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Studium - I Genocidi nella storia
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E-book304 pagine4 ore

Studium - I Genocidi nella storia

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Info su questo ebook

In questo numero un'analisi dei genocidi nella storia.

Vincenzo Cappelletti: Un luminoso ricordo: Giulio Bruno Togni

Giuseppe Dalla Torre: Adozioni/adozione

I Genocidi nella storia: A cura di Cinzia Bearzot

Cinzia Bearzot: Introduzione

Laura Loddo: L’annientamento delle comunità cittadine come strumento imperialistico

Alessandro Galimberti: Genocidi nel mondo romano?

Lucia Dell’Asta: Un genocidio prima del genocidio? Le strages gentium nel Medioevo

Giorgio Del Zanna: A cento anni dal genocidio armeno: la fine della presenza cristiana in Anatolia

Carmelo Licitra Rosa: Esercizi di grazia: la vita della coscienza

Giuseppe D’Acunto: La gaia mistica. Il deserto fiorito di Adriana Zarri

Claudia Villa: L’epistola XII all’amico fiorentino: un ritratto di Dante

Serena Meattini, Marco Buzzoni, Alessio Musio, Luca G. Castellin, Umberto Lodovici, Antonio Giovanni Pesce, Emilia Di Rocco, Rosaria Leonardi, Paolo Pittaro, Giuseppe Piccoli: La Nostra biblioteca
LinguaItaliano
Data di uscita24 giu 2016
ISBN9788838244728
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    Anteprima del libro

    Studium - I Genocidi nella storia - Paolo Pittaro

    Cinzia Bearzot, Marco Buzzoni, Vincenzo Cappelletti, Paolo Carusi, Luca G. Castellin, Giuseppe D’Acunto, Giuseppe Dalla Torre, Lucia Dell’Asta, Giorgio Del Zanna, Emilia Di Rocco, Alessandro Galimberti, Rosaria Leonardi, Carmelo Licitra Rosa, Laura Loddo, Umberto Lodovici, Serena Meattini, Alessio Musio, Antonio Giovanni Pesce, Luigi Picardi, Giuseppe Piccoli, Paolo Pittaro, Claudia Villa

    I Genocidi nella storia

    STUDIUM

    Rivista bimestrale

    COMITATO DI DIREZIONE  

    Vincenzo Cappelletti, responsabile; Franco Casavola

    COMITATO EDITORIALE  

    DIRETTORE: Giuseppe Bertagna (Università di Bergamo);

    COMPONENTI: Mario Belardinelli (Università Roma Tre, Roma), Ezio Bolis (Facoltà teologica, Milano), Massimo Borghesi (Università di Perugia), Giovanni Ferri (Università LUMSA, Roma), Angelo Maffeis (Facoltà teologica, Milano), Gian Enrico Manzoni (Università Cattolica, Brescia), Fabio Pierangeli (Università Tor Vergata, Roma), Angelo Rinella (Università LUMSA, Roma), Giacomo Scanzi (Giornale di Brescia).

    RESPONSABILE EDITORIALE: Roberto Donadoni

    VICERESPONSABILE EDITORIALE: Simone Bocchetta

    REDAZIONE: Anna Augusta Aglitti, caporedattore

    Gli articoli della Rivista sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche ci si avvarrà anche di professori esterni al Consiglio scientifico. Agli autori è richiesto di inviare, insieme all’articolo, un breve sunto in italiano e in inglese. 

    REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE

    Edizioni Studium s.r.l., via Crescenzio, 25 - 00193 Roma  

    Tel. 06.6865846 / 6875456, c.c. post. 834010

    Abbonamento cartaceo 2016 € 70,00 / estero € 110,00 / sostenitore € 156,00

    Un fascicolo € 16,00. L’abbonamento decorre dal 1° gennaio.

    e-mail: info@edizionistudium.it Tutti i diritti riservati.

