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Battle Mage: L'eredità di Falco
Battle Mage: L'eredità di Falco
Battle Mage: L'eredità di Falco
E-book570 pagine7 ore

Battle Mage: L'eredità di Falco

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Info su questo ebook

Il mondo sta cadendo sotto l’ombra ardente dei Posseduti e solo il potere di un Mago guerriero può salvarlo.
Ma l’antico legame con la razza dei draghi sta venendo meno. Di quelli che rispondono alla convocazione, troppi sono Draghi Neri e i Draghi Neri sono i nemici dell’umanità. I Draghi Neri sono pazzi…
Falco, l’unica persona che potrà salvare il mondo dalla catastrofe, è un debole in un mondo di guerrieri, ma peggio ancora è figlio di un pazzo. Spinto dal dolore per avere inconsapevolmente permesso a un’orda di demoni di distruggere il suo villaggio, Falco prende una decisione che lo porterà sull’orlo della disperazione.
Nell’estremo tentativo di fare ammenda, il ragazzo decide di seguire i suoi amici all’Accademia della Guerra, una scuola d’élite dedicata all’eccellenza marziale. Ma mentre gli amici fanno progressi, Falco è ancora incerto. Anche la Regina dubita di lui… Ma, mentre quest’ultima cerca di unire i regni contro i Posseduti, Falco combatte contro le sue paure...
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita15 mag 2023
ISBN9788834436608
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    Anteprima del libro

    Battle Mage - Peter Flannery

    RINGRAZIAMENTI

    Un grazie con tutto il mio amore a mia moglie Julie,

    capace di individuare i miei tanti errori

    e implacabile nell’ammonirmi

    quando comincio a divagare.

    I miei libri sono migliori grazie a te.

    Grazie a Kervin Arms, Judith Coulson, Fiona Seaton,

    Lisa Smith e Megan Nagle (autrice di Azurite).

    Siete stati così gentili da leggere questo libro

    prima della pubblicazione e così coraggiosi

    da darmi il vostro parere.

    Grazie a Rob Miller, il Mastro Fabbro di Skye.

    Spero di avere reso giustizia alla forgiatura di una spada.

    Prologo

    Il cavaliere si pulì gli occhi dal sangue e dalle lacrime del fallimento. Fece girare il cavallo e sollevò la visiera per osservare il campo. Ovunque nella vallata le forze illice cadevano allo stremo.

    La battaglia era persa.

    Le lacrime del cavaliere avevano un sapore amaro sulla lingua. Avrebbero dovuto essere in numero sufficiente per sconfiggere l’esercito dei Posseduti, avrebbero dovuto prevalere, ma non avevano tenuto in conto il demone. Era rimasto nascosto fino all’ultimo istante, quando ormai era troppo tardi per richiedere la presenza di un mago guerriero.

    No. Quella era la loro battaglia, e avevano perso.

    Non provava vergogna, perché pochi potevano mantenere le posizioni in presenza di un simile nemico. Eppure lo avevano fatto. Per quasi un’ora i soldati di Illicia avevano resistito senza cedere terreno. Ma ora la fine era vicina.

    Dalla sommità della collina abbassò lo sguardo sul nemico. Il demone torreggiava sui guerrieri umani dei Posseduti, un essere dai poteri sovrannaturali e una forza infernale. Il cavaliere sapeva di non poterlo uccidere. Ormai non gli restava che una speranza: morire presto, prima di soccombere alla paura. Con un ultimo sforzo di volontà spronò il cavallo, augurandosi che il coraggio non lo abbandonasse prima della fine. Ma mentre cavalcava verso la morte non era a sé che pensava, bensì alle genti che non avevano saputo difendere. L’esercito dei Posseduti aveva sfondato le difese illice. Sarebbe avanzato verso le montagne dove sarebbe stato difficile inseguirlo. Avrebbe evitato le forze di Clemoncé e si sarebbe invece diretto verso il regno di Valentia.

    Quest’ultimo un tempo era stato famoso per il coraggio e l’abilità dei suoi guerrieri ma nel corso delle ultime generazioni la sua reputazione era andata scemando. Mentre lanciava alla carica il destriero, il cavaliere si chiese se restasse ancora qualcosa dell’antica grandezza.

    Si augurò che fosse così.

    Per il bene di tutte le loro anime, si augurò che fosse proprio così.

    PARTE prima

    LA ROVINA

    1

    Il figlio della pazzia

    Nell’estremo nord di Valentia il sole stava sorgendo sulla città montana di Caer Dour. L’aria era fredda e frizzante e la pietra chiara degli edifici scintillava alla luce del mattino. Il ritmico martellare del fabbro risuonava al di sopra del muggito delle vacche e del belato delle capre. L’odore del letame dalle stalle si mischiava a quello del pane appena sfornato e al fumo di migliaia di camini appena accesi.

    Sembrava una mattina come tante altre. Non c’era evidenza di paura e niente che lasciasse supporre che la città fosse in pericolo. Al contrario, si respirava una certa eccitazione perché quello era il giorno delle prove, una giornata particolare in cui gli abitanti di Caer Dour esibivano le loro abilità nel combattimento davanti all’inviato della regina.

    Era ancora presto ma c’era già gente nelle vie lastricate, uomini e donne diretti verso il confine occidentale della città dove la strada per Clemoncé si inerpicava sulla ripida collina. Era da lì che sarebbe giunto l’emissario della corte di Wrath.

    Ogni due anni copriva la distanza da Clemoncé, la capitale, per vedere il meglio che Caer Dour aveva da offrire. Coloro che superavano brillantemente le prove tornavano con lui per essere addestrati all’Accademia della Guerra di Wrath. Era sempre un momento di grande agitazione e fermento e quell’anno lo era ancora di più. Infatti, l’inviato riportava a casa uno dei loro che aveva concluso l’addestramento. E non era un cavaliere o uno spadaccino qualsiasi, bensì un mago guerriero, il primo che Caer Dour avesse prodotto negli ultimi quarant’anni, e il suo arrivo non poteva essere più tempestivo.

