

    X. Il Sessantotto tra principio di piacere, principio di ragione e principio di realta’: una lettura pedagogica, Maura Striano

    2. SCUOLA, GIOVANI, FAMIGLIA E PROCESSI FORMATIVI

    XI. La legge del cuore e il delirio della presunzione. Rilettura di una gravidanza isterica, Giuseppe Bertagna

    XII. La sessualità liberata: tra fermenti pedagogici e inganni educativi, Melania Bortolotto

    XIII. Per una pedagogia consapevole un sistema formativo di qualità: spunti dal Sessantotto per i modelli educativi del nostro tempo, Mario Caligiuri

    XIV. Giovani e ambiente: verso una educazione al benessere e alla salute attiva, Francesco Casolo

    XV. Le nuove parole della didattica, Mario Castoldi

    XVI. Alla ricerca della famiglia perduta, Hervé A. Cavallera

    XVII. Società e famiglie, particolarmente in Italia, a cinquant’anni dal 1968, Michele Corsi

    XVIII. La famiglia tra crisi e trasformazione, Ivo Lizzola

    XIX. Formare in un eterno presente, Patrizia Magnoler

    3. IL LAVORO E LE PROFESSIONI EDUCATIVE

    XX. Il Sessantotto e la pedagogia come professione, Franco Blezza

    XXI. Sessantotto ed umanesimo del lavoro la conquista delle 150 ore per il diritto allo studio dei lavoratori, Andrea Cegolon

    XXII. Contestazione e neo-illuminismo nel Sessantotto, Piero Crispiani

    XXIII. Il Sessantotto 50 anni dopo. Nuovi scenari per preparare al lavoro, Claudio Gentili

    XXIV. Agricoltura sociale: le prospettive occupazionali della nuova ruralità, Alfonso Pascale

    XXV. La creatività al potere. Potere alla creatività, Bruno Rossi

    4. MARCELLO PERETTI E IL SESSANTOTTO PEDAGOGICO PADOVANO

    XXVI. Dopo il Sessantotto. L’umanizzazione della persona secondo Marcello Peretti, Mirca Benetton

    XXVII. Il Sessantotto e la contestazione giovanile nella prospettiva pedagogica di Marcello Peretti, Maria Teresa Moscato

    XXVIII. Il significato pedagogico della giovinezza in Marcello Peretti, Carla Xodo

    XXIX. Il Sessantotto nell’università e nella scuola pedagogica di Padova, Giuseppe Zago

    APPENDICE. DUE TESTIMONIANZE INTERNAZIONALI

    XXX. Mayo del 68 y la crisis de la educación occidental: ¿Revo- lución o culminación de un proceso histórico?, Javier Laspalas

    XXXI. Mai 1968 et les pratiques pedagogiques dans l’ecole d’au- jourd’hui, Bernard Rey

    Indice di alcuni luoghi ed istituzioni

    Indice dei nomi

    Introduzione, Carla Xodo e Mirca Benetton

    1. Che cosa ha ci ha insegnato il Sessantotto? Che cosa possiamo apprendere dal Sessantotto?

    Soltanto cinquant’anni fa, eppure sembra ormai un tempo remoto, il Sessantotto segnò una svolta. Dopo quella data, niente fu più come prima: la crisi del petrolio iniziò nel 1973, il primo scandalo politico è del 1974; il sequestro di Aldo Moro nel 1977. Dal Sessantotto iniziò un faticoso processo di rinnovamento, tra giuste denunce, rivendicazioni, contraddizioni e violenze. Dopo il Sessantotto vennero i cosiddetti anni di piombo, la società fu attraversata dalla lezione di cattivi maestri, dalla diffusione della droga, dalla legittimazione dell’anarchia: da derive irreversibili.

    In Italia, la base della protesta fu una cristianissima indignazione nei confronti dell’ingiustizia, in Francia una sapiente illuminazione proveniente dalla cultura e dalla filosofia, negli Usa posizioni antimilitariste contro la guerra nel Vietnam, per citare solo i centri di maggior contestazione. Ma la storia, ancora oggi, sembra non essersi riconciliata con quegli anni. Il Sessantotto non ha eroi, manca la condivisione nella/della memoria. Addirittura è in atto da tempo una sostanziale rimozione.

    A fronte di ciò non è del tutto dissolta l’idea di una palingenesi incompiuta. Per molti si trattò di un’esperienza positiva, l’inversione di un’idea di politica eterodiretta dall’alto, incapace di costruire un mondo nuovo. Ne fu prova, fatto inusitato, la grande partecipazione dei giovani alla vita pubblica, l’aggregazione spontanea di operai e studenti. Si impose l’esigenza di perseguire comuni ideali: rivendicare condizioni di vita migliori rispetto alla nascente società dei consumi, trovare correttivi all’imperativo dominante del denaro, opporsi alle politiche di contrapposizione ideologica, fare guerra alla guerra fredda tra le due maggiori superpotenze. Sotto accusa fu il principio di autorità espresso da istituzioni, gerarchie o poteri costituiti. In modo particolare, fu colpita l’autorità educativa contestata in ogni sua manifestazione – dalla famiglia alla scuola – in nome di un nuovo spirito libertario che doveva trovare la sua espressione più eclatante nella forma tradizionalmente più trasgressiva, quella sessuale.

    A cinquant’anni di distanza, lo scenario e le contraddizioni in cui ci muoviamo, in cui si agita il mondo occidentale, presentano più di un legame con quel tempo che sentiamo oramai remoto. Restano irrisolti e si aggravano cruciali problemi socio-economico-politico-esistenziali. In particolare i giovani sono la categoria più colpita. Giovani laureati inoccupati e operai disoccupati, accomunati ancora una volta dallo stesso destino, vivono uno dei più tristi momenti della storia recente e costituiscono una miscela esplosiva per le ex società affluenti. Con questa precisazione sconcertate: gli adulti più maturi, o per meglio dire, la generazione che sta uscendo di scena, responsabile di aver compromesso il futuro dei giovani di oggi, è formata in gran parte da ex sessantottini, i giovani di ieri che promettevano di cambiare il mondo. Senonché, il mondo ha finito per cambiare loro e cioè noi, la generazione salvifica del Sessantotto che da contestatrice oggi si trova ad essere contestata.

    Sorto sulla spinta di una potente carica innovativa, il Sessantotto ha finito, infatti, per esaurire l’idea stessa del cambiamento nel momento in cui ha creduto di poterlo realizzare con la forza, con conseguenze inaccettabili dal punto di vista sociale, politico e culturale. Per questo, il tratto prevalente della reazione traumatica agli eccessi sessantottini, è stata, negli anni a seguire, una sostanziale immobilità. Per uno di quei fenomeni ricorrenti, l’eterogenesi dei fini, i figli dei fiori hanno finito per consegnarci l’inverno del nostro scontento.

    Ci si chiede: poteva essere evitato il Sessantotto? Domanda retorica. La storia non si fa con i se e con i ma. Più pertinente è invece chiedersi che cosa abbiamo imparato dal Sessantotto; che cosa possiamo ancora imparare dal Sessantotto. La lezione che si può trarre dal Sessantotto è duplice.

    Sul piano politico, riguarda il modo di atteggiarsi nei confronti dei problemi. Che vanno, innanzitutto, prevenuti e quando emergono affrontati senza infingimenti. Eludere o, peggio ancora, mistificare, falsificare, strumentalizzare i problemi è una strategia pericolosa, una strategia violenta che provoca violenza.