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838244728

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice dei contenuti

    VINCENZO CAPPELLETTI. Un luminoso ricorso: Giulio Bruno Togni

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Adozioni/adozione

    I Genocidi nella storia. A cura di Cinzia Bearzot

    CINZIA BEARZOT. Introduzione

    LAURA LODDO. L'annientamento delle comunità cittadine come strumento imperialistico

    ALESSANDRO GALIMBERTI. Genocidi nel mondo romano?

    LUCIA DELL'ASTA. Un genocidio prima del genocidio? Le strages gentium nel Medioevo

    GIORGIO DEL ZANNA. A cento anni dal genocidio armeno: la fine della presenza cristiana in Anatolia

    PSICOANALISI

    CARMELO LICITRA ROSA. Esercizi di grazia: la vita della coscienza

    TEOLOGIA

    GIUSEPPE D'ACUNTO. Il deserto fiorito. La gaia mistica di Adriana Zarri

    LECTURAE DANTIS VERSO IL 7° CENTENARIO DELLA MORTE

    CLAUDIA VILLA. L’epistola XII all’amico fiorentino: un ritratto di Dante

    OSSERVATORIO POLITICO. A cura di Paolo Carusi

    LUIGI PICARDI. La riforma delle Regioni e la «questione regionale molisana»

    LA NOSTRA BIBLIOTECA

    FILOSOFIA

    Serena Meattini

    Marco Buzzoni

    Alessio Musio

    Luca G. Castellin

    Umberto Lodovici

    Antonio Giovanni Pesce

    STORIA

    Emilia Di Rocco

    Rosaria Leonardi

    Paolo Pittaro

    Giuseppe Piccoli

    A questo numero hanno collaborato:

    GIUSEPPE DALLA TORRE rettore emerito, Università LUMSA, Roma.

    CINZIA BEARZOT, professore ordinario di Storia greca, Università Cattolica del S. Cuore, Milano.

    LAURA LODDO, ricercatore post-doc, CPAF, Université Aix-Marseille.

    ALESSANDRO GALIMBERTI, ricercatore di Storia romana, Università Cattolica del S. Cuore, Milano.

    LUCIA DELL’ASTA, dottore di ricerca in Storia medievale, Università Cattolica del S. Cuore, Milano.

    GIORGIO DEL ZANNA, ricercatore di Storia contemporanea, Università Cattolica del S. Cuore, Milano.

    CARMELO LICITRA ROSA, medico-chirurgo, psichiatra, psicoanalista dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi.

    GIUSEPPE D’ACUNTO, professore a contratto, Università Europea, Roma.

    CLAUDIA VILLA, professore ordinario di Filologia medioevale e umanistica, Università di Bergamo e Università di Pisa.

    PAOLO CARUSI, ricercatore in Storia contemporanea, Università Roma Tre.

    LUIGI PICARDI, già preside, Liceo classico Mario Pagano, Campobasso.

    VINCENZO CAPPELLETTI. Un luminoso ricorso: Giulio Bruno Togni

    Giulio Bruno Togni, Giuseppe Camadini: nella mia esperienza e nei miei ricordi, uno, Camadini, precede forse l’altro. E con Giuseppe sopravverrà, tutta da vivere, l’esperienza del Giornale di Brescia dove fu Lui a volermi, come rappresentante di una quota azionaria e come collaboratore, con il consenso del direttore Gian Battista Lanzani. Ma Togni e con Lui Camadini erano dovunque, nell’assoluto disinteresse materiale, nell’apporto inestimabile d’idee, nella ricerca e nella scoperta di virtuali collaboratori e alleati.