    Nemmeno due settimane prima, le pattuglie al confine avevano segnalato che un esercito ferociano aveva sfondato le difese illice ed era entrato in Valentia. Dopo avere devastato numerosi villaggi, ora era a pochi giorni di marcia dalla città. Un demone avanzava in testa ai Posseduti, e senza un mago guerriero, l’esercito cittadino non avrebbe avuto nessuna possibilità di fermare il nemico. Ma quel giorno il loro campione sarebbe tornato a casa e la gente di Caer Dour non aveva un briciolo della paura che forse avrebbe dovuto avere. E così tutti si erano alzati presto e ora erano pronti per lo spettacolo. La gente avanzava sulla collina e si sporgeva dalle finestre, sperando di avvistare l’inviato della regina.

    In una villa ai margini della città, due giovani si erano spinti anche oltre, arrampicandosi sul tetto dalle maioliche rosse. Uno era Malaki de Vane, il figlio del fabbro, un ragazzone alto dai folti capelli castani e una voglia rossa sul lato inferiore sinistro del viso. L’altro era alto quasi quanto lui ma magro e gracile con flosci capelli neri e una carnagione spenta, malaticcia. I lineamenti del viso erano piuttosto gradevoli ma le guance erano scavate e scarne. Il suo nome era Falco Danté e l’unico dettaglio in lui che sapeva di forza era il colore degli occhi, che erano di un verde brillante e vivace.

    «Attento, Falco. Finirai per cadere!».

    «Voglio solo vedere», replicò Falco mentre avanzava verso la sommità del tetto.

    «Da qui vedremo più che bene. Vieni qua che è più sicuro». Malaki scosse la testa per l’incoscienza dell’amico. «Se cadi, io non ti prendo!».

    «Sì che mi prendi», ribatté Falco con un sorriso. Sapeva che l’amico non l’avrebbe mai lasciato cadere.

    Malaki ricorse a un’altra tattica.

    «Finirai per rompere le maioliche», insistette. «E Simeon vorrà la tua pelle».

    Simeon le Roy era il proprietario della dimora sulla quale si erano arrampicati. Falco prestava servizio presso di lui da quasi quattordici anni, dalla morte del padre.

    «Le maioliche sono a posto», affermò. «Non sono un imbranato ciccione come te».

    «Be’, non te la prendere con me se ti beccherai una buona dose di legnate».

    «Simeon non mi picchierebbe mai», ansimò Falco issandosi a cavalcioni sulla sommità del tetto. Le braccia gli tremavano per lo sforzo e il respiro gli strideva rumorosamente nel petto.

    «E invece dovrebbe», ribatté Malaki. «Non ho mai conosciuto un servo che avesse una vita così facile».

    Parole, in realtà, ben lontane dalla verità. Una vita facile era proprio ciò che Falco Danté non aveva. Era un mingherlino, un malaticcio in un mondo di guerrieri e, peggio ancora, era il figlio di un pazzo squilibrato.

    «Allora?» domandò Malaki impaziente.

    «Allora cosa?».

    «Vedi qualcosa?».

    Il suo respiro era sempre più faticoso; l’aria fredda del mattino non gli faceva bene ai polmoni ma ciononostante sorrise.

    «Tutto fino alla roccia spezzata», informò l’amico.

    «Resta lì», disse Malaki. «Ti raggiungo».

    Nonostante la stazza, Malaki si arrampicò sul tetto spiovente con sorprendente agilità e in un baleno fu seduto dietro a Falco nel punto più alto dell’edificio. Entrambi volsero lo sguardo verso un enorme masso spaccato, dove il sentiero pietroso girava intorno alla collina.

    «Credi che verrà con i maghi?» domandò Malaki riferendosi all’emissario.

    «Ne porta sempre uno», replicò Falco con noncuranza. «Vorranno esaminare i futuri allievi».

    «È ovvio, questo lo so!» ribatté Malaki. «Ma credi che ne porterà di più? Magari ci sarà una convocazione».

    «Chi lo sa?» mentì Falco. Cercò di sembrare disinteressato ma la verità era che sapeva che sarebbero arrivati anche i maghi. Per qualche ragione sapeva che ci sarebbe stata una convocazione.

    «Spero che li porterà», proseguì Malaki. «Te lo immagini? Non un semplice mago guerriero, ma un mago guerriero con un drago. L’esercito ferociano non avrebbe alcuna possibilità di vittoria».

    «Non abbiamo bisogno di un drago per sconfiggere i Posseduti», affermò Falco. «Basterà Darius».

    Tutti sapevano come andavano le cose. Un esercito ben addestrato aveva buone possibilità di batterne uno di Posseduti ma se questi ultimi erano guidati da un demone, allora una normale armata non avrebbe avuto alcuna possibilità. I soldati sarebbero stati sopraffatti dalla paura. Soltanto con un mago guerriero potevano sperare di avere la meglio.

    Non erano solo l’abilità nel combattimento e i poteri antichi di un mago guerriero a fare la differenza, ma era soprattutto la presenza della sua anima, un faro di fede, una chiave di volta che sosteneva il coraggio di cui aveva bisogno l’uomo comune. Un mago guerriero era un potente alleato su cui contare; ma un mago guerriero con un drago, be’, quello era una vera forza della natura.

    «Ma non ti piacerebbe vedere un drago?» insistette Malaki. «Almeno una volta».

    «No», tornò a mentire Falco. Lui e Malaki erano amici da sempre ma nessuno doveva sapere quanto lui desiderasse vedere un drago, perché nessuno doveva sospettare ciò che intendeva fare.

    Malaki guardò la schiena gracile dell’amico, le spalle cadenti, la testa bassa.

    «A causa di tuo padre?» chiese in tono pacato.

    Falco si limitò ad annuire. Se la sua mancanza di interesse era una finta, la vergogna che provava al solo nominare il padre non lo era. I due ragazzi restarono in silenzio, mentre i raggi del sole scivolavano sul tetto.

    «Ma dove sono?» si chiese Malaki. «Il sole ormai è alto. Dovrebbero essere già qui».

