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E-book430 pagine6 ore

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Info su questo ebook

Giovanni ha 40 anni ed è un operaio

specializzato. Vent'anni della sua vita li ha

dedicati alla costruzione di macchine

automatiche. Una mattina mentre si reca al

lavoro, si rende conto di sentirsi

profondamente infelice e intrappolato in

un’esistenza che non vuole e che non ha

scelto, ma che è stato costretto a vivere. Un

giorno una notizia inaspettata lo sconvolge

a tal punto da rivedere tutta la sua vita e

tutto ciò che aveva ritenuto importante

finora. Comincerà così un viaggio importante

e difficile, alla ricerca di sé stesso e di quella

“Felicità” che da troppo tempo manca nella

sua vita.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2016
ISBN9788822860101
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    Anteprima del libro

    Comincia a sognare - Stefano Simioli

    info@stefanosimioli.com

    INDICE

    Introduzione 01

    Sei mesi 04

    Perdere un elettrone 13

    La mia Penelope 23

    Schiavo moderno 33

    Giulio 42

    Le barrette di cioccolata 54

    Sulla strada del ritorno 65

    Rogito ergo sum 71

    Silvia 80

    La mia Kryptonite 87

    Il paradosso del mondo moderno 93

    Le mie aspettative 111

    Il giorno della propria morte 116

    Smetti di correre 126

    La merda pagata 133

    Nessuna importanza 139

    A mie spese 146

    Una bellissima farfalla 153

    C’è una ragione per tutto 164

    Il vero senso della vita 169

    Dimenticherai le domande 178

    Gli antidepressivi 181

    La maniglia del cassetto 189

    Eccesso di felicità 197

    Pane e cipolla 207

    Un’intera vita 215

    La vecchia zitella 222

    Distruggere qualcosa 227

    La tua infanzia 233

    La mia alba 240

    La banca del tempo 246

    In mio soccorso 250

    Insieme a loro 257

    Sotto lo stesso cielo 264

    La bellezza dei tuoi sogni 270

    Almeno per ora 276

    I mulini a vento 281

    Un’ora felice 285

    Una mano perdente 296

    La mia prigione quotidiana 306

    L’ora di partire 309

    Voltare pagina 315

    Un viaggio in treno 323

    Mille parole superflue 328

    Vera felicità 333

    Tre 337

    Comincia a sognare 341

    Ringraziamenti 354

    Introduzione

    Dicono che un uomo sia vecchio solamente quando i rimpianti, in lui, superano i sogni. Credo che questa frase racchiuda in poche parole il senso che ha assunto la mia vita.

    Sono ore che mi giro e rigiro nel letto senza riuscire a prendere sonno. La sera purtroppo è il momento in cui tutte le mancanze tornano a farsi sentire compromettendo il regolare decorso della vita. I problemi vengono amplificati dal silenzio, dal buio e dalla solitudine che avvolgono la camera da letto.

    Nella penombra della stanza allungo la mano per cercare il cellulare che si trova sul comodino di fianco al letto. Cerco al buio di premere un tasto per illuminare il display del telefono. Le tre e trentacinque. Un’altra notte insonne; credevo stupidamente di essere in grado di controllare le mie ansie e le mie paure ed invece niente. Panico, ansia, paura. Le parole che hanno cambiato in maniera radicale la mia vita, modificandola per sempre e riducendola irriconoscibile, agli occhi di chi mi conosceva prima degli eventi che sto per narrare.

    Mi sono reso conto che la mia intera esistenza è stata talmente condizionata dalla paura, che per colpa di essa, ho perso tutti i momenti belli ed importanti degli ultimi anni.

    Paura di morire, di non farcela, di non avere i soldi per far fronte agli impegni presi, paura del futuro, del passato e di quello che esso ha rappresentato per me sia nel bene che nel male.

    E che purtroppo non tornerà più.

    Che strani scherzi gioca la nostalgia. Ci fa vedere cose che non esistono più, ma che vorremmo ancora. Ed è per questo che spesso è così doloroso ricordare.

    Non riesco a dare un senso alla mia vita, ed anche se apparentemente ho tutto quello di cui ho bisogno, e forse anche di più, non sono felice.

    Ho cominciato a pensare al perché non lo sono più e a cosa potrei fare per ritornare ad esserlo, ma non trovo risposta.

    Ma soprattutto se non sono felice, come posso pretendere che le persone che fanno parte della mia vita lo siano, vedendomi triste?