    Io arrivai al Giornale di Brescia segnalato da Giuseppe, accolto da Giulio Bruno con fine signorilità e presto venuto in possesso di una mia piccola parte: la dichiarazione di voto nell’Assemblea di bilancio. Cose dotate di senso e periodicamente ripetute si ritualizzano, e così accadde della mia presenza all’annuale ricorrenza amministrativa, che fece di me quasi un bresciano, in una città produttrice di Santi e Papi, con uno stile di vita inconfondibile e riconoscibile, una nomea di solida concretezza e di meritato benessere, un giornale quotidiano che cominciava a vedersi nelle edicole del centro di Roma fino a essere presto reperibile in un’area assai più larga della città. Nei lunghi anni all’Enciclopedia Italiana non avevo avuto rapporti con gli ambienti bresciani. Treccani, fondatore dell’Istituto, collegava se stesso e la sua famiglia con Milano, e solo marginalmente con Brescia: che come detto entrò dopo nella cerchia dei miei rapporti di ufficio e personali, attraverso gli Universitari Cattolici e Giuseppe anzitutto, nonché attraverso una luminosa, splendida figura di sacerdote, don Enzo Giammancheri. Mi si consenta di dedicare a Enzo queste poche parole per rievocarne l’altissima dimensione spirituale.

    Ma c’era altri, che aveva e avrebbe continuato a svolgere una parte sostanziale, per accreditarmi nell’ambiente bresciano. Negli anni Ottanta, la mia Lombardia era diventata Brescia al pari di Milano, con un coinvolgimento assai forte nella realtà in pieno sviluppo del Quotidiano cittadino. L’Uomo, ancor meglio la Professionalità e la Coscienza che vi erano coinvolte, erano quelle di Giulio Bruno Togni, coadiuvato da un valentissimo presidio direttivo. Mi avvicinai con grande simpatia e coinvolgimento concreto. L’interesse mio per altri e quello di altri per me si corrisposero. L’Enciclopedia Italiana aveva messo da parte ogni residuo dubbio sulla propria sorte, e con l’Enciclopedia del Novecento come Lessico dei massimi problemi metteva in saldo possesso del paese la consapevolezza del secolo che era riuscita culturalmente ad assicurarsi. A Brescia vi fu chi comprese e dette seguito a un’intesa intensa e feconda per entrambe le parti. Fu una collaborazione di singole persone, che aveva dietro di sé una ricchezza virtuale assai maggiore. Il cenacolo del Giornale di Brescia fu tramite di questo rapporto, che oso ritenere di sostanziale importanza, con l’Enciclopedia Italiana che a sua volta era figlia di una polis bresciana assai più ampia, influente, significativa di quella osservabile. Lo storico svolge bene il suo compito quando rintraccia persone, situazioni, coinvolgimenti che hanno avuto sostanziale importanza per spiegare il veramente accaduto.

    A leggere il volume, agile ma oltremodo denso, che è stato dedicato a Giulio Bruno Togni dall’Editrice Morcelliana e viene oggi presentato, a quattro anni dalla morte, si resta perplessi di fronte a tanta fecondissima attività e alla lucida consapevolezza che l’accompagna. In un organico contributo, storico e critico, il Direttore del Giornale di Brescia, Giacomo Scanzi, pone salde basi che non esitiamo a definire filosofiche alla perdita di un Amico d’inestimabile quotidiano contributo al comune lavoro.

    «Quando una comunità perde un uomo come Giulio Bruno Togni, si sente più povera, sente che le è venuta a mancare una straordinaria possibilità. Di comprendere, di progettare, di costruire. Una possibilità fatta di poche parole, di silenzi capaci di spostare le montagne, di discrezione mai sdegnosa ma rigorosa, di passione civile capace di manifestarsi con delicatezza e con un lessico sempre garbato, rispettoso, e insieme con la forza granitica della convinzione e del rigore. Giulio Bruno Togni non era uomo che sovrastava. Era uomo che veniva cercato. Davanti alle grandi questioni [...] ci si domandava con naturalezza: Che cosa ne penserà Togni?».