    Sul piano pedagogico, nei 50 anni di storia che ci separano dal Sessantotto, caratterizzati in gran parte da miopia progettuale, aggiustamenti-tampone dell’esistente, tatticismi dalla vista corta, l’unica soluzione in contro tendenza, che rinasce continuamente dalle ceneri della dimenticanza e dalle spinte conservatrici della rimozione è l’esperienza pedagogica ed umana di don Milani. Il famoso Lettera ad una professoressa è del 1967 e quel testo intercetta temi, problemi, prospettive storico-politico-socio-pedagogiche che, affrontati subito e nella giusta maniera, molto probabilmente, avrebbero spuntato le armi della successiva protesta sessantottina.

    Ma la lezione pedagogica che dobbiamo ricavare dal Sessantotto va colta più in profondità. Riguarda l’approdo educativo in cui deve sfociare ogni processo innovativo che, anche quando è sociale, inizia, deve iniziare dalle persone. Ciò non è stato compreso dal Sessantotto, che ha scambiato una manifestazione libertaria di carattere istintivo con la capacità di innovare socialmente e politicamente. La deriva violenta verificatesi nel nostro Paese ha evidenziato, in maniera inequivocabile, l’imperizia da parte del Movimento di trasformare un moto legittimo di liberazione nell’esercizio di una libertà civilmente responsabile che poteva maturare solo in virtù di un percorso formativo. Si doveva capire che un conto è prendere atto di un’esigenza diffusa di libertà, altro verificare la possibilità di affermare quella stessa libertà sul piano sociale e istituzionale. In altri termini, l’arte della fondazione, per parafrasare H. Arendt, anche nel caso del Sessantotto, doveva manifestarsi nel saper affrontare le aporie intrinseche ad ogni atto innovativo, laddove l’iniziale pretesa di libertà non può evitare di contaminarsi sul piano pratico con l’autorità. Aver preteso, invece, di affermare storicamente una libertà integrale, assoluta, corrispondente al sentire originario della libertà ma non alle ragioni con cui essa può diventare un programma politico per tutti, ha finito per trascinare la protesta sessantottina nell’astrattezza e nella irrealtà dell’utopia, con conseguenze disastrose per tutti. Appunto, le aporie interne ad ogni cambiamento, anziché essere contenute e bonificate attraverso una formazione, abbandonate a loro stesse sono esplose delegittimando l’intero movimento. La condanna incondizionata dell’autorità ha finito per travolgere anche l’affermazione della libertà. Perché se è vero che consideriamo libera ogni iniziativa che non sia causata da qualcosa che la precede, nel momento in cui la stessa si propone come causa di ciò che segue ha bisogno di giustificarsi con ragioni probanti che non può attingere da se stessa, ma derivare solo dal legame con iniziative precedenti, in una parola, riannodando i fili con la tradizione. In tal modo, la libertà che si afferma contro l’autorità, per legittimarsi sul piano pratico torna a riconnettersi all’autorità, finendo per presentare la novità come una riformulazione e/o un perfezionamento del passato. È ciò che comprende don Milani. Egli non condanna la volontà di liberazione dei ragazzi di Barbiana e denuncia insieme a loro l’autoritarismo scolastico, ma la via della libertà che prospetta loro non avalla l’abbandono della scuola, ma la possibilità di una scuola nuova che reinterpreta quella passata, conservando il principio educativo dell’autorità, ma ponendolo al reale servizio della libertà dei ragazzi.

    Morto il Sessantotto, possiamo ancora dire viva il Sessantotto? Al di là dei metodi, dell’enfasi e degli eccessi, il Sessantotto sembrerebbe essersi ritagliato uno spazio apparentemente duraturo nella categoria dei miti fondativi, se l’espressione non sembra troppo ardita: miti cui si attribuisce il potere di segnare una svolta. Questa valutazione, pur con il rasserenante distacco della lontananza temporale, suscita ancor oggi delle perplessità sintetizzabili in queste domande: il cambiamento invocato poteva essere perseguito in maniera più indolore, meno drammatica, maggiormente condivisa, al riparo da eccessi verbosi e da gesti e iniziative violenti? In altri termini, prima di legittimare la strategia rivoluzionaria del Sessantotto, esistevano altre vie da percorrere?

    Ritorniamo alle parole d’ordine del Sessantotto: libertà e liberazione. Dopo gli anni di piombo, la cui parabola può dirsi simbolicamente conclusa con l’assassinio di Moro, quelle rivendicazioni si attenuarono, ma la tregua fu apparente. Le istanze di libertà permasero e, dopo il declino del Movimento, hanno continuato a lavorare in forma silente come un fiume carsico. Sono riemerse in maniera evidente alla fine del secolo scorso, in un accadere in cui, forse, non è estraneo il decennio travagliato che segna la fine della prima repubblica. Con questo particolare degno di nota. Libertà e liberazione erano state prospettate dal Sessantotto come una conquista politica di classe conseguibile anche con la violenza. Quando quel binomio riemerge si assiste ad un radicale cambiamento, questo: libertà e liberazione diventano un obiettivo socio-politico-pedagogico-istituzionale perseguibile dal basso con la messa in campo di un concetto nuovo: autonomia che è l’esatto contrario della gramsciana idea di egemonia, di cui si era nutrito il Movimento.

    Autonomia è concetto polare rispetto ad eteronomia, ma lo è anche rispetto alla sessantottina idea di libertà interpretata come spontaneismo e rifiuto di ogni limitazione. L’etimologia del termine autonomia mette in luce una componente normativa interna al proprio significato. Esprime una libertà sui generis. Fa tutt’uno, infatti, con responsabilità. Questa nuova idea di libertà è un concetto pre-politico. È una categoria educativa. Che altro è, infatti, l’educazione se non una conquista di autonomia, di capacità della persona di dare norme a se stessa e di saperle rispettare autodisciplinandosi? In questo senso l’autonomia personale precede l’autonomia sociale e politica. Ma il retroterra culturale di questo concetto non è più identificabile tout court nell’individualismo giacobino del Sessantotto. Non è peregrina l’interpretazione che individua legami con il personalismo cristiano, laddove si evidenzia come il cambiamento sociale non sia mai disgiunto da quello individuale e la stessa realtà socio-istituzionale radicata nella centralità della persona e delle sue autonome aggregazioni sussidiarie.

    Il concetto di autonomia, su cui abbiamo brevemente ragionato, costituisce il presupposto o lo sfondo entro cui si collocano alcuni significativi interventi legislativi tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del 2000. L’approvazione della legge Bassanini n. 59/1997 Delega al governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa e il DPR 275/1999 Regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della legge 15 marzo 1977, n. 59 si può affermare rappresentino una risposta diversa alle aspettative del Sessantotto, proprio nella direzione su accennata. Solo attraverso quegli interventi legislativi, che fanno leva sul principio di sussidiarietà, si sono create le condizioni per dar corso al processo di democratizzazione dal basso. In questa prospettiva, vanno valorizzate sul piano pedagogico altre iniziative importanti. Si pensi, ad esempio, alla legge 1859/1962, istitutiva della scuola media unica, alla legge 820 del 1971 sul tempo pieno, alla 517/1977 sull’inserimento degli alunni portatori di handicap che introduceva la programmazione nella scuola media e soprattutto ai DPR 416-417-418-419-420 del 1974, confluiti nel Testo Unico del 1994, i decreti delegati che aprirono la scuola alla partecipazione sociale. Meritano di essere ricordate sperimentazioni di modelli nuovi di scuola realizzate anche sulla base dei lavori della Commissione Brocca istituita nel 1988 dal Ministro Galloni per revisionare i programmi dei primi due anni della scuola secondaria superiore. Ma il contributo più incisivo resta quello del Gruppo di lavoro ristretto coordinato da G. Bertagna, in virtù del quale il Parlamento varò la legge 53/2003 che andava ben oltre le istanze del Sessantotto. Questa legge, la prima della Repubblica, che riguardava norme generali dell’istruzione, legata al nome dell’allora ministro Moratti, oltre a far leva sul principio di sussidiarietà, proponeva un percorso che avrebbe finalmente eliminato la discriminazione tra la scuola e la fabbrica con due opzioni a livello secondario – i licei e l’istruzione e formazione professionale – di diversa cultura formativa ma di pari dignità. Ma neppure allora i tempi erano maturi per tradurre concretamente quella forte intuizione pedagogico-culturale-istituzionale, visti i rimaneggiamenti apportati dai ministri che si sono succeduti.