    Falco non commentò, mentre l’ombra del disagio lentamente abbandonava la sua mente.

    «Non capisco perché io sia così eccitato», proseguì Malaki. «Non è che debba competere per un posto all’accademia.»

    «Combatterai nella mischia, corpo a corpo, e sei il favorito per la vittoria», gli ricordò Falco girando appena il viso. «Forse ti consentiranno di presentarti per l’accademia».

    «Sì, quando i maiali mi usciranno dal culo», affermò Malaki.

    Falco scoppiò a ridere per la modestia dell’amico. Per quanto lo riguardava, era convinto che non ci fosse cadetto nell’intera regione che potesse eguagliare l’abilità di Malaki con la spada.

    «Immagina di poter combattere nelle prove», mormorò Malaki. «Essere presentato alla regina Catherine alla corte di Wrath».

    Falco fu felice che Malaki non potesse vederlo in viso. Sulle sue labbra c’era un sorriso determinato e un’ardente luce verde gli illuminava lo sguardo. Maledetti i maghi e le leggi sulle nobili origini. Se le cose fossero andate come lui aveva pianificato, Malaki avrebbe avuto la possibilità di fare colpo sull’emissario della regina. Ma non voleva ancora scoprire le carte e stava per cambiare discorso quando un grido di dolore li fece girare entrambi verso la casa.

    «Che cosa accidenti era?» domandò Malaki.

    Falco non rispose. Restò in attesa.

    Un altro grido emerse dalla dimora. Un grido di paura che si trasformò in un gemito inquietante. Malaki restò impietrito ma Falco sollevò la gamba oltre la sommità del tetto e cominciò a scendere.

    «Chi è?» chiese Malaki quando raggiunse l’amico nella parte più bassa del tetto.

    «È Simeon», rispose Falco, avanzando lungo un corto canale di scolo prima di superare le grondaie verso una veranda all’estremità opposta della villa.

    «Dove stai andando?».

    «Voglio solo assicurarmi che stia bene».

    «Ma non vedremo l’inviato».

    «Voglio solo accertarmene», affermò Falco.

    Malaki sollevò gli occhi al cielo, poi seguì l’amico. Mentre i due ragazzi si arrampicavano sulla veranda e sbirciavano attraverso le aperture negli scuri, i gemiti divennero ringhi e poi sussurri.

    «Che cos’ha?» chiese Malaki.

    Falco osservò la figura nella penombra.

    Simeon le Roy giaceva scompostamente sul letto, attorcigliato nelle coperte. L’anziano si contorceva, tremava e sussurrava parole che nessuno di loro due riuscì a capire. I gemiti e le grida erano inframezzati da ringhi feroci, come se l’uomo fosse stato impegnato in una lotta.

    «Sta sognando», spiegò Falco.

    «Grande madre!» esclamò Malaki. «Ma cosa sogna?».

    «L’inferno».

    Malaki sentì un brivido di paura corrergli lungo la schiena ma gli occhi di Falco si socchiusero appena mentre la vista della sofferenza di Simeon risvegliava lo spettro dei suoi terrori notturni.

    Non avrai mai il coraggio.

    Non avrai mai la forza.

    La voce beffarda echeggiò nella mente di Falco, mentre il mondo sembrò oscurarsi intorno a lui.

    «Dovremmo svegliarlo?» domandò Malaki, strappando Falco ai suoi incubi.

    «No», rispose. «Starò qua ad aspettare con lui. Gli passerà».

    Malaki lanciò un’occhiata all’amico. C’era qualcosa nella voce di Falco, qualcosa che aveva già sentito molte altre volte, una sorta di maturità, un’intensità che lo faceva sentire come se non conoscesse affatto il suo amico.

    «Sogna sempre così?».

    «No», rispose Falco. «Alcune notti sono peggiori di altre».

    «Non si può fare niente?».

    L’altro scosse la testa. «È la maledizione di un mago guerriero», spiegò, «ma anche la sua forza. Quando quelli come lui incontrano un demone sul campo di battaglia, non provano la paura che invece assale gli altri uomini».

    «Perché no?».

    «Perché per loro non è niente di nuovo. La conoscono fin dai loro sogni di bambini».

    Malaki avrebbe voluto saperne di più ma sapeva che non era il caso di subissare Falco di domande. Simeon era stato un mago guerriero per molti anni, impegnato a combattere i Posseduti quando il nemico era ancora una minaccia vaga e distante. Ma il suo lungo servizio nei regni di Wrath era terminato all’improvviso circa quattordici anni addietro, quando il padre di Falco aveva perso la ragione e ucciso metà dei maghi della città.

    Lo sguardo di Malaki restò sull’amico ancora qualche istante, prima di riportarlo sulla fessura nello scuro e guardare un vecchio lottare con i tormenti dell’inferno.

    Una campana risuonò di colpo ed entrambi i ragazzi trasalirono.

    «È qui!» esclamò Malaki, arrampicandosi sulla balaustra e ripercorrendo i suoi passi lungo la grondaia fino a raggiungere rapidamente la sommità del tetto. «Lo vedo!» gridò. «E anche Darius!».

    Falco guardò l’amico e sorrise ma quando tornò a sbirciare attraverso gli scuri, Simeon non si contorceva più nel sonno. Era seduto sul letto disfatto, il viso girato verso la finestra dietro la quale era accucciato Falco. Un raggio di sole lo illuminò, svelando un volto orribilmente deturpato. La pelle era segnata da cicatrici e ustioni, e la luce gettava ombre nere nelle orbite vuote dei suoi occhi.

    Simeon le Roy era cieco.

    «L’aria fredda del mattino sarà la tua rovina, Falco Danté».

    Falco sorrise alle parole di dolce rimprovero del padrone.

    «E togliti quel sorriso dalla faccia, marmocchio scheletrico!».