    Ma poi cos’è in realtà la felicità? Uno stato d’animo? La spensieratezza che solo i bambini possiedono? Un momento fugace? O nessuna di queste cose?

    Sinceramente non lo so.

    Oscar Wilde scriveva: "La felicità non è avere ciò che si desidera, ma desiderare ciò che si ha. Per quanto mi riguarda ho provato a cercare una definizione di felicità e ho trovato quella che mi sembra tra le più idonee: È lo stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri".

    Ed ho notato che entrambe le definizioni accostano la felicità ai desideri. Ma cosa desidero io veramente? Forse è proprio questo il problema. Non so cosa desidero. E questo da sempre.

    Chi di noi in fondo sa che cosa vuole veramente dalla vita?

    Quando siamo single vogliamo una fidanzata e quando ce l’abbiamo, vorremmo tornare single.

    Quando piove vorremmo che ci fosse il sole, ma poi quando finalmente fa capolino tra le nuvole, ecco che ci lamentiamo del troppo caldo. Insomma chi di noi sa veramente cosa desidera dalla vita?

    In realtà ci sono alcune persone che sin da piccoli sanno cosa vogliono, sanno come ottenerlo, e fanno tutto quello che è nelle loro possibilità per realizzare il loro sogno. E da adulti diventano ciò per cui hanno sempre faticato e realizzano le proprie ambizioni; ma sono la minoranza delle persone.

    Mostra al tuo sogno che fai il primo passo verso di lui e vedrai che poi lui farà il resto. Non ti farà fare tutta la fatica da solo. Non lascerà che tu percorra tutta la strada, ma ti verrà incontro. Queste furono le parole che mi disse un giorno mio nonno.

    Per quanto mi riguarda, è come se una mano invisibile mi avesse guidato per tutta la vita, seguendo un percorso già predisposto da Qualcuno al di sopra delle parti.

    Io di questo percorso però non ho mai potuto decidere nulla….

    Ho letto una storia a proposito della felicità: un giorno un gatto adulto vide un gattino che rincorreva la sua coda e gli disse: «perché corri dietro la tua coda in quel modo?» E il gattino rispose: «mi hanno detto che la cosa migliore per un gatto è la felicità, e che la felicità è la mia coda. Ecco perché perdo tanto tempo a rincorrerla.» «Figliolo», disse il vecchio gatto, «Anch'io mi sono trovato di fronte ai problemi universali, anch'io ho concluso che la felicità è la mia coda, ma mi sono accorto che, più la rincorro, più essa mi sfugge; se invece non ci penso e faccio altre cose, mi viene dietro ovunque io vada.»

    Mi piace pensare che sia così….

    A proposito, mi chiamo Giovanni, ma per gli amici sono Giova.

    Comunque non ha molta importanza, ai fini della storia.

    Già perché quella che segue non è la storia della mia vita, ma semplicemente la storia di una parte di essa.

    Sei mesi

    "Se nessuno me lo chiede, so cos'è il tempo, ma se mi si chiede di spiegarlo, non so cosa dire". Sant’Agostino.

    Ho sempre considerato più importante il viaggio della destinazione in sé, perché l'emozione di poter raggiungere la meta, un sogno o un obiettivo, è ciò che ci spinge ad intraprendere un cammino unico e irripetibile. A volte il traguardo può anche deludere, risultare scontato e monotono poco dopo, ma il viaggio mai.

    Come in tutti i viaggi però ci sono giorni in cui non succede proprio niente, giorni insignificanti che trascorrono senza nulla di eclatante da raccontare o da ricordare. Spariscono senza lasciare traccia, quasi non fossero mai esistiti. Un po’come quando viaggiamo in treno e il paesaggio ci scorre veloce davanti agli occhi, per poi scomparire altrettanto repentinamente dietro le nostre spalle, lontano all’orizzonte.

    A pensarci bene, la maggior parte dei giorni sono così e solo quando il numero di quelli che ci restano sono di gran lunga inferiori a quelli già trascorsi e il divario si fa chiaramente più ampio, ci si interroga su come sia stato possibile lasciarne passare distrattamente così tanti. Abbiamo sempre bisogno che accada qualcosa di speciale o di importante per ricordarci quanto sia bella la vita, perché spesso ahimè ce ne dimentichiamo.

    Purtroppo siamo fatti così, apprezziamo il valore delle cose quando le abbiamo irrimediabilmente perse, sia che si tratti di giorni, sia che si tratti di cose, sentimenti o persone.