    Per restare all’autonomia, c’è da domandarsi se gli interventi legislativi che si sono verificati successivamente siano stati accompagnati anche da un cambiamento sul piano didattico ed educativo. L’autonomia personale è stata favorita dall’autonomia funzionale? In altri termini, l’esigenza di libertà e di realizzazione avanzata dagli studenti del Sessantotto sono state conquistate dagli studenti odierni?

    * * *

    A questi e ad altri interrogativi cercano di dare risposta i cospicui contributi di cui si compone il testo.

    Nello specifico, il capitolo 1 raccoglie le tracce dei movimenti della pedagogia italiana. Gli approfondimenti in esso compresi documentano le numerose piste di ricerca e di indagine che gli episodi del Sessantotto, con le loro radici poliedriche, con le loro analisi ragionevoli o passionali, hanno aperto, non sempre permettendo una lettura lineare, ma anzi più spesso contraddittoria o dai molteplici volti, ma con la cui eredità si ha a che fare, sia in linea di continuità che di discontinuità (Pagano). Nel Sessantotto si possono così identificare influenze dionisiache, di trasgressione e di riconoscimento della centralità dell’esperienza, dell’intuizione, del disordine creativo, che favorisce la sperimentazione. Ma esse assumono al contempo una curvatura apollinea che riguarda la riflessione sulle forme future da far assumere alla società e il rinnovamento delle istituzioni in senso civile e comunitario (Fabbri).

    Diventa importante cercare di capire meglio, anche attraverso una prospettiva dialettica (Baldacci), in che cosa consista la portata trasformativa del Sessantotto, se e come abbia trovato compiuta concretizzazione nel panorama pedagogico (Bardulla), ponendo altresì particolare attenzione alle pubblicazioni che fioriscono in questo periodo (Biasin). All’interno di tale inquadramento, punti di osservazione speciali sono la scuola e l’università (Becchi), oggetti di attenzione dapprima degli studenti impegnati nella rivolta tesa a sottrarre tali contesti all’autoritarismo e all’accademismo in nome di una più moderna trasmissione del sapere, ma in seguito anche di gruppi impegnati politicamente, che hanno fatto appunto della politica il criterio totalizzante per l’interpretazione dei sistemi reali-sociali. Nascono così nuovi maestri, ma anche nuovi apparati culturali, con ricadute nel processo di democratizzazione dell’istruzione che invoca un rinnovamento della scuola stessa dalle sue fondamenta (Chiosso).

    I diversi interventi evidenziano come le provocazioni, gli stimoli, le interpretazioni della realtà da parte del movimento sessantottino abbiano contribuito a mettere in discussione e a problematizzare alcuni parametri culturali assodati, nello sforzo di acquisire nuove libertà e nuovi diritti, soprattutto per coloro che finora ne erano stati esclusi. Dallo sfondo delle rivendicazioni del Sessantotto emerge di certo l’intento, per molti aspetti poi non realizzato, di ricercare la costituzione di una comunità giusta e democratica, valorizzando al contempo la soggettività umana all’insegna di principi quali la fraternità e la solidarietà. Il tutto facendo valere vissuti di spontaneità, libertà e autonomia quali cifre caratterizzanti il movimento stesso. Nello spartiacque che il Sessantotto rappresenta, pur nella contraddittorietà di ideali proposti e di promesse non mantenute, nella degenerazione dell’autonomia e della libertà in atti di violenza e imposizioni conformiste e stereotipate (Criscenti), compare la volontà di problematizzare e di condurre a nuovi assetti i diversi sistemi educativi – siano essi formali, non formali o informali – e i processi formativi. La stessa Chiesa, nella figura del papa, in replica alla temperie sessantottina rilancia la lezione del Concilio per offrire una risposta educativa agli interrogativi del periodo (Porcarelli).

    Il fatto che dal punto di vista educativo e socio-politico non si sia poi dato il via ad un autentico processo di elaborazione della funzione sociale della scuola e dell’università sorto nel Sessantotto induce, alla luce del principio di ragione e del principio di realtà, ad impegnarci oggi nel ripensamento critico di strutture sociali, istituzioni e modelli culturali nella consapevolezza delle loro matrici storiche e delle loro potenzialità di trasformazione, per un autentico sviluppo sociale (Striano).

    Nel capitolo 2 – Scuola, giovani, famiglia e processi formativi – si considerano i molteplici modi in cui la ristrutturazione sessantottina abbia coinvolto la scuola (Bertagna), ma anche altri sistemi educativi, in primis la famiglia (Cavallera, Corsi), ampiamente segnata dal movimento del Sessantotto a partire dalla messa in crisi dell’autorità genitoriale e dei valori consolidati. La famiglia diviene il luogo della sperimentazione del diverso modo di concepire le relazioni tra i generi e tra le generazioni. I singoli ruoli mutano; basti pensare alle madri, alle mogli che assumono ruoli, voce, soggettività nuove. Ma si modificano il ruolo del padre e la legge del padre. Ma anche la concezione del corpo, la sua valorizzazione e la conseguente educazione assumeranno un significato diverso proprio a partire dalla svolta del Sessantotto (Casolo).

    Il controllo sui corpi e sulla sessualità (Bortolotto) non viene più esercitato solo in famiglia e, in generale, si vivono altre autorità che non sono quelle familiari, ma, ad esempio, quelle del collettivo, più fraterne ed egualitarie (Lizzola). La famiglia giunge via via all’assunzione di conformazioni diverse che spingono a riflettere come essa vada oggi ricostruita secondo parametri educativi e etici, secondo la pedagogia del prendersi cura che sembra essersi affievolita, se non persa, forse proprio a seguito di certe spinte sessantottine. Esse hanno infatti svolto un ruolo non così irrilevante nel favorire il disorientamento familiare, civile e educativo che si prolunga nella odierna crisi adolescenziale, giovanile, ma anche adulta. Nella famiglia, nella scuola, nell’università il Sessantotto dà dimostrazione di aver aperto delle strade, ma di averne anche chiuse. Spetta ai giovani di oggi ripercorrerle e modificarle, non senza difficoltà, per cogliere la preziosità della lezione pedagogica di quel periodo, ma anche l’opportunità di integrarla in una sintesi culturale più ampia, equilibrata e costruttiva, in relazione allo scenario socio-economico e politico attuale e nel superamento di un certo facilismo amorale (Caligiuri).

    Diviene necessario perciò concepire una didattica – intendendo il termine in senso ampio – che sia orientativa, di accompagnamento alla costruzione del progetto di vita integrale, a carattere personale, professionale e sociale (Magnoler). Si tratta di recuperare, in un’onda lunga, alcune parole della didattica che, sorte durante la rivolta del Sessantotto, si sono poi perse per ritornare oggi come possibile proposta educativo-pedagogica. Fra di esse rientrano, in primis, le competenze, i processi e gli ambienti di apprendimento (Castoldi).