    Giulio Bruno Togni e le persone alle quali ci siamo avvicinati – valgano a rappresentarle tutte Giuseppe Camadini e Don Giammancheri, eminente sovra ogni altro Giovanni Battista Montini – erano i creatori d’un mondo che altri doveva comprendere e ulteriormente arricchire. Attorno alle loro persone sorgeva una nuova realtà cittadina, ma questa realtà, come spesso accade, doveva trasformarsi in consapevolezza. Organo elettivo di questa presa di coscienza venne ad essere qualcosa che aveva il pregio di possedere il ritmo serrato della quotidianità. Impossibile il ricorso alla dimenticanza. Il giorno aveva il suo mentore nel giornale. Ma il giornale doveva essere sede e organo di una presa di coscienza. Storia, quotidianità, consapevolezza: era richiesta la loro fusione, in una di quelle evenienze straordinarie che possono avvenire, purché dispongano di Persone capaci di promuovere la sintesi dei fattori che dominano il divenire della vita. Lo spazio immateriale e inesteso della sintesi di cui abbiamo fatto cenno, va cercato nella coscienza, nel pensiero e nelle istituzioni. Impossibile realizzarla, la sintesi di questi fattori, se non ricorrendo alla presa di coscienza. Che di solito è dovuta a Persone che ottengono la fiducia, l’ascolto, la comprensione al servizio del valore, della novità, della crescita. Tutta la città cambiava in quegli anni, e il Giornale cittadino ne rispecchiava la trasformazione.

    Oggi, una nuova Brescia si affaccia a un futuro che porta con sé una sfida ecumenica. L’Istituto Paolo VI accenna a una consapevolezza divenuta mondiale, a un presente che si è fatto futuro. È con profonda emozione che ci troviamo a mutare la direzione del nostro sguardo, dall’ieri all’oggi e dall’oggi al domani e al sempre. Altri intensificheranno domani la nostra presa di coscienza. Ma varrà sempre il principio per il quale si richiedono uomini di buona volontà, ad aprire nell’oggi le virtualità che vi sono contenute. Nulla e nessuno vi sarà dimenticato. E nessuno sarà reso esente dal dovere e dalla gioia di contribuire alla fioritura della verità e della vita.

    Vincenzo Cappelletti

    IL PUNTO

    GIUSEPPE DALLA TORRE. Adozioni/adozione

    La società si nutre di miti (mythos, cioè pronuncia), vale a dire di storie che si assumono come vere e rivestite di una sorta di sacralità; o meglio: vere perché rivestite di una sorta di sacralità. Caratteristica del mito è quello di coinvolgere emotivamente l’ascoltatore, che attraverso di esso acquisisce un’idea come principio-verità. Di qui una conseguenza: i miti non si discutono.

    Anche i giuristi, nella loro opera di ordinamento della realtà sociale, si nutrono di miti. Lo ha magistralmente dimostrato alcuni anni or sono Paolo Grossi, in un’opera di grande fascino intellettuale.

    Ciò che interessa qui segnalare è che nella odierna realtà pure l’adozione è, prima che istituto, concetto giuridico attorno al quale si affolla tutta una mitologia. E la navigazione attorno ad un tale concetto deve, come in un insidioso arcipelago, muoversi pericolosamente attraverso gli scogli sporgenti dall’acqua, per giungere bene a destinazione. Fuor di metafora, la navigazione deve manovrare razionalmente tra la mitologia che l’esperienza umana ha prodotto anche in rapporto all’adozione, facendo cadere quanto risponde a fantasia o irrealistica rappresentazione della realtà, e mantenendo salvo al contrario quanto invece attinge – per dirla con Benedetto XVI – la «ragione oggettiva che si manifesta nella natura».

    Per quanto riguarda l’adozione, tre miti possono deviare il percorso di ricerca e di approfondimento; altrimenti detto: tre miti sembrano inquinare oggi il dibattito in materia.

    Il primo è il mito del sangue. Si tratta, relativamente al tema che qui interessa, del mito più antico che, per quanto oggi meno sentito e diffuso, appare talora riemergere con una certa forza. In fondo, a ben discernere, è il mito che potrebbe fraintendersi come sotteso allo stesso antico brocardo secondo cui Adoptio naturam imitatur: l’adozione imita la natura.

    Il mito del sangue è quello per cui i rapporti affettivi tra genitori e figli sono fondati sul sangue, sul rapporto biologico di discendenza-ascendenza. In realtà l’esperienza storica dimostra più che ampiamente che, se ciò corrisponde all’ordinario svolgersi dei rapporti stessi, tuttavia non sempre e necessariamente è così: per i minori abbandonati il sangue non ha detto nulla; per i minori adottati e, quindi, sottratti all’abbandono, la mancanza del sangue non ha impedito che il tutto potesse dirsi.