    E quando perdiamo qualcosa per sempre ed entra a far parte del nostro passato ci accorgiamo di quanto in realtà fosse importante per noi, ma a quel punto è già troppo tardi.

    Non a caso la parola più difficile da pronunciare è addio, perché pone fine per sempre a qualcosa che è stato e che non sarà più.

    A quarant’anni stavo scalando la montagna della vita e mi trovavo a metà strada, ma non mi ero mai voltato indietro per guardare con soddisfazione la salita che avevo già percorso. La vetta era ancora lontana, o almeno così credevo, perché pensavo che il mio cammino fosse ancora lungo e imperituro. Intanto osservavo dall’alto il panorama e il punto di partenza. Un punto minuscolo e lontano all’orizzonte. La mia vita fino ad allora non era stata meravigliosa, ma non potevo lamentarmi. Avevo avuto un’esistenza tutto sommato ordinaria, senza troppi alti né bassi e vissuto un’infanzia lunga, spensierata e splendida che mi era servita da contrappeso per bilanciare un’esistenza per lo più mediocre.

    L’adolescenza fu la colazione della mia vita. E dinnanzi pensavo di avere un futuro altrettanto longevo, o almeno così credevo. Ma questo l’ho imparato in seguito, strada facendo.

    Il fatto di compiere quarant’anni mi indispettiva molto e non tanto perché entravo a far parte del club degli anta per lasciare definitivamente quello degli enta, quanto più per il fatto che mettere un quattro davanti allo zero voleva dire porre una sorta di veto su tante cose. A quarant’anni la tua ruota ha già compiuto mezzo giro di giostra, proprio il giro più bello. Quello dei primi giochi, degli abbracci materni, quello dei primi baci e delle prime scoperte. Dopo i quarant’anni invece comincia a calare la vista, il fiato si fa corto e la prostata ti spinge più frequentemente al bagno, specialmente di notte.

    Quando si è giovani, si pensa di possedere un ventaglio di occasioni pressoché infinito. Stupidamente si crede di avere frecce sempre disponibili nella propria faretra, ma quando ad un certo punto con la mano ne cerchi un’altra alle tue spalle e ti accorgi che sono terminate, ti rendi conto che il ventaglio infinito di occasioni, era più teorico che reale.

    Uscire ad esempio con una ragazza di venticinque anni, farebbe sembrare il suo due e il mio quattro talmente distanti tra loro nel tempo, da sembrare due mondi lontani anni luce. Perché quindici anni di differenza sono un abisso spesso incolmabile, da entrambe le parti.

    Quarant’anni li percepivo come una sorta di sigillo che chiudeva in maniera definitiva la prima parte della mia vita. Senza possibilità di riaprirla.

    Ricordo che quando avevo diciotto anni guardavo quelli dai trent’anni in su e pensavo dentro di me che erano vecchi. E sicuramente i giovani di oggi pensano altrettanto di me. Oggi che io ne ho quaranta però, non mi sento per niente vecchio, anzi. E sicuramente anche quelli che io reputavo anziani all’epoca, non si sentivano tali. Sento di avere ancora molto da poter offrire, ma forse il tempo per dimostrarlo si è drasticamente ridotto.

    Nell’invecchiare non ci sono lati positivi, o almeno io personalmente non riesco a coglierli e la solitudine che si accompagna alla vecchiaia, porta le persone a cercarsi più spesso.

    Non vorrei però finire la mia vita come quegli ometti calvi e con la pancetta che si rendono ridicoli con una cameriera di vent’anni.

    C’è chi da giovane riesce a pianificare la propria vita e a fare progetti cercando di darsi degli obiettivi da raggiungere e dei traguardi da superare.

    C’è chi invece quei traguardi non solo non li supera, ma non li vede nemmeno da lontano, ritirandosi subito dopo la partenza. Se da adolescente mi fossi prefisso una vita ordinaria, sposarmi, avere un figlia e tirare a campare con un lavoro mediocre, oggi potrei dire di aver raggiunto il mio obbiettivo.

    Più volte mi sono sentito dire che in fondo qualcosa d’importante l’ho fatto. Questo non lo nego. Ma chiunque prima o poi si sposa, fa dei figli, trova un lavoro mediocre che non lo soddisfa e vive una vita ordinaria. Non si tratta di qualcosa di unico e straordinario riservato a pochi eletti. Non ho nessun merito per essere ricordato nel tempo. Non farò mai qualcosa di veramente importante per cui essere menzionato da qualcuno e nessun libro di storia parlerà mai di me.