    Il sorriso si allargò. Simeon poteva anche avere perso la vista, ma vedeva ancora molto più di tanti altri. Qualsiasi traccia di paura e vulnerabilità svanì quando l’ex mago guerriero si alzò e infilò il corpo robusto in una vestaglia. Spinse indietro i lunghi capelli grigi e li legò con un nastro di seta. Era anziano, oltre i sessant’anni almeno, ma nonostante un’evidente zoppia e una certa rigidità degli arti, possedeva ancora il portamento del guerriero. Raggiunse la finestra e aprì gli scuri.

    «Quanti maghi, mastro de Vane?» gridò con voce possente.

    Né Falco né Malaki restarono sorpresi dalla sua domanda. Non tutti i poteri di un mago guerriero dipendevano dal dono della vista.

    «Un attimo!» urlò in risposta Malaki, appollaiato sul tetto. «C’è un banco di nebbia che copre la visuale».

    «Quattro», sussurrò appena Falco, convinto che nessuno lo avesse sentito. Ma non scorse la testa di Simeon girarsi verso di lui, né la fronte sfregiata aggrottarsi.

    Scese il silenzio mentre Malaki aspettava che la nebbia si diradasse. E poi… «Quattro», gridò. «Ci sono quattro maghi!».

    Il ragazzo sembrava deluso ma Simeon annuì.

    «Mmm…». Un suono che fu come un basso brontolio nella sua gola. «Con i tre giunti da Caer Dour arriviamo a sette. A quanto pare, alla fine ci sarà una convocazione».

    Falco cercò di soffocare qualsiasi reazione alle parole di Simeon. Restò immobile e impassibile, ma dentro di lui era così eccitato che ebbe un capogiro. Quella notte, finite le prove, Darius Voltario avrebbe cercato di evocare un drago e lui, Falco, sarebbe stato là ad assistere.

    2

    L’equilibrio dell’amicizia

    «H a portato solo quattro maghi», commentò Malaki quando raggiunse Falco e Simeon sulla veranda.

    «Buongiorno, Malaki», lo salutò Simeon.

    «Buon giorno, mastro le Roy», ricambiò Malaki in tono impacciato. Arrampicarsi sulla casa di un nobile nelle prime ore del giorno forse non era la cosa più corretta da fare, ma Simeon era diverso da tutti gli altri nobili. Lui era alla mano, quasi normale. In qualsiasi altro momento Malaki si sarebbe contenuto maggiormente, ma spinto dall’eccitazione della giornata non riuscì a trattenersi. «Perché solo quattro?» domandò. «Pensavo che ne avrebbe portati sette per arrivare a dieci».

    Simeon si girò verso Falco invitandolo a rispondere, ma il ragazzo evitò di guardare il suo padrone.

    «Se la preparazione è corretta, bastano sette maghi per sottomettere un drago», spiegò Simeon.

    «Sottomettere?» ripeté Malaki. «Pensavo che i draghi stessero dalla nostra parte. Perché dovremmo volerli sottomettere?».

    Simeon tornò a guardare Falco, che tuttavia continuò a dimostrarsi indifferente alla conversazione in corso.

    «La maggior parte dei draghi darebbe la vita per il proprio mago guerriero e per i popoli liberi di Wrath», disse Simeon.

    «E quindi dov’è il problema?».

    «Il problema, mastro de Vane, è che c’è sempre la possibilità che alla convocazione risponda un drago nero».

    «E che cos’ha di speciale un drago nero?» Malaki era affascinato. Non aveva mai conosciuto nessuno che parlasse così apertamente dei draghi.

    «Indipendentemente dal loro colore di partenza», spiegò Simeon, «tutti i draghi alla fine diventano neri. E quelli neri sono i più anziani e potenti».

    «E non è un bene?» insistette Malaki.

    «Lo sarebbe se non fosse per un particolare».

    «E quale?».

    «I draghi neri sono pazzi, squilibrati. Invece di combattere fino alla morte per salvare una vita umana, un drago nero si rivolta contro gli uomini, uccidendo a casaccio fino a quando non viene ucciso a sua volta o non vola via al di là del Mare Infinito».

    Malaki spalancò la bocca per la sorpresa e guardò Falco come per dire: «Tu lo sapevi?».

    Quest’ultimo non prestò attenzione alla silenziosa domanda dell’amico. Si appoggiò al parapetto che circondava la veranda e lasciò vagare lo sguardo sulla città. A differenza di Malaki, non apprezzava quella lezione sulla natura dei draghi.

    «È così che vanno le cose fin dalla Grande possessione», proseguì Simeon, «quando i draghi vennero sopraffatti dal Male. Pare che qualcosa di quella sopravviva nel cuore di un drago nero».

    Malaki era attonito.

    «Di che colore era il drago che rispose alla vostra convocazione?» chiese.

    Simeon sbuffò appena. «Non tutti i maghi guerrieri sono destinati a combattere con un drago al loro fianco».

    Malaki apparve deluso. Restò in silenzio quasi a cercare di elaborare ciò che aveva appena appreso. Infine si rivolse a Falco.

    «È questo che è accaduto a tuo padre?» chiese. «Ho sentito dire che il suo drago era nero».

    Aveva appena pronunciato quelle parole che Malaki capì di avere superato il limite. Falco si allontanò ed entrò nella stanza di Simeon. Aveva appena superato la soglia quando Simeon lo bloccò.

    «Falco!».

    Il ragazzo si fermò ma non si girò.

    «Quella è la mia stanza, Falco Danté». Anche Simeon parlò senza voltarsi e gli occhi di Malaki sfrecciarono da una schiena all’altra. «Puoi andartene da dove sei venuto. E stai attento alle libertà che ti prendi nella mia proprietà».

    Falco non replicò ma tornò sulla veranda e cominciò ad arrampicarsi oltre il parapetto.

    «Questa mattina, per colazione, prenderò pane e frutta insieme al vino», proseguì Simeon nello stesso tono perentorio.

    Falco stava per allontanarsi lungo la grondaia e verso la finestra da dove lui e Malaki si erano arrampicati sul tetto. Ma si fermò. «Sì, padrone», replicò in tono pacato.

    Simeon annuì con un gesto del capo e Falco proseguì.