    Il capitolo 3, Il lavoro e le professioni educative, dimostra come accanto ai sistemi familiari, scolastici e universitari, pure quelli lavorativi – studenti e operai uniti nella lotta – vengono scossi dal Sessantotto. E, cosa particolarmente interessante, i contesti lavorativi in Italia non sono da considerarsi solo quelli della fabbrica, ma anche quelli del mondo rurale, che esprimono istanze di cambiamento rilevanti (Pascale). La pedagogia stessa inizia il lungo percorso verso una professionalizzazione esterna, non solo riconducibile all’insegnamento o alla formazione familiare. Nella pedagogia trovano così terreno fertile di discussione le idee emerse dagli anni della Contestazione (Crispiani, Blezza).

    In modi diversi viene avanzata la proposta di un’interpretazione pedagogica del lavoro e pare delinearsi la volontà di giungere ad un’interazione-integrazione fra scuola e lavoro per la formazione di persone-cittadini, come testimonia, ad esempio, la conquista delle 150 ore per il diritto allo studio dei lavoratori (Cegolon). Obiettivi che, a distanza di mezzo secolo, paiono però, per taluni aspetti, essersi ribaltati, forse anche per il prendere corpo di un modello sessantottino, che, per una sorta di eterogenesi dei fini, sostiene al contempo l’idea di separazione teoria-prassi, scuola-lavoro e alimenta quella, tuttora presente, della scarsa rilevanza educativa del lavoro (Gentili). Gli sconvolgimenti del Sessantotto e il susseguirsi di cambiamenti continui di scenario richiedono allora che scuola e impresa oggi agiscano sinergicamente per pensare ad una formazione a tutto tondo rivolta ai giovani, sempre più in balìa di se stessi.

    Sotto l’aspetto pedagogico può essere probabilmente valorizzata "la creatività come uno dei motivi-guida" che tale periodo ha lasciato in eredità (Rossi). La creatività permette infatti di condurre allo sviluppo autentico della persona, di risvegliare le coscienze, di modificare modelli cognitivi e condotte pratiche. Una volta trovato accreditamento storico e sociale nel Sessantotto, l’idea dello sviluppo di una civiltà creativa ha avuto incremento in maniera più o meno esplicita fino ad oggi, periodo in cui potrebbe rappresentare la carta vincente per la ristrutturazione di una società che presenta molti punti deboli nei diversi contesti.

    Il capitolo 4 offre uno spaccato del Sessantotto pedagogico padovano attraverso la figura di Marcello Peretti, studioso rappresentativo per esprimere, appunto, la temperie culturale e pedagogica del Sessantotto in ambito universitario padovano (Zago). Il pedagogista vicentino, attraverso i suoi scritti e i suoi vissuti pedagogici, si fa interprete, con una lettura in chiave formativa, dei comportamenti dei giovani, universitari e non di quel tempo (Moscato), ma anche dei nuovi rapporti intergenerazionali che si prospettano e delle responsabilità educative che gli adulti non sempre si sono assunti nei confronti delle generazioni più giovani (Xodo). Egli non manca, inoltre, di riportare gli appelli del movimento sessantottino ad una visione pedagogica più ampia, centrata sul valore della persona, in nome della volontà di mettere in atto il percorso di umanizzazione della stessa, il diritto di tutti, comprese le donne, ad avere accesso all’istruzione, all’università e ai servizi educativi integrativi rispetto a quelli della scuola e della famiglia, nel cui ambito aggiorna il ruolo educativo della madre e del padre (Benetton).

    Infine, l’ appendice include due testimonianze internazionali che evidenziano come le strutture sociali, le istituzioni, i modelli culturali in cui siamo immersi possano costituire un’affiliazione del Sessantotto, ma sottolineano anche come le stesse revisioni istituzionali siano state parziali e non abbiano considerato le istanze pedagogiche che allora erano emerse (Rey). A maggior ragione, a partire da tale presa d’atto, oggi occorre impegnarsi per ripensare in chiave storica, critica e costruttiva le richieste sessantottine per individuare gli elementi che possano costituire il supporto di un autentico sviluppo sociale (Laspalas).

    La rinnovata riflessione sull’eredità pedagogica del Sessantotto appare quindi estremamente utile per la sollecitazione che essa offre nel mettere in atto una dinamica di rinvigorimento del discorso pedagogico, di cui oggi, nella generale e diffusa crisi educativa, si avverte l’urgenza.

    1. I MOVIMENTI DELLA PEDAGOGIA ITALIANA

    I. Il Sessantotto pedagogico italiano, Massimo Baldacci

    Massimo Baldacci

    Università degli Studi di Urbino Carlo Bo

    Premessa

    Del complesso fenomeno sociale e culturale che è stato il Sessantotto (in realtà, più che un evento un processo che da noi si prolungherà fino al 1977) vogliamo qui accennare al suo versante pedagogico, alla sua capacità di generare un nuovo pensiero sull’educazione e/o comunque di influenzare la riflessione sulla problematica formativa. Pertanto, ci limiteremo a ricordare rapidamente alcuni presupposti culturali e materiali della genesi di questo movimento e alcuni suoi caratteri fondamentali, per poi esaminare i suoi risvolti pedagogici, anche essi di natura transnazionale, ma che hanno trovato nel nostro Paese alcuni sviluppi altamente significativi.

    1. Presupposti e caratteri del movimento

    I presupposti del movimento del Sessantotto sono di ordine sia materiale, sia politico, sia culturale.

    Tra i presupposti materiali si devono indicare le contraddizioni che accompagnarono lo sviluppo socio-economico del secondo dopoguerra. Uno sviluppo impetuoso che, muovendo dall’America, interessò tutto l’Occidente, e che nella seconda metà degli anni Cinquanta investì anche l’Italia, dove – sebbene tardivo – assunse un carattere particolarmente rapido e disordinato (il cosiddetto Miracolo economico). Questo sviluppo trascinava un’espansione dei consumi, che interessava anche quelli culturali (con l’affermazione dell’industria culturale e della cultura di massa), e innescò così celeri cambiamenti nei costumi e nelle aspirazioni. Tuttavia, tale sviluppo rimaneva compresso nelle forme dei rapporti sociali tradizionali, di natura gerarchica e permeati di ideologie autoritarie e conformiste, che erano in conflitto con le nascenti aspirazioni dei giovani. A ciò si aggiungeva l’incapacità da parte delle forze politiche, sia di governo che di opposizione, di cogliere queste nuove esigenze di cambiamento.

    Agli occhi dei giovani, le forze al potere apparivano inoltre compromesse con una politica imperialista che la resistenza dei Paesi del terzo mondo svelava in tutta la sua arbitrarietà e violenza: dalla guerra di liberazione algerina alla rivoluzione cubana, alla guerra del Vietnam. L’America e l’Occidente apparivano come l’oppressore, il moloch capitalista che calpestava la libertà dei popoli.