    Passerò in sordina senza disturbare, un po’ come quei sottotitoli in movimento che scorrono in basso del teleschermo durante il telegiornale. Distrattamente qualcuno gli concederà un’occhiata veloce, ma appena usciti dal campo visivo, nessuno si ricorderà più di loro.

    Il mio lavoro, le mie passioni, i miei sentimenti e tutto quello che sono stato nel bene e nel male, non esisteranno più, prima o poi. La mia vita così come la conosco e così come l’ho vissuta verrà cancellata definitivamente con la mia morte e con essa tutti i ricordi.

    E allora mi domando: a cosa mi è servito studiare, apprendere, lavorare, costruire, se poi tutto verrà spazzato via con la mia morte?

    Che senso ha tutto ciò?

    L’unica testimone della mia breve apparizione su questa terra sarà mia figlia Melissa la quale sarà anche la sola e unica depositaria degli splendidi attimi trascorsi insieme. Spero che li tenga stretti nella sua memoria, poiché il tempo sa essere tiranno in certi casi. Cancella dolcemente i ricordi rendendoli opachi poco alla volta, fino a farli scomparire del tutto.

    Le foto che hanno reso eterni alcuni istanti speciali, si troveranno all’interno di album appoggiati sugli scaffali utili solamente ad accumulare polvere. Oppure su schede di memoria stipate chissà dove. Momenti di vita racchiusi in Megabyte, mentre la persona che sorride e osserva la telecamera, giace già da tempo sottoterra.

    Quanto è triste tutto ciò?

    Non sono mai riuscito ad accettare lo scorrere del tempo. Per questo mi sono sempre chiesto cosa sia veramente ciò che noi identifichiamo con il termine tempo.

    La verità è che non troverò mai una risposta esaustiva a tale quesito e forse qualcuno ci ha donato di proposito una vita talmente breve, per far sì che nessuno ci riesca.

    È forse l’unità di misura dei miei ricordi? O è la dimensione nella quale si misura il trascorrere degli eventi? Oppure è l’espediente creato dall’universo per evitare che le cose accadano tutte nello stesso momento?

    Sinceramente non lo so. Così quando l’altro giorno mia figlia Melissa mi ha chiesto papà che cos’è il tempo?, sono rimasto interdetto per qualche secondo.

    La prima cosa che subito mi è venuta in mente sono state le parole di Sant’Agostino che diceva: se nessuno me lo chiede, so cos'è il tempo, ma se mi si chiede di spiegarlo, non so cosa dire.

    Ed è così. Lì per lì non sono riuscito a fornirle una spiegazione valida che soddisfacesse la sua curiosità.

    Una cosa importante sul tempo però l’ho imparata. Ho scoperto che trasforma il carbone in diamanti, i sassi in sabbia, le nostre ossa in polvere e un legame speciale e unico, in qualcosa di banale, scontato e monotono. E la monotonia è letale perché piano piano ti porta ad odiare la tua vita.

    Ed è per questo motivo che ogni tanto bisognerebbe prendersi una pausa da tutto, proprio per non correre il rischio di finire per odiare ciò che fino a poco tempo prima amavamo.

    Vivere una vita ordinaria non era il mio sogno, non era la mia meta, ma si è trasformata nel mio traguardo. Da bambino sognavo una vita straordinaria, completamente diversa da quella che conduco oggi. Per questo motivo speravo in un’unica chance sfruttata al meglio. Una vita fatta di mille sorprese, di bellissimi colpi di scena, di spensierate giornate trascorse con le persone che amo e di momenti unici e irripetibili.

    Istanti speciali da ricordare negli anni. Invece quei momenti speciali non ci sono mai stati, ma li ho visti solamente nei film, a prova del fatto che certe storie esistono solo nelle favole.

    Cosa è successo invece? Sinceramente non lo so. Eppure i presupposti lasciavano intendere ben altro rispetto a ciò che realmente mi è accaduto.

    Trascorriamo l’esistenza sperando in un futuro migliore, in un domani che non verrà mai. Lavoriamo una vita intera accumulando denaro, macchine e oggetti inutili pensando che tutte queste cose possano servirci un giorno per vivere meglio.

    Siamo sempre proiettati al domani e i nostri pensieri sono rivolti al futuro, dimenticandoci così di vivere il presente, come se non fosse importante. Ed invece è l’unica cosa che conti realmente.

    E intanto il tempo, quel maledetto, trascorre velocemente e con esso anche i nostri anni migliori. E quando poi succede l’irreparabile, ci si interroga su come sia stato possibile sprecare la più grande risorsa che l’uomo possieda: La propria vita.