    «E Falco», aggiunse Simeon, con voce più indulgente. «Quando avrai finito, di’ a Fossetta di preparare un infuso. Sembri un vecchio mulo avvizzito. Alle prove non sarai utile a nessuno se resterai confinato a letto a tossire come un povero tisico».

    A quelle parole, Malaki guardò inorridito Simeon e poi con espressione d’accusa l’amico. Infine borbottò qualcosa e seguì Falco, che raggiunse mentre quest’ultimo scompariva attraverso la finestra.

    «A chi dovresti essere utile? Che cosa voleva dire?» domandò Malaki saltando oltre la finestra e afferrando Falco per la spalla, prima che quest’ultimo si allontanasse.

    L’espressione colpevole di Falco bastò come risposta.

    «Ho pagato un sacco di soldi per assicurarmi che tu non dovessi servire nessuno alle prove!».

    «Ti darò indietro i soldi», replicò Falco. Si scrollò di dosso la mano di Malaki e cominciò a scendere le scale verso gli alloggi della servitù.

    «Non capisco», proseguì Malaki, raggiungendolo. «Bellius sarà nel suo elemento. È probabile che vorrà sfruttarti come esempio».

    «Lo so», affermò Falco, spingendo la porta che portava in cucina.

    Grazie ai suoi legami con la famiglia reale, sia a Caer Laison sia a Wrath, Bellius Snidesson era il nobile più potente della regione. E quello più sgradevole. Oltre a rendere la vita del prossimo un inferno, c’erano solo tre cose che importavano a Bellius: la ricchezza, il potere e il successo del suo unico figlio, Jarek, un ragazzo crudele e viziato che aveva pestato Falco così tante volte da averne ormai perso il conto. Persino l’avanzata di un esercito ferociano aveva offerto al nobile l’occasione perfetta per consolidare il suo potere e Malaki era sicuro che proprio quel giorno, più di ogni altro, Bellius sarebbe stato ancora più insopportabile. Così fu con stupore e irritazione che seguì l’amico in cucina.

    Una ventata di aria calda li avvolse quando entrarono nella grande stanza dalle pareti di pietra. Gli odori famigliari di carne cotta, aglio ed erbe fecero venire loro l’acquolina. Una parete era dominata da un grande camino aperto sormontato da paioli in rame e utensili da cucina. Accanto al fuoco si trovava una stufa di ferro nera davanti alla quale lavorava una donna paffuta, con i capelli grigi raccolti sotto un fazzoletto bianco.

    «E allora, li avete visti?» domandò Fossetta.

    La governante di Simeon non sollevò lo sguardo dalle casseruole quando i due ragazzi entrarono nella stanza.

    «Buongiorno, madama Pieroni» salutò Malaki. «Sì, li abbiamo visti».

    Era chiaro che entrambi i ragazzi erano distratti, ma l’assenza di una risposta da parte di Falco spinse Fossetta a sollevare lo sguardo e a seguirlo con gli occhi verso la dispensa.

    «Buongiorno, Malaki», rispose mentre guardava Falco disporre alcuni frutti e del pane su un piatto di peltro. «Quanti maghi si è portato l’emissario?».

    «Quattro», disse Malaki. Il ragazzone si era accomodato al tavolo di quercia al centro della stanza, su cui aveva adocchiato un piatto con pane e salsiccia.

    Fossetta tolse le casseruole dal fuoco. Si pulì le mani sul grembiule mentre si avvicinava al tavolo e infine fece scivolare verso Malaki un coltello e un piatto.

    «E così, alla fine ci sarà una convocazione», affermò mentre Malaki le sorrideva in segno di ringraziamento.

    Quest’ultimo sospirò, tagliando un pezzo di pane e di salsiccia, e mettendoseli nel piatto. «Ma sono l’unico in città a non sapere niente di draghi?».

    Fossetta posò davanti a lui una coppa di peltro che riempì di acqua vuotandola da una caraffa.

    «Quando fai la governante di un mago guerriero da vent’anni, alla fine qualcosa impari».

    Falco si era estraniato dalla conversazione ma, con la coda dell’occhio, Fossetta lo osservò posare una caraffa di vino accanto al piatto e versare in una brocca dell’acqua fumante da un pentolone accanto al fuoco.

    «’Giorno, Falco», lo salutò.

    «’Giorno Fossetta».

    Falco poteva anche essere di cattivo umore ma non era mai apertamente scortese. Fossetta era ciò che di più vicino a una madre avesse mai conosciuto. Il ragazzo riportò la brocca con l’acqua calda sul tavolo, ma alla governante non era sfuggito il suo respiro sibilante. Avvicinatosi a lui, gli posò una mano sulla fronte e l’altra tra le scapole.

    «Respira», gli ordinò.

    Falco sollevò gli occhi al cielo e inspirò profondamente.

    «Mmm…». Fossetta non era affatto soddisfatta di ciò che aveva sentito.

    «Siediti», gli ordinò.

    «Ma il padrone...» cominciò Falco.

    «Ci penso io al padrone».

    Spinse Falco su una sedia e riempì un recipiente con l’acqua di un bollitore appeso sul fuoco. Poi, da uno scaffale, prese una bottiglia di erbe tritate e ne rovesciò una decina di cucchiai nell’acqua. La stanza venne subito pervasa dal profumo deciso di lavanda, eucalipto e camomilla. Fossetta recuperò un largo canovaccio da uno stendibiancheria e poi, dopo avere invitato Falco a chinarsi sul recipiente di acqua bollente, gli coprì la testa con quello.

    «Assicurati che resti lì fino al mio ritorno», raccomandò a Malaki.

    Con la bocca piena di pane e salsiccia, Malaki annuì, poi la governante prese la brocca di acqua calda, il vino, il piatto di cibo e lasciò la stanza.

    Calò il silenzio.

    Gli unici rumori erano quelli prodotti dalle mandibole di Malaki mentre masticava e il lento ansimare del respiro di Falco.

    «Scusami, so di essere irritabile». La voce di Falco era smorzata dal canovaccio.