    Altro mito è quello dell’affetto o, meglio, dell’amore; quel mito, che come ho già avuto modo di richiamare in questa rubrica, nella nostra età appare destinato «a diventare l’altro e vero oppio dei popoli» (J. D’Ormesson).

    Questo dell’amore è il mito assai moderno che insidia, oggi, l’intero istituto matrimoniale e familiare. È la fine dell’amore a giustificare il recesso dal negozio matrimoniale; è la sussistenza dell’amore che fa reclamare il riconoscimento come matrimonio di convivenze che tali non sono.

    Ora è evidente che il matrimonio nasce ordinariamente per trasporto amoroso; altrettanto evidente è che i rapporti orizzontali e verticali nel matrimonio sono solitamente caratterizzati dall’amore. Ma l’elementum amoris – come direbbero i canonisti –, se è umanamente collante fondamentale della società domestica, è per altri versi giuridicamente irrilevante, giuridicamente sfuggente; non è quantificabile, misurabile, verificabile da parte del giudice.

    Tradizionalmente il diritto statuale in materia di matrimonio e di famiglia ha sempre evitato di riferirsi all’amore.

    Anche nel diritto della Chiesa, dopo le temperie postconciliari prodotte da non sempre bene interpretate espressioni del Concilio Vaticano II sull’amore coniugale (in particolare della cost. Gaudium et spes), si è infine dovuto precisare che il bonum coniugum di cui al can. 1055 § 1 del codice di diritto canonico del 1983, altro non è che quell’amore coniugale il quale si esprime nel volere il bene dell’altro, che entra a costituire l’oggetto del consenso matrimoniale e che naturalmente è altra cosa rispetto all’amour passion di cui alle famose pagine di Denis de Rougemont.

    L’amore al presente giustifica metamorfosi estreme e talora irrazionali della genitorialità: dalla adozione alle varie forme di procreazione medicalmente assistita. Ma anche qui, la mitologia può giungere a rendere precario il rapporto genitoriale: è figlio chi si ama, non chi si è generato; ma il vincolo genitoriale diviene esile, fino a rischiare di scomparire o di essere sostituito da altri rapporti, se l’amore viene meno.

    Infine il mito, per certi aspetti il più insidioso ed oggi in assoluto il più diffuso, del diritto al figlio, espressione di una più larga mitologia: quella della giuridificazione dei desideri.

    Secondo una dinamica che viene appalesandosi in più contesti dell’esperienza, il desiderio non rimane nell’ambito dei sentimenti, ma spinge al conseguimento di quanto bramato servendosi dello strumento dato dal diritto soggettivo. Ogni desiderio può assurgere a livello di diritto; ogni desiderio finisce per divenire un diritto e, soprattutto, un diritto forgiato a prescindere dagli altri. Di fronte a siffatto fenomeno, si è giunti a parlare di diritti insaziabili (A. Pintore).

    L’esplosione di questo fenomeno nella contemporaneità lascia pensare: per esempio che, a differenza di quanto accaduto nel passato, il positivismo giuridico sembra oggi celebrare i suoi trionfi non tanto per mezzo dello Stato, quanto piuttosto per volontà dell’individuo. Certamente si tratta di una versione nuova della ricorrente tentazione a concepire il diritto come espressione della volontà del più forte (ius quia iussum), anziché come espressione di ciò che è giusto: si chiama diritto perché giusto (ius quia iustum).

    In questa prospettiva è interessante cogliere una sorta di parallelismo con quanto accade in materia matrimoniale, per cui non è la verità oggettiva, naturale, di questo istituto, a determinarne i caratteri giuridici salienti (veritas, non auctoritas facit matrimonium), ma piuttosto la volontà del legislatore positivo di forgiare l’istituto matrimoniale a proprio piacimento (auctoritas, non veritas facit matrimonium). Ciò in quanto anche per l’adozione sembra, talora, volersi rovesciare l’antica concezione secondo cui con essa si imita la natura.