    Tutti i giorni apprendiamo di disgrazie e malattie che colpiscono altre persone e quando ciò accade, siamo soliti pensare che purtroppo al mondo succede e bisogna metterlo in conto. In fondo tutti i giorni muore o si ammala qualcuno, ma non si pensa mai che un domani potrebbe accadere a noi. Nella vita ci sono solo due certezze. La prima non si può sfuggire al proprio destino. E la seconda prima o poi moriremo tutti.

    E viviamo inconsapevoli di cosa ci attende fino a quando un giorno il destino bussa alla nostra porta. E per quanto presto tu ti sia svegliato, lui si sarà svegliato sempre un’ora prima di te.

    Troppo spesso la gente usa il fato come scusa per i propri fallimenti. Preferisce dare la colpa al caso o al destino piuttosto che ammettere la propria incapacità cercando così di giustificare in qualche modo i fallimenti della propria esistenza.

    Altre volte invece càpitano cose che esulano dal nostro volere, come se a decidere fosse qualcun altro. Non a caso si dice che il destino altro non sia che Dio quando viaggia in incognito.

    Ma erroneamente crediamo sempre di possedere una sorta di amuleto che ci protegge e ci rende immuni dalle disgrazie della vita, dalla malattia e addirittura dalla morte. Pensiamo sempre che certe cose succedono agli altri ma che a noi, per qualche misterioso motivo, non possano accadere.

    In fondo molte persone attraversano la strada credendo che le strisce pedonali donino l’immortalità, ignorando che molti italiani alla guida purtroppo, sono sprovvisti di senso civico.

    E questo era sempre stato anche il mio atteggiamento, non spavaldo ma sicuro che a me certe cose non potessero accadere, almeno fino ad oggi.

    Fino a quando non sentii il medico pronunciare la seguente frase: «Signor Giovanni…non so come dirglielo, purtroppo devo darle una brutta notizia. Dagli esami condotti nei giorni scorsi abbiamo avuto la conferma che si tratta di un tumore. E questa è solo una parte della cattiva notizia».

    «Perché può andare anche peggio?».

    «Purtroppo sì, la cosa peggiore è che non le rimane molto tempo da vivere».

    E così quando arriva una notizia tanto inaspettata quanto feroce ci si trova impreparati, perché per quanto uno possa prepararsi ad ogni evenienza, in realtà al peggio non si è mai pronti.

    In un primo momento avevo appreso la notizia come se il medico stesse parlando a qualcun altro. Sentivo le sue parole, ma erano talmente distanti che arrivavano a malapena alle mie orecchie. Riecheggiavano lontane come se stessi vivendo la scena da spettatore e non da protagonista. Come se stesse accadendo a qualcun altro e non a me.

    Infatti inizialmente ero stranamente tranquillo e per niente spaventato. Non ero sorpreso o disperato, anzi mi sentivo sereno, come se ciò che il medico aveva appena detto, non mi riguardasse.

    Forse quella ostentata indifferenza era solamente un'istintiva forma di difesa, un modo per prendere le distanze e per mantenere un piccolo spiraglio di luce. Un minuscolo spiraglio per non chiudere definitivamente la porta in faccia alla mia vita.

    Sicuramente a nessuno piace dare cattive notizie specialmente ai medici i quali, dato il loro lavoro, sono spesso chiamati a ricoprire un ruolo che non viene insegnato quando si studia medicina, ma che devi ugualmente imparare dal maestro più severo: la vita. E il ruolo che viene loro affidato è dei più complicati ed ingrati.

    Trovarsi ad essere portatori sani di cattive notizie non deve essere per niente piacevole. E non è mai semplice comunicarne di brutte. Non deve essere facile guardare un’altra persona negli occhi e dirle che le resta poco da vivere. Ed anche se viene utilizzato il miglior approccio possibile ciò non la trasformerà in una buona notizia.

    L’altro giorno c’è stato il funerale di una mia vicina di casa. Non era una signora anziana, aveva cinquantacinque anni. Il cancro però non l’ha risparmiata, se l’è divorata velocemente. Molto più velocemente di quanto faccia la vita stessa. Non ha avuto nemmeno tre mesi di tempo per provare a combatterlo. Sento spesso la gente dire è morto perché aveva un brutto male, come se a pronunciare la parola tumore avesse paura, una sorta di timore reverenziale nei confronti di una malattia tanto subdola, quanto letale.