    In risposta, Malaki mise un po’ di cibo su un piatto e lo spinse verso Falco. Fu divertente vedere la mano dell’amico muoversi a tentoni alla ricerca di un pezzo di pane, per poi sparire sotto lo strofinaccio.

    «Continuo a non capire perché vuoi lavorare alle prove», affermò Malaki. «Il padiglione pullulerà di nobili».

    «Ho i miei motivi», riuscì a bofonchiare Falco tra un boccone e l’altro.

    «A volte sei proprio un insopportabile bastardo», lo accusò Malaki.

    Falco sollevò il canovaccio per guardare l’amico.

    «Lo so». E sorrise.

    Malaki scosse la testa e ricambiò il sorriso e poi, con un gesto della mano, indicò a Falco di tornare sotto lo strofinaccio. I due restarono in silenzio per un po’, prima che Falco parlasse di nuovo.

    «Rosso», disse. «Il drago che rispose alla convocazione di mio padre era rosso».

    Malaki inghiottì il boccone e Falco continuò.

    «Dicono che fin dall’inizio era scuro. Scarlatto, come il sangue che scorre da una vena».

    Falco drizzò la schiena, spingendo indietro il canovaccio dalla testa, mentre Malaki tratteneva il fiato. Di tutte le cose di cui avevano parlato, quello era un argomento che non avevano mai toccato.

    «Con il passare degli anni, mentre il colore diveniva più scuro, i maghi osservavano», continuò Falco. «Simeon sostiene che mio padre conoscesse la verità. Sapeva che qualora il suo drago fosse diventato nero, non avrebbe avuto altra scelta se non ucciderlo. Sostiene che anche i draghi sanno ciò che deve accadere e che si dirigono spontaneamente verso la loro morte».

    «Ma che cosa accadde?» domandò Malaki in tono pacato.

    «Nessuno lo sa», rispose Falco. «Dicono che a mano a mano che il colore cambiava, mio padre diventava sempre più chiuso e distante. Trascorreva sempre più tempo nelle Terre Dimenticate a caccia di Posseduti. Da solo. Non aveva nessun esercito; erano solo lui e il suo drago».

    Malaki aspettò che l’amico proseguisse. Aveva sentito frammenti della storia, ma nessuno sembrava volerne parlare. Era un capitolo del passato di Caer Dour che la gente sembrava voler dimenticare.

    «Divenne sempre più rabbioso e la sua rabbia portò al conflitto».

    «Conflitto con chi?».

    «Con i maghi. Mio padre divenne sempre più irragionevole, instabile». Falco pronunciò l’ultima parole come se stesse citando qualcun altro. «Infine il suo drago divenne nero».

    «E i draghi neri sono pazzi», aggiunse Malaki e Falco annuì.

    «I maghi lo imprigionarono. Ma invece di aiutarli a ucciderlo, mio padre si schierò con il drago».

    Malaki guardò negli occhi verdi e febbricitanti di Falco.

    «Uccise sei maghi e quattro dei migliori cavalieri della città», spiegò quest’ultimo. «Alla fine fu Simeon a eliminarlo».

    «Pensavo che Simeon e tuo padre fossero amici».

    «Lo erano». Lo sguardo di Falco non era più su Malaki. Era perso nel passato, un passato che non ricordava, un passato che gli era sempre stato solo raccontato. «Il drago riuscì a sputare un’ultima sfera di fuoco prima di essere ucciso».

    «E colpì il viso di Simeon», sussurrò Malaki e Falco annuì.

    «I maghi rimasti in vita lo salvarono, ma il fuoco del drago gli spense gli occhi per sempre».

    Anche Malaki fissava il vuoto mentre immaginava la terribile scena. Poi tornò a guardare l’amico.

    «E tu sei stato obbligato a servirlo in pagamento dei crimini di tuo padre».

    «Qualcosa del genere», confermò Falco, asciugandosi il vapore dal viso.

    Prima che potessero aggiungere altro, la porta si aprì e Fossetta entrò in cucina.

    «Pensavo di averti detto di stare sotto lo strofinaccio», sgridò Falco.

    Raggiunse una cassettiera su un lato della stanza e prese un piatto di ceramica bianca, poi raggiunse Falco e glielo mise sotto il mento.

    «Sputa!» ordinò.

    Falco sospirò ma Fossetta insistette. Poi, con evidente disgusto di Malaki, raschiò con la gola e sputò nella ciotola. Fossetta osservò l’espettorato e scosse la testa.

    «Torna sotto», gli intimò.

    Falco sapeva che era inutile opporre resistenza. Rivolse a Malaki un breve sorriso per dirgli che tutto era a posto tra loro e poi scomparve sotto il canovaccio.

    «Non dovresti aiutare tuo padre?» chiese Fossetta al ragazzone, cominciando a picchiare la schiena di Falco con colpi ritmici e regolari. «Ora che l’esercito è stato mobilitato, avrà il suo da fare».

    «Ha detto che potevo vedere l’arrivo dell’inviato», replicò Malaki.

    «Be’, adesso l’hai visto. E sono sicura che a tuo padre farebbe comodo una mano».

    «Ma vogliamo vederlo in città», intervenne Falco.

    «Potremmo avere l’occasione di parlargli», aggiunse Malaki.

    «Voi due siete abbastanza grandi per sapere come funziona», replicò Fossetta. «Romperà il suo digiuno con i nobili e i maghi e poi andrà direttamente alle prove. Percorrerà le vie della città solo nel tardo pomeriggio. E se dovesse esserci una convocazione, be’, forse nemmeno allora».

    «Immagino tu abbia ragione», convenne Malaki. Pulì il piatto dalle ultime briciole e si alzò. «Per quanto riguarda te, Respiro Sibilante», aggiunse gettando una crosta di pane contro la testa di Falco coperta dal canovaccio. «Ti cercherò nel padiglione!».

    Falco trasalì e fece un gesto osceno con la mano. Malaki scoppiò a ridere ma Fossetta mollò un ceffone sulla testa del suo amico.