    Queste inquietudini esistenziali e politiche assumevano una forma culturale consapevole nel rapporto con gli orientamenti filosofico-ideologici che caratterizzavano la ricca e complessa elaborazione degli anni Sessanta, soprattutto nell’area del pensiero marxista. Dal giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, col tema dell’ alienazione; agli scritti di Marcuse ( L’uomo a una dimensione); al pensiero di Mao e alla rivoluzione culturale cinese; al culto della figura del Che e al guevarismo; ai quali, da noi, si deve aggiungere l’operaismo di Panzieri (i Quaderni rossi) e Tronti ( Operai e capitale) e la cruciale Lettera a una professoressa, di Don Milani, su cui torneremo. E ancora, sebbene con una incidenza forse minore: il marxismo esistenzialista di Sartre ( Critica della ragione dialettica); il situazionismo di Debord ( La società dello spettacolo); lo strutturalismo di Althusser ( Per Marx) e di Foucault ( La storia della follia); l’antipsichiatria di Laing ( L’io diviso), e da noi di Basaglia ( L’istituzione negata).

    Ma l’inquietudine politico-esistenziale dei giovani trovava espressione anche attraverso la cultura di massa, soprattutto nella musica, che si affermava come il linguaggio giovanile per eccellenza – con i numerosi gruppi rock e beat, nonché col folk-rock (basti pensare a Bob Dylan), e da noi con i cantautori politici (De André, Guccini), ma anche con i Cantacronache e col Nuovo Canzoniere Italiano (Ivan Della Mea) – e come esperienza di aggregazione di massa (che culminò nel festival di Woodstock, del 1969), ponendosi come veicolo globale di socializzazione giovanile. Ma la problematica giovanile emerge anche nel cinema e nella letteratura: per limitarci all’Italia, basti pensare al film I pugni in tasca (Bellocchio, 1965), spietatamente anti-borghese, o al romanzo I porci con le ali (Lombardo Radice, Ravera, 1976), ritratto del rapporto tra due adolescenti di sinistra negli anni della contestazione (in un clima vicino al ’77).

    Queste complesse matrici culturali vanno lette anche come le coordinate pedagogiche entro cui assunse concretezza la formazione dei giovani della contestazione. Gli orientamenti pedagogici di cui parleremo nella seconda parte del contributo rappresentano solo la punta dell’iceberg di un più ampio organismo formativo informale, ramificato ed eterogeneo.

    Entro tali matrici presero forma i caratteri del movimento del Sessantotto, che andò configurandosi come una rivoluzione culturale ed esistenziale dal profilo politico, nella cui dinamica l’esperienza esistenziale e sociale assumeva un significato politico, e la contestazione politica diventava atteggiamento esistenziale ed esperienza culturale. Il processo assunse la forma di un conflitto inter-generazionale, entro cui i giovani si autorappresentavano come classe sociale, ma prese presto anche una curvatura intra-generazionale (con l’ostilità tra giovani di destra e di sinistra). La contestazione aveva un carattere anti-autoritario, squisitamente libertario; anti-dogmatico e anti-conformista, valorizzando il dissenso e la differenza; anti-borghese, nemico del perbenismo e del consumismo, volto alla liberazione del corpo e della sessualità. Dal punto di vista strettamente politico, si presentava come anti-capitalista e anti-imperialista. Questi suoi caratteri di contro-cultura nascevano da una profonda inquietudine esistenziale e trovavano espressione positiva nell’aspirazione alla differenza, alla creatività (l’immaginazione al potere), all’ edonismo dell’essere contro quello dell’avere.

    Tuttavia, tali caratteri non erano privi di contraddizioni che il movimento non riuscì a risolvere, quali il risorgente contrasto tra la spontaneità della contestazione e la sua organizzazione consapevole (un problema di potere e di direzione di tipo gramsciano); l’edonismo (sia pure riferito all’essere, contro l’etica giudaico-cristiana del sacrificio, come dichiarò Cohn Bendit, uno dei leader del Maggio parigino) che minava l’anti-consumismo (vogliamo tutto); il fantasma del Grande Rifiuto della società borghese che predisponeva alla fuga negli immaginari psichedelici degli allucinogeni. Queste e altre contraddizioni irrisolte pesarono sul movimento e ne limitarono gli sviluppi, concorrendo al suo indebolimento e alla sua estinzione. Nondimeno il Sessantotto fu una grande esplosione di energie e di vitalità, e modificò costumi e abiti mentali in modo significativo e duraturo. E non si deve dimenticare che fu un fenomeno transnazionale: nacque nei campus universitari americani (come Berkeley, fin dal 1964), e da lì si estese in Europa, soprattutto in Francia, Germania e Italia (ma non si deve dimenticare la Cecoslovacchia). Da noi il mondo giovanile era già in subbuglio e la contestazione ebbe una maggiore durata (arrivando a estinguersi solo nel 1977), conoscendo inoltre significativi rapporti col movimento operaio, che culminarono nell’ autunno caldo del 1969. Infine, non si deve trascurare che la contestazione non ebbe come bersaglio soltanto le forze politiche moderate, di governo, ma gli stessi partiti della sinistra tradizionale (come da noi il Pci), ritenuti responsabili di essersi attardati su concezioni produttivistiche, che sotto l’ombrello della necessità dello sviluppo delle forze produttive avevano finito per favorire il consolidamento della società capitalista. Infatti, il Pci – nonostante i tentativi di avvicinamento del segretario Longo – non ebbe mai presa sul movimento giovanile, e ne criticò piuttosto (in particolare con Amendola) il carattere libertario e spontaneista, manifestando una complessiva incapacità di comprensione per le sue ragioni.

    2. La scuola e la pedagogia della contestazione

    Uno degli aspetti caratterizzanti del Sessantotto fu la critica alla scuola (e all’università) borghese. I rimproveri mossi a questa istituzione erano almeno due. In primo luogo, quella di essere borghese e classista, e quindi di colpire con la selezione scolastica le classi subalterne, assicurando una riproduzione della stratificazione sociale esistente. In secondo luogo, la scuola era accusata di essere un’istituzione autoritaria e dogmatica, volta a conformare i giovani all’ideologia borghese-capitalista.

    In Italia, gli inizi degli anni Sessanta si erano aperti con l’unificazione della scuola media (1962), che costituiva un passo importante verso una realizzazione di una scuola della Costituzione. Tuttavia, l’attuazione della scuola media unificata subiva l’opposizione di larga parte dei docenti, di estrazione piccolo-borghese, che temevano che da essa potesse derivare uno scadimento del proprio ruolo sociale (si veda Le vestali della classe media, 1969, di Barbagli e Dei, esito di una ricerca sul campo iniziata nel 1965).

    L’elaborazione pedagogica che accompagna il Sessantotto e la critica alla scuola e all’università ha un raggio transnazionale. Ci limitiamo però a un cenno ad alcuni momenti significativi a livello internazionale, per poi esaminare i contributi italiani. Si tratta di momenti che presero l’avvio in contesti particolari per poi conoscere una vasta diffusione internazionale.

    Nell’ area anglo-americana la pedagogia della contestazione fu caratterizzata dall’attenzione all’esperienza di Summerhill, promossa da Neill già da alcuni decenni, sulla base di presupposti psicanalitici anti-repressivi, che trovava particolare risonanza nella nuova situazione. Nell’ area francese questo periodo è caratterizzato dalla pedagogia istituzionale (Lapassade, Fernand Oury) che muoveva dall’analisi istituzionale e dall’ipotesi dell’autogestione pedagogica (Lapassade), legata a un più vasto movimento – nutrito di presupposti marxisti e psicanalitici (Althusser, Lacan) – che coinvolgeva anche l’area della psichiatria (Jean Oury). Nell’ area dell’America latina l’esperienza fondamentale è quella della pedagogia degli oppressi di Freire. Si trattava di un’esperienza fortemente radicata nella situazione sud-americana, dove grandi masse rurali analfabete erano oppresse e sfruttate da minoranze privilegiate, sotto l’egida di governi conservatori o apertamente reazionari. La prospettiva di Freire assumerà, però, un valore paradigmatico di raggio globale. Di taglio cosmopolita era invece il movimento della descolarizzazione (Illich, Reimer), che trovava in Ivan Illich l’interprete della più radicale critica all’istituzione scolastica.