    In questo senso l’opera dei legislatori appare talora devastante; ma più ancora devastante appare talora quella di una giurisprudenza che sembra non conoscere più limiti alla propria volontà di potenza creatrice: né le leggi non scritte degli dèi – per dirla con Antigone – , cioè diremmo i principi giuridici naturali sottesi alla genitorialità; né i principi che, nel declino del giusnaturalismo, sono stati posti nelle Costituzioni e nei documenti internazionali, per ricostituire limiti al potere – legislativo o giudiziario – altrimenti a rischio di arbitrarietà.

    Con l’affermarsi delle differenti mitologie, l’antichissimo istituto giuridico dell’adozione ha perso progressivamente di identità, polverizzandosi in una pluralità di figure giuridiche. Un indicatore eloquente di ciò è dato dalle varie forme di adozione sussistenti nel nostro ordinamento: adozione piena o legittimante, adozione internazionale, adozione in casi particolari, adozione dei maggiori di età. Ma a ciò si aggiunga pure l’affidamento familiare, che adozione non è, ma che l’esperienza dimostra essere non di rado fucina di pretese per passaggi a più consistenti rapporti aventi nell’adozione il paradigma di riferimento.

    Il destino futuro dell’istituto appare, oggi, problematico. Alle pressioni crescenti per il riconoscimento della adozione da parte di uno dei componenti la coppia del figlio, naturale o adottivo, del partner (la cosiddetta stepchild adoption: adozione del figliastro) e per l’apertura dell’adozione alle coppie omosessuali legalmente riconosciute, rispondono le risposte positive dei legislatori statali e di una giurisprudenza che tende, come si è notato, a divenire creatrice del diritto. Si tratta di processi culturali, sociali e giuridici che, come accade per tutto il diritto di famiglia, anche nel caso dell’adozione sembrano incidere a fondo su quella bipolarità tra diritto e legge positiva che invece dovrebbe essere conservata, per mantenere l’orientamento della legge come strumento di giustizia e non di dominio.

    È giunto ormai il momento di aprire una riflessione su un tema che riveste un rilievo del tutto particolare nell’ambito sia del diritto di famiglia che in quello delle persone: fuori dai miti e dalle pressioni emotive; al di là e prima ancora delle tecnicalità contenute nelle norme positive. Nella consapevolezza che è in gioco, ancora una volta, una concezione del diritto quale strumento volto al perseguimento del bene comune, che è bene di ciascuno e di tutti.

    Un buon punto di partenza può essere ancora una volta la Costituzione, nel suo solido impianto – checché se ne dica – giusnaturalistico. Il riferimento è innanzitutto all’art. 30 Cost., nella parte in cui, al secondo comma, prevede che «nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti»; ma il riferimento è, poi, ai «doveri inderogabili di solidarietà [...] sociale» di cui all’art. 2 Cost. Da queste due disposizioni costituzionali si desume chiaramente la sussidiarietà dell’intervento pubblico nei compiti propri di una genitorialità venuta meno. Tale intervento costituisce espressione di quei vincoli solidaristici, oggettivamente propri al diritto quale struttura relazionale, che sono positivamente consacrati nella Costituzione, la quale guarda all’uomo inserito nella fitta trama data dalle «formazioni sociali ove si svolge la sua personalità» (art. 2 Cost.). Da questo punto di vista si potrebbe osservare che la previsione dei principi generali del diritto della famiglia nella Carta costituzionale comporta una certa rilevanza pubblicistica di questa materia (anche se, viceversa, nello svolgimento della legislazione ordinaria ne è stato accentuato l’aspetto privatistico: a partire dall’introduzione del divorzio nel 1970, che ha ridotto il matrimonio ad un contratto risolubile ad nutum di una sola parte, e dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, specie laddove ha introdotto la rilevanza della simulazione nel matrimonio e l’irrilevanza della impotenza).