    «Sparisci!» gridò a Malaki.

    Il ragazzo si diresse verso la porta ma stava per aprirla quando Fossetta gli disse: «Buona fortuna per la mischia».

    «Grazie, madama Pieroni», replicò Malaki e salutatala con un ultimo sorriso, se ne andò.

    Lo sguardo di Fossetta si soffermò sulla porta mentre smetteva di prendere a sberle Falco sulla schiena. «È un bravo ragazzo». Sollevò lo strofinaccio e permise a Falco di drizzarsi a sedere.

    «Sì, è vero», convenne Falco, asciugandosi il viso con il canovaccio.

    «E anche un bravo spadaccino», puntualizzò Fossetta.

    Falco si limitò ad annuire. La costrizione al petto era diminuita e respirare non era più così doloroso.

    «Peccato che non possa combattere nelle prove», commentò la donna.

    «Conosci le regole», replicò Falco. «Solo i nobili possono parteciparvi».

    «Potrebbe lanciare una sfida. Se battesse uno dei nobili si guadagnerebbe il diritto di combattere».

    «Sì, ma prima avrebbe bisogno di due voti di fiducia», replicò Falco. «Uno dai nobili e l’altro dalla classe dei guerrieri. E non c’è un nobile in tutta la regione che andrebbe contro Bellius e accetterebbe la sfida del figlio di un fabbro».

    «Be’, dovrebbero!». Fossetta lanciò il canovaccio sul tavolo e si chinò per posare l’orecchio sulla schiena di Falco. «Abbiamo gli eserciti dei demoni alle porte di casa e quelli disquisiscono sul rango di nascita di un uomo. Non abbiamo speranze».

    «C’è sempre speranza», affermò Falco in tono pacato.

    La governante si alzò e afferrato il ragazzo per il mento, lo guardò negli occhi. «Conosco quel tono di voce, Falco Danté. Spero tu non abbia in mente una sciocchezza delle tue».

    «Chi, io?». Sembrava dire l’espressione di Falco.

    Fossetta distorse la bocca in una smorfia prima di lasciare andare il mento del ragazzo.

    «Tu e il tuo amico siete terribili», lo rimproverò. «Siete degni l’uno dell’altro».

    La donna tornò alla stufa, mentre Falco spostava di lato il recipiente con l’acqua calda.

    «Non ne sono sicuro», mormorò in tono pensoso. «La sua vita sarebbe molto più semplice se non avesse me come amico».

    Non c’era autocommiserazione nella voce di Falco. Aveva semplicemente detto la verità.

    «Un tempo non era il guerriero forte e robusto che è oggi», commentò Fossetta chinandosi sulle pentole. «Mi ricordo il mocciosetto che piangeva sempre per i nomignoli che gli affibbiavano». Infilò un dito nella casseruola più piccola e lo portò alle labbra prima di aggiungere un cucchiaio abbondante di zucchero.

    Falco riempì due tazze d’acqua e sistemò cucchiai e ciotole sul tavolo. Anche lui ricordava gli epiteti a causa della voglia di Malaki.

    Lo chiamavano Diavolo Rosso e anche Rossastro. Ma quello che faceva più arrabbiare Malaki era Lino, diminutivo di Fragolino. Non lo sopportava perché lo faceva apparire come un mollaccione.

    Fossetta tornò al tavolo e versò del porridge caldo nelle ciotole.

    «E io mi ricordo il piccoletto pelle e ossa che prendeva le sue difese». Scosse la testa. «Come ti venissero in mente tutti quei nomignoli per i ragazzi più grandi non lo capirò mai».

    Falco sorrise mentre Fossetta tornava con la seconda casseruola.

    «Composta di albicocca», annunciò, aggiungendone un cucchiaio nelle ciotole.

    Infine si sedette accanto a Falco e si apprestò a mangiare.

    «Hai preso un sacco di bastonate per difendere Malaki de Vane», affermò la donna. «Io non l’ho dimenticato e nemmeno lui».

    Falco fissò ciò che aveva nel piatto. Qualunque cosa avesse fatto da bambino, negli anni a seguire Malaki lo aveva ripagato più e più volte. A volte pensava che se non fosse stato per la presenza imponente dell’amico, forse non sarebbe stato più al mondo. Sì, la bilancia dell’amicizia pendeva decisamente in favore di Malaki. Ma quello era il giorno delle prove e Falco era deciso a ristabilire l’equilibrio.

    3

    Le prove

    Il padiglione era stato eretto sul lato meridionale del campo del torneo, da dove la pedana sopraelevata avrebbe offerto la vista migliore sulle prove. Il tessuto bianco era abbagliante al sole di metà pomeriggio e in cima a esso il vessillo con il drago di Caer Dour garriva alla fresca brezza autunnale. Il giorno delle prove avrebbe dovuto essere un giorno di festa, ma in quell’occasione l’eccitazione era mitigata dall’ombra della paura per l’avanzata dell’esercito ferociano.

    Dal padiglione, Falco lasciò scivolare lo sguardo sulla folla assiepata ai margini del campo. Spiccava l’assenza di volti maschili, soprattutto di uomini in età per combattere. Soltanto ai famigliari dei partecipanti era stata concessa una licenza per assistere alle prove. L’esercito era stato mobilitato e la maggior parte degli uomini della città ora era accampata più giù nella valle, pronta per affrontare i Posseduti prima che si avvicinassero troppo all’abitato. La strada che il nemico stava seguendo portava in una sola direzione. Al di là dell’occasionale sentiero di capre non aveva possibilità di deviare. I Posseduti puntavano direttamente su Caer Dour.

    Rifugiati provenienti da villaggi e proprietà nella valle avevano già cominciato ad affluire in città; fuggivano per sottrarsi al pericolo. Il loro arrivo aveva aumentato la preoccupazione, ma il popolo di Valentia era una stirpe di guerrieri. Con il sostegno delle regioni periferiche, Caer Dour poteva mettere insieme un esercito di più di duemila soldati, ma pochi tra loro avevano combattuto contro i Posseduti, e nessuno aveva mai visto, tanto meno affrontato, un demone.