    Entro questo quadro internazionale, inquieto ed eterogeneo, si sviluppò in modi peculiari l’esperienza pedagogica italiana.

    Prima del 1968, nel nostro Paese, erano già presenti elementi di critica della scuola tradizionale e di proposta innovativa, come quella sviluppata dal Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), entro il quale erano particolarmente significative le posizioni di Bruno Ciari (la scuola come grande disadattata, il tempo pieno, la scuola dell’infanzia) e le esperienze di Mario Lodi ( C’è speranza se questo accade a Vho, 1963). Tuttavia, l’opera che è stata una fonte d’ispirazione per la contestazione del Sessantotto è stata Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani, ma firmata dall’intera Scuola di Barbiana. Come si è accennato, la resistenza alla scuola media unificata (evidenziata nel citato Le vestali della classe media) si traduceva nella massiccia selezione scolastica che colpiva gli alunni di estrazione proletaria, con la giustificazione della difesa della qualità e della serietà della scuola. Verso questo tipo di scuola, la critica di don Milani (ispirata ai valori del Vangelo e ai principi della Costituzione) non si basa sulla differenza di classe concepita in termini marxiani, ma sulla distinzione evangelica tra ricchi e poveri: la scuola discrimina i poveri, ma Dio non ha creato i poveri meno intelligenti dei ricchi. La scuola ha perciò il compito di realizzare l’uguaglianza tra tutti i cittadini, secondo lo spirito della Costituzione. Pertanto, non deve fare parti eguali tra diseguali, ma deve dare di più a chi ha di meno. E in tale opera egli assume l’educazione linguistica come chiave per il raggiungimento dell’eguaglianza: è la lingua che fa eguali. La sua modalità di lavoro, inoltre, non concede nulla a un facile puero-centrismo e non inclina verso l’anti-autoritarismo . Al contrario, essa sembra basata su rigore analogo a quello gramsciano: lo studio richiede sforzo, serietà e disciplina. Questo rigore è però indirizzato al riscatto degli ultimi, diretto alla loro emancipazione culturale e politica.

    Le posizioni di don Milani, per la verità, sembrano avere un collegamento piuttosto debole con quelle del Sessantotto (centrate sull’anti-autoritarismo, l’anti-dogmatismo, lo spontaneismo e l’immaginazione), ma la loro radicalità e la loro coerenza fanno diventare comunque Lettera a una professoressa uno dei punti di riferimento della contestazione studentesca, se non altro per la tensione anti-selettiva che le pervade.

    Tra le pedagogie che hanno accompagnato il Sessantotto e ne hanno raccolto l’ispirazione per un’educazione antidogmatica e antiautoritaria si possono citare l’ antipedagogia di De Bartolomeis, soprattutto sul versante anti-dogmatico, e le esperienze de «L’Erba voglio», animate da Facchinelli, particolarmente sul versante anti-autoritario (ma un discorso a parte, declinato sul versante del corpo e della fantasia, meriterebbe anche l’ animazione di Passatore, Rostagno, Scabia, che qui non tratteremo).

    L’attacco anti-dogmatico alla scuola viene portato da De Bartolomeis con La ricerca come antipedagogia (1969), che dichiara apertamente il carattere non neutrale bensì politicamente schierato del proprio discorso. L’intento è quello di colpire quello che viene indicato come il dispositivo fondamentale del dogmatismo scolastico: la lezione frontale. Quest’ultima è vista come una forma di violenza e di sopraffazione culturale del discente, nonché come un momento di regressione narcisista del docente. Ma l’autore intende anche demistificare qualsiasi innovazione didattica che si riduca a una dimensione meramente tecnica e neutrale, perché il significato di una procedura d’insegnamento è sempre definito dalla cornice politico-culturale entro cui si colloca. Pertanto, i germi di una politica conservatrice possono permanere anche all’interno delle innovazioni scolastiche, se queste non vengono analizzate anche nei loro aspetti ideologici intrinseci, senza fermarsi a quelli meramente tecnici. La pedagogia, quindi, non deve mirare semplicemente a un perfezionamento tecnico ed efficientistico della strumentazione didattica scolastica, ma deve vestire i panni di una pedagogia critica, volta a rilevare le contraddizioni interne ai processi formativi. In altre parole, è possibile occuparsi di pedagogia soltanto da un punto di vista anti-pedagogico, teso a individuare e praticare soluzioni formative alternative.

    In questo senso, l’alternativa proposta è quella della ricerca, concepita non come mera tecnica ma entro il quadro di un’emancipazione intellettuale e politica, e quindi come esperienza in grado di promuovere la capacità di pensare con la propria testa e un atteggiamento critico verso il mondo. A patto, però, che i problemi affrontati siano reali e significativi sotto il profilo sociale e che la necessaria guida del docente non crei una nuova forma di dipendenza, ma sia indirizzata alla piena autonomia intellettuale. Il testo è pervaso da una costante tensione politica, ed è fortemente critico verso la pedagogia tradizionale. Il suo radicalismo appare in piena consonanza con la temperie culturale del periodo.

    Esperienze di educazione non autoritaria particolarmente significative sono quelle raccolte intorno al gruppo de «L’Erba voglio», animato da Elvio Facchinelli (di formazione psicanalitica), che cura l’omonimo volume pubblicato nel 1971, nel quale sono narrati una serie di tentativi – compiuti in varie parti d’Italia – per superare il carattere della scuola come istituzione prevaricante, aprendola al territorio e cercando di stabilire rapporti orientati alla liberazione degli individui.

    Secondo gli autori, nella scuola d’élite l’autorità del docente era riconosciuta come una dipendenza funzionale rispetto a uno scopo condiviso. Tuttavia, con l’avvento della scuola di massa – venendo meno questo presupposto – l’autorità si svuota, riducendosi a un puro rapporto di forza, a mero autoritarismo. Così, come in una fabbrica si combatte lo sfruttamento, nella scuola occorre lottare contro l’autoritarismo. Si tratta, cioè, di battersi contro un meccanismo formativo che – illudendo i genitori e gli studenti con la falsa promessa di una mobilità sociale ascendente – mira in realtà alla riproduzione di una forza lavoro docile e conformista. Occorre, perciò, che l’insegnante scelga di svestirsi dei panni autoritari e di rinunciare ai paludamenti burocratici (il programma, l’orario, i voti ecc.). Così, sarà possibile sperimentare una condizione in cui docenti e studenti decidono insieme le attività e le loro modalità di svolgimento, liberandosi dei vincoli del potere istituzionale (a partire dai voti, espressione del potere burocratico del docente) e cercando un rapporto significativo con le forze del territorio (genitori, operai). Solo in questo modo, l’insegnante può recuperare una vera autorevolezza e può quindi diventare una autorità nella quale sia possibile allo scolaro riconoscersi e quindi esperire un soddisfacente rapporto di dipendenza e di fiducia, che restituisce alla scuola un’autentica capacità educativa. In estrema sintesi, si tratta di un movimento pedagogico che muove da matrici politiche e psicanalitiche, e che esibisce alcune analogie con l’autogestione della pedagogia istituzionale. Da queste esperienze nasce anche la rivista «L’Erba voglio», diretta da Elvio Facchinelli e Lea Melandri, attiva per tutto il periodo della contestazione (una trentina di numeri dal 1971 al 1977). Si tratta di una pubblicazione di impostazione politica particolarmente radicale, che riprende i toni della critica istituzionale alla scuola e promuove l’ipotesi dell’autogestione. Ciò in vista – come si dice nell’editoriale del primo numero (luglio 1971), firmato dalla Melandri – di una gestione operaia della scuola che richiede di sovvertirne radicalmente la struttura attuale, invece di limitarsi a tentativi riformisti. Tale sovvertimento, inoltre, si deve basare su una convergenza tra la lotta all’interno della scuola e la mobilitazione all’esterno.