    Per quanto riguarda specificamente l’adozione il diritto positivo, e soprattutto il diritto vivente, non sempre sembrano riflettere le direttive valoriali costituzionali. La cennata frammentazione dell’istituto in una pluralità di discipline differenti tradisce differenti stagioni culturali e l’oscillare del diritto positivo e dell’esperienza giuridica tra estremi opposti e, talora, inconciliabili; una oscillazione che, non è inutile notarlo, viene meno nel caso delle forme di genitorialità surrogata, dove la protezione accordata dall’ordinamento appare ormai concentrarsi su di un’unica polarità: il soggetto committente.

    Il fatto è evidentissimo nel caso della fecondazione eterologa, esclusa dalla legge 19 febbraio 2004, n. 40, ma legittimata dalla sentenza della Corte Costituzionale 9 aprile 2014-18 giugno 2014, n. 162. Al riguardo, giova ripetere in questa sede che giustamente la legge n. 40 non aveva ammesso la procreazione eterologa. In questa pratica, infatti, gli interessi che chiedono tutela sono molteplici e quasi sempre confliggenti tra di loro. A partire dall’interesse della donna sposata senza figli, che deve comunque essere composto con l’altro, non necessariamente confliggente ma anche non necessariamente convergente, del marito: a fronte delle tutele che l’ordinamento predispone in tema di paternità, l’esperienza dimostra come si insinui talora il ragionevole dubbio che, nonostante il consenso previamente prestato alla inseminazione eterologa, questo sia stato dovuto non ad una volontà liberamente formatasi, ma condizionata dalla situazione ambientale e dai rapporti fra i coniugi, da tensioni psicologiche nella coppia quando non addirittura da una sorta di ricatti morali, piuttosto che all’instabile muoversi dell’animo umano.

    Di fronte alle due diverse posizioni della moglie e del marito, che pure possono esprimere interessi diversi, è l’intuibile interesse del donatore di seme all’anonimato. Come dimostra l’esperienza maturata in ordinamenti stranieri, la garanzia dell’anonimato è condizione stessa per la possibilità di pratiche di inseminazione eterologa, giacché la donazione di seme è normalmente ottenibile solo a fronte dell’esonero dei donanti da qualsivoglia, futura responsabilità genitoriale.

    Infine c’è la pluralità di interessi di chi così è stato chiamato alla vita, e che non possono non considerarsi come preminenti: come l’interesse ad avere un padre ed una madre, e quindi a vedere riconosciute le responsabilità genitoriali del marito della madre; l’interesse a non essere discriminato (per esempio in relazione all’accertamento della paternità) in ragione della condizione personale scaturente dalle modalità di venuta al mondo; o ancora l’interesse all’accertamento della paternità biologica (con evidente conflitto con l’interesse del donatore di seme all’anonimato). Un interesse, quest’ultimo, che può entrare in rilievo per una pluralità di ragioni meritevoli di garanzia: come la ragione giuridica, in ordine alla certezza degli status; quella economica, ad esempio per rapporto ai profili del mantenimento o successori; quella psicologica, attinente ai processi di formazione dell’io; quella più propriamente sanitaria che ad esempio, nella prospettiva della moderna medicina preventiva, può vedere nella conoscenza del patrimonio genetico dei genitori un elemento essenziale ad una diagnostica predittiva.

    Ma torniamo all’adozione. Anche qui non è difficile scorgere come il diritto positivo e la giurisprudenza, di merito e di legittimità, e persino quella costituzionale, tendano ad appiattirsi in una mera concezione privatistica di un diritto proprietario o, nella migliore delle ipotesi, di un diritto individualistico alla salute – messa in pericolo da una impossibile filiazione naturale – che, in verità, a fatica si riesce a ricondurre all’art. 32 Cost.

    Ed invece è proprio guardando a Costituzione che occorrerebbe riassettare l’istituto giuridico dell’adozione, tenendo ben presenti tre precise polarità: il primato dell’interesse dell’adottando, non dell’adottante; il primato delle motivazioni solidaristiche, non di quelle individualistiche; il primato del rilievo pubblicistico dell’istituto, e non la sua riduzione a mero

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