    No, la gente di Caer Dour non aveva esternato le sue paure, ma il ritorno di Darius aveva portato un concreto sollievo. Il mago guerriero era rientrato giusto in tempo per salvarla e ora tutti potevano godersi la giornata delle prove, prima che gli ultimi guerrieri partissero per la battaglia.

    Ripensando agli incubi di Simeon all’inizio della giornata, anche Falco si lasciò andare a un sospiro di sollievo. Ultimamente l’intensità dei suoi sogni era diventata molto più spaventosa, sebbene lui non riuscisse a capire se tutto ciò fosse dovuto all’avvicinarsi dei Posseduti o alla sua sola immaginazione. Comunque fosse, era certo che sarebbero cessati non appena Darius avesse sconfitto il demone. Per il momento, riportò l’attenzione al presente. Le prove stavano per cominciare.

    Il campo del torneo si trovava subito fuori città, su un pianoro naturale dove la terra rocciosa era stata livellata e coperta con sabbia granulosa. Le montagne della Valentia settentrionale si estendevano in tutte le direzioni, ma a ovest una vetta spiccava su tutte le altre.

    Il monte Noir, la montagna nera.

    Chiamato così per il colore scuro della roccia, la montagna si ergeva come una sentinella sopra la città di Caer Dour. Era là che i maghi avevano le loro torri segrete ed era sempre da là che i maghi guerrieri del passato avevano cercato di convocare un drago. E quella notte, quando tutti sarebbero stati impegnati a bere e a rivivere i momenti drammatici delle prove, Falco si sarebbe arrampicato sulla montagna per assistere alla convocazione. Era forse la sua unica occasione per vedere un drago da vicino ed era deciso a non perderla. Ma la salita non era facile, soprattutto per uno come lui.

    Doveva partire presto.

    Doveva allontanarsi in silenzio.

    «Psst!».

    Strappato ai suoi pensieri, Falco lasciò quasi cadere il vassoio di dolcetti al formaggio di capra. Si allontanò dai tavoli e si diresse verso un lato del padiglione, dove uno dei pannelli di tela era stato tirato indietro.

    «Quelli li servi oppure aspetti che se li mangino le mosche?».

    Il braccio di Malaki s’infilò attraverso l’apertura e la mano si chiuse su uno dei gustosi spuntini sul vassoio di Falco.

    «Vomiterai», lo mise in guardia quest’ultimo.

    «Non sono nervoso», replicò Malaki a bocca piena.

    Falco inarcò un sopracciglio, dubbioso. Malaki mangiava sempre quando era nervoso.

    «Va bene, solo un pochino», ammise. «È colpa di quel maledetto Jarek. È tutto sorrisi e smancerie».

    Falco lo guardò sospettoso.

    «È così», affermò Malaki. «Basta per rendere nervoso chiunque».

    «Sì, ma tu puoi battere Jarek».

    «Lo so. Ma lui è bravo e c’è sempre l’incognita di un colpo fortunato. L’unica cosa che non voglio è rendermi ridicolo».

    «Non accadrà».

    Malaki gli sorrise, poi indicò la folla di elegantoni all’interno del padiglione.

    «Come vanno le cose lì dentro?».

    «Bene», mentì Falco.

    Bellius si era comportato proprio come avevano temuto. Aveva persino usato la presenza di Falco per gettare un’ombra su Simeon. La verità era che anche gli altri servi non sopportavano la sua presenza. Ma non si lamentava. Gli importava soltanto di riuscire a essere nel posto giusto al momento giusto.

    «Lo hai già servito? Ti ha parlato?».

    Falco scosse la testa mentre seguiva lo sguardo di Malaki. Attraverso la folla intravidero appena l’inviato.

    Si chiamava Sir William Chevalier e sembrava più un esperto cavaliere che un ambasciatore di corte. Era alto, le spalle larghe e un buon numero di cicatrici sulla pelle non più giovanissima. I lunghi capelli erano attraversati da striature grigie e un velo di barba gli ricopriva le guance. Il viso non era certo bello ma aveva modi semplici e un sorriso cordiale che donava ai lineamenti marcati un certo fascino. E proprio in quel momento, mentre parlava con i nobili, sorrise.

    «È venuto alla fucina», rivelò Malaki.

    «Davvero?» chiese Falco sorpreso.

    «Già. Ha dato una cosa a mio padre da fondere».

    «Che cosa?».

    «Credo sia la fibbia di una cintura. Qualcosa di simile al medaglione che indossa. Il papà ha detto che non erano fatti miei, ma è andato a lavorarci subito».

    Giratosi, Falco scorse il medaglione d’argento appeso a una stringa di cuoio al collo dell’emissario. Aveva la forma di testa di cavallo. Di tanto in tanto la mano dell’uomo andava a toccarlo come se quella presenza lo confortasse. Continuava a sorridere, ma persino Malaki capiva che qualcosa non andava.

    «Non sembra felice».

    «Non lo è», affermò Falco.

    «Eh?».

    «Crede che i nobili siano troppo fiduciosi».

    «Cosa? Non pensa che Darius possa sconfiggere i Posseduti?».

    «Non è quello», replicò Falco. «Pare che l’Illicia abbia messo in guardia molte città vicine, avvisandole che un esercito ferociano aveva abbattuto le sue difese».

    «Davvero?»

    Falco annuì. «Sembra che ai nobili fosse stato consigliato di chiedere un mago guerriero a Caer Laison».

    Malaki fischiò.

    «Bellius si mangerebbe il fegato piuttosto che chiedere aiuto a Caer Laison».

    «Esattamente», convenne Falco, mentre l’attenzione dei due ragazzi si spostava su quel figurino di Bellius Snidesson. Era un uomo alto e di bell’aspetto con capelli scuri e lucenti e una barba perfettamente curata. Persino il grigio delle tempie aveva bagliori argentei. Era vestito in modo impeccabile e, con Darius a sinistra e l’emissario a destra,

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