    Negli anni della contestazione vi sono state però anche elaborazioni pedagogiche attestate su posizioni dialettiche rispetto a quelle sessantottesche. Per esempio, Manacorda con il Principio educativo in Gramsci (1970), recuperando le categorie dell’ americanismo e del conformismo, richiamava il principio dell’ auto-disciplina della classe operaia. Questa indicazione si estendeva anche al movimento studentesco, dapprima implicitamente, poi apertamente nel volumetto Per la riforma della scuola secondaria (Manacorda, 1976), nel quale – pur esprimendo comprensione per la contestazione verso l’autoritarismo – si poneva l’esigenza di una conquista dell’ auto-disciplina da parte degli studenti. Bertin, invece, in Educazione alla ragione (1968) poneva come centrale un’educazione diretta dalla ragione e volta alla conquista della ragione, e quindi si attestava su linee dialettiche rispetto al primato dell’ immaginazione propugnato dalla contestazione (l’immaginazione al potere) [1] .

    3. La dialettica del Sessantotto

    Il significato del contributo pedagogico del Sessantotto può essere colto proprio attraverso una prospettiva dialettica, sopra rammentata. Tale significato, infatti, appare quello di una radicale antitesi verso la scuola tradizionale, intrisa di dogmatismo e autoritarismo. In quanto antitesi tale contributo ha avuto la capacità di rimettere in moto il cambiamento della scuola, che si stava sclerotizzando in forme conservatrici. Tuttavia, l’antitesi pedagogica del Sessantotto si è mostrata astratta e limitata da un intrinseco romanticismo. Si è mostrata astratta perché nella sua radicalità intendeva sopprimere la tesi (la forma tradizionale della scuola), anziché superarla dialetticamente, ossia assorbirla e oltrepassarla in una sintesi più ampia e comprensiva. Il furore pedagogico sessantottesco, infatti, intendeva semplicemente distruggere il dogmatismo e l’autoritarismo della scuola tradizionale. Ma in questo modo, la pedagogia della contestazione ha smarrito il germe di validità che alberga nei momenti del dogmatismo e dell’autorità, e nella sua incapacità di mediare e superare tali momenti, li ha visti poi rinascere come reazione ai suoi eccessi iconoclasti. Detto diversamente, nella sua radicalità l’antitesi sessantottesca ha mostrato il suo carattere di reazione romantica contro le involuzioni della pedagogia tradizionale (così come, secondo Gramsci 1975, il significato dell’attivismo era quello di una reazione romantica contro la pedagogia gesuitica). E come tale poneva l’esigenza di un suo superamento in una sintesi capace di assicurare l’equilibrio proprio della classicità (seguiamo ancora Gramsci). L’incapacità di superare le proprie posizioni antagoniste immediate in una tale prospettiva di sintesi ha limitato la validità dell’esperienza del Sessantotto: preziosa per rimettere in moto il cambiamento, ma inadeguata a indicarne stabili punti d’approdo.

    Una prospettiva di ben altro respiro è reperibile, per esempio, nel pensiero pedagogico di Gramsci (1975). Difatti, in esso, il dogmatismo e l’autoritarismo compaiono come momenti necessari, ma secondo una prospettiva dinamica, nella quale – in base alla dialettica come inversione della dominanza – da una fase iniziale che vede la loro prevalenza si trapassa a una fase in cui prevale l’autonomia intellettuale ed etica, ossia l’auto-disciplina del pensiero e dell’azione.

    Un’altra prospettiva di largo respiro dialettico è quella problematicista (Bertin, 1975). Secondo la sua logica, le antitesi sollevate dal Sessantotto: ragione e immaginazione, dogmatismo e criticismo, autorità e libertà, corporeità e mente, lezione e ricerca ecc. possono diventare le antinomie regolative di un discorso pedagogico razionale e i termini da bilanciare e conciliare in una prassi educativa progressista, volta al pieno sviluppo della personalità individuale.

    Concludendo, la lezione pedagogica del Sessantotto è preziosa, ma va riassorbita in una sintesi culturale più ampia ed equilibrata. I suoi autori serbano, tuttavia, un valore duraturo, prezioso tutte le volte che vi sia l’esigenza di riattivare una vigorosa antitesi pedagogica.

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    [1] Successivamente, Bertin svilupperà temi affini a quelli tipici del Sessantotto, come l’ educazione alla differenza (che egli lega a Nietzsche) e la creatività esistenziale (connettendo Nietzsche e Sartre), mantenendosi però fedele alla impostazione dialettica del problematicismo e proponendo perciò una mediazione tra pensiero divergente e pensiero convergente.

    II. Pedagogia e Sessantotto in Italia, Enver Bardulla

    Enver Bardulla

    Università degli Studi di Parma

    1. Le ambiguità di un riferimento simbolico

    Già abbozzare un bilancio del movimento del Sessantotto in generale, senza cioè far riferimento a un ambito specifico come quello pedagogico che qui ci interessa, non è impresa semplice. Tutt’altro. Ne sono prova le differenze anche profonde che è dato riscontrare tra i numerosi articoli e servizi con i quali i mezzi d’informazione ne stanno celebrando la ricorrenza a mezzo secolo di distanza.

    Vi è chi considera quell’anno come momento d’avvio di un processo proseguito, seppure con alterne vicende, fino ai nostri giorni e tuttora in corso, e chi invece lo ritiene l’epilogo di una stagione caratterizzata dal proliferare dei fermenti e delle speranze suscitate dai segnali di disgelo nei rapporti tra le grandi potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale, dalle aperture al mondo contemporaneo attuate dal Concilio ecumenico Vaticano secondo, dalle lotte di liberazione ingaggiate nei Paesi soggetti alla dominazione coloniale, dalle rivolte contro le dittature nei Paesi del Centro e Sud America, dalle battaglie contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti: fermenti e speranze maturati peraltro, anche in Italia, in un contesto di: forte incremento del benessere materiale; diversa distribuzione della forza lavoro; modifica della struttura demografica; disponibilità senza precedenti di beni di consumo; livelli più elevati di scolarizzazione; condizioni abitative del tutto incomparabili con quelle dei decenni precedenti.

    Vi è anche chi ne esalta il ruolo nel determinare le trasformazioni che successivamente hanno avuto luogo nei rapporti sociali e intergenerazionali e chi, per contro, si premura di ridimensionarlo. Chi ne enfatizza la dimensione politica e sociale e chi ne privilegia piuttosto le ricadute sul piano del costume e della vita quotidiana. Ma anche chi pone l’accento su ciò che accomuna il manifestarsi dell’ondata contestatrice nei diversi ambiti geografici, politici e culturali e chi ritiene fuorviante ignorare la differenza di motivazioni e aspirazioni che hanno animato la protesta giovanile nei diversi Paesi: dai campus statunitensi, i cui studenti si ribellavano alla chiamata alle armi per la guerra nel Vietnam, alle università dell’Occidente europeo, le cui strutture d’élite non erano più in grado di fornire un servizio decente a una popolazione studentesca aumentata in pochi anni in misura impressionante, o dalle piazze della Cecoslovacchia e degli altri paesi occidentali costretti, loro malgrado, nel blocco sovietico.

    Le diverse letture del Sessantotto (o dei molti Sessantotto) cui si è appena fatto cenno, per quanto contrapposte, hanno tutte, a ben considerare, un qualche fondamento. Quanto meno una loro plausibilità. Possono addirittura coesistere, a dispetto di quella che, a prima vista, potrebbe apparire un’evidente inconciliabilità. Il che è possibile soltanto in virtù del significato simbolico generalmente attribuito a questa data. Se la si assume, cioè, convenzionalmente, come criterio per stabilire uno spartiacque nella storia del secondo dopoguerra, senza preoccuparsi di distinguere tra cause ed effetti, e dando per scontate le loro interazioni: un criterio di comodo che, se, da un lato, aiuta indubbiamente a semplificare l’estrema complessità dei fenomeni indagati, dall’altro, rischia di deformare eccessivamente la realtà. Non solo. Costituisce anche la premessa di quei processi contrapposti di mitizzazione e demonizzazione che molti degli Autori intervenuti nel dibattito dedicato al cinquantesimo anniversario della rivolta studentesca considerano un rischio da scongiurare.

    Per questo, ritengo convenga procedere, anche per quanto concerne il Sessantotto pedagogico, in modo più analitico, distinguendo tra quanto può essere legittimamente attribuito al movimento di contestazione esploso in quella data e tendenze riconducibili all’influenza di fattori di più ampio respiro, dei quali la contestazione giovanile ha indubbiamente risentito, facendosene interprete in modo indiscutibilmente originale, e sui quali ha altrettanto indiscutibilmente retroagito.

    2. Pedagogia accademica e pedagogia ‘concreta’

    Focalizzare l’attenzione sulle interpretazioni pedagogiche del Sessantotto può senza dubbio apparire riduttivo. Anzi, certamente lo è. E lo è, a maggior ragione, se a essere prese in esame sono soltanto le posizioni assunte nei confronti della contestazione giovanile da una pedagogia, quella accademica, il cui ruolo, come tenterò di argomentare in questo contributo, può considerarsi, anche in questo caso, del tutto marginale. Le esperienze e le proposte più innovative prodotte tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi dei Settanta, tanto nella scuola quanto in ambito extrascolastico, non sono certo opera dei pedagogisti di professione. Si devono piuttosto alla genialità, sensibilità, passione e lungimiranza di insegnanti, educatori, sacerdoti, amministratori, uomini di cultura e studiosi di altre discipline, come si evince del resto scorrendo l’elenco dei volumi divenuti in quel periodo i principali testi di riferimento per educatori e insegnanti alla ricerca di indicazioni che li aiutassero a smantellare un’educazione sclerotizzata, oltre che funzionale al mantenimento dei privilegi delle classi dominanti, per farne strumento efficace di promozione della libertà di tutti e di ciascuno e rendere effettiva l’eguaglianza delle opportunità educative sancita dal dettato costituzionale. Quanto meno, per promuovere un’educazione al passo coi tempi, in grado di fronteggiare le sfide educative poste da una realtà sociale e culturale profondamente mutata.

    Se si ritiene che il termine pedagogia designi in senso lato la riflessione sull’azione educativa, indipendentemente dal livello d’astrazione al quale ci si spinge, dai metodi impiegati per elaborarla, dalle competenze disciplinari possedute da chi ne è autore, dagli ambiti nei quali l’intervento deve realizzarsi ecc., non vi è dubbio che limitarsi a considerare la pedagogia accademica può essere tacciato di elitismo e di autoreferenzialità. Tuttavia, senza entrare nel merito della disputa sulla continuità o meno tra pedagogia pratica e pedagogia contenutistica e pura, per riprendere la nota classificazione proposta da Sergio De Giacinto [1] , restringere il campo d’indagine alla pedagogia accademica, anche a prescindere da un criterio di distribuzione dei compiti tra i contributi del volume, ha a mio giudizio una sua validità. Se ne possono trarre utili spunti per approfondire, in modo non autocelebrativo, la riflessione sul ruolo di questa disciplina; e per richiamare l’attenzione sulla necessità di prendere (o riprendere) in esame problematiche che il dopo Sessantotto pedagogico ha, a mio avviso, eccessivamente trascurato.

    3. Le fonti utilizzate

    Per chi, come me, è stato, per ragioni anagrafiche, testimone di quella turbolenta stagione, non vi è dubbio che le esperienze vissute in quel periodo abbiano costituito, in prima istanza, la fonte da utilizzare per il recupero, in vista della stesura di questo contributo, delle informazioni necessarie per mettere a fuoco il primo dei due termini del rapporto, il Sessantotto. Il che, se, da un lato, presenta indiscutibili vantaggi rispetto a chi dispone soltanto di notizie di seconda mano, dall’altro, è esposto ai limiti e ai rischi di qualsiasi ricostruzione soggettiva.

    Al fine di ridurre, almeno in parte, tali inconvenienti, è bene che dichiari di non aver aderito a suo tempo al movimento studentesco o partecipato a occupazioni o ad altre manifestazioni da questo promosse, non condividendone, se non parzialmente, la piattaforma ideologica e, in misura ancora più decisa, le strategie. Si tenga peraltro presente che Parma non rientra tra le sedi universitarie annoverate ancora oggi tra le principali cittadelle del Sessantotto nostrano. C’era stata, sì, un’occupazione dell’università, durata alcuni mesi, nel corso della quale si erano celebrati i riti tipici delle occupazioni diffuse su tutto il territorio nazionale ed europeo. A differenziarla dalle sedi più calde era stato, se mai, il fatto che gli occupanti potevano contare sull’aperto sostegno dell’amministrazione comunale di sinistra, del Pci e della Cgil. Il che non era bastato a farle assumere una rilevanza di primo piano nella cronaca nazionale, a differenza di quanto era invece accaduto per l’occupazione della cattedrale cittadina da parte di un ristretto manipolo di giovani del dissenso cattolico o per le iniziative promosse da Franco Basaglia e da un gruppo di studenti della facoltà di medicina nell’ospedale psichiatrico della vicina Colorno.

    Nonostante la mia estraneità al movimento di contestazione, avevo dovuto comunque confrontarmi con gli interrogativi da questo sollevati. In ambito universitario, non tanto in qualità di studente, essendomi laureato proprio nell’anno di cui si celebra la ricorrenza, quanto subito dopo la laurea, come collaboratore della cattedra di Pedagogia. Molto più coinvolgente era stato per me il confronto che, nello stesso periodo, era venuto sviluppandosi nello scautismo cattolico maschile (all’unificazione nell’Agesci delle preesistenti associazioni maschile e femminile, Asci e Agi, si arriverà nel 1974), all’interno del quale avevo del resto maturato la vocazione pedagogica. Qui, le tensioni antiautoritarie e d’impegno politico-sociale si combinavano con quelle suscitate dal concilio ecumenico indetto da Giovanni XXIII, dalla teologia della liberazione e dal fiorire delle comunità di base e del dissenso cattolico in ambito ecclesiale: tensioni che determinavano conflitti particolarmente accesi, benché mantenuti nell’ambito del confronto d’idee, tra i sostenitori delle opposte tendenze.

    A essere messa in discussione, d’altronde, non era soltanto la struttura organizzativa dell’associazione, tacciata di eccessivo verticismo, autoritarismo e burocratizzazione. Per le frange più radicali, erano da rivedere, se non addirittura da cancellare,

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