    La mia vicina di casa era madre di due figlie ormai grandi, ma una madre rimane tale per sempre e vederla andarsene con tanta sofferenza senza poter fare nulla per aiutarla, credo che sia stato tremendo.

    Sicuramente è difficile lottare contro questo male, ma deve esserlo altrettanto per le persone che sopravvivono, convivere con i ricordi della persona che non c’è più e contemporaneamente, andare avanti con la vita di tutti i giorni.

    E davanti a tragedie di questo tipo, non si riesce mai a trovare una spiegazione che possa in qualche modo lenire anche se di poco, il dolore che si prova in quei momenti. E le figlie, anche a distanza di tempo, stanno ancora cercando una risposta soddisfacente alla domanda: perché è capitato proprio a nostra madre?.

    E a questa domanda purtroppo non troveranno mai una risposta che possa in qualche modo fornire la pace di cui avrebbero bisogno.

    Forse alle volte le risposte non arrivano perché sbagliamo a porre le domande. O forse per certe domande non esiste risposta.

    Mio nonno era solito dire: Le cattive domande sono quelle che non meritano risposta. Le buone domande sono quelle che non hanno risposta.

    Non ci chiediamo mai la ragione del perché proviamo gioia o del perché siamo contenti. Lo siamo e basta.

    Non ho mai sentito nessuno lamentarsi e disperarsi dicendo Oh Dio perché ho vinto tutti questi soldi, perché mi hai fatto vincere? Oppure: Perché sono tanto felice? .

    Al dolore invece proprio non riusciamo a dargli un senso, e tanto meno ad accettarlo. In fondo a pensarci bene è il rovescio della medaglia. Nella vita affinché esista una cosa, deve esistere ahimè anche il suo contrapposto.

    L’unica cosa da fare inizialmente in questi casi è provare a dimenticare per cercare di lenire il dolore. Solo quando non farà più così male ricordare, allora si potrà ripercorrere gli attimi vissuti insieme alla persona che oggi non c’è più.

    Il tempo è di grande aiuto in questo caso, forse il miglior medico; però deve trascorrerne tanto affinché si deponga come uno strato di polvere sopra ai ricordi, per cancellarli almeno parzialmente dalla memoria, in maniera tale da sedare il dolore.

    Purtroppo per noi spesso non siamo in grado di cogliere i segni che ogni giorno il destino dissemina sul nostro cammino, nella speranza che ci siano utili a capire cosa ci riserverà il futuro. Come ad esempio un piccolo dolore trascurato, esami del sangue con qualche valore fuori posto o semplicemente un vago senso di malessere. Ho imparato a mie spese a non rimandare mai per mancanza di tempo, accertamenti che potrebbero salvarmi la vita, anche se oggi forse, è ormai troppo tardi.

    E così alla mia domanda: « Ma quanto mi resta esattamente da vivere? ».

    «La risposta del dottore fu la seguente: «All’incirca sei mesi».

    Adesso finalmente ho capito a mie spese cos’è il tempo, o quantomeno cosa esso rappresenti per me. I miei ultimi centottanta giorni di vita a partire da oggi. In due parole: sei mesi.

    Perdere un elettrone

    "Anche un viaggio di mille miglia inizia con un piccolo passo". Lao Tse

    Ci sono momenti nella vita in cui le cose accadono e basta, senza un motivo preciso.

    E quando succede si finisce sempre col perdere qualcosa prima o poi: un mazzo di chiavi, un’amicizia, una persona cara o più semplicemente, le proprie certezze. Già perché a smarrire qualcosa ci si impiega davvero poco, mentre per ritrovare ciò che si è perso, spesso non basta una vita intera.

    Esiste un punto di rottura, una soglia di sopportazione oltre la quale ogni individuo, sottoposto a sollecitazione perpetua nel tempo, molla la presa. E io la mia soglia di sopportazione, l’ho superata da molto tempo ormai.

    Osservo fuori dalla finestra della cucina il cielo che non promette nulla di buono. Da alcune ore piove senza sosta. Cerco l’ombrello per tutta la casa ma come al solito non lo trovo e ormai è tardi, sono le sette e trenta. Scendo di corsa verso la macchina, cercando di bagnarmi il meno possibile. Le gocce di pioggia s’infrangono contro il parabrezza, scivolando poi dolcemente sul cofano per terminare infine la propria corsa per terra, disperdendosi tra migliaia di altre gocce identiche.

    Manca poco all’arrivo della primavera, anche se osservando il cielo, non si direbbe. Continua a piovere ininterrottamente.

    Maledetta stagione che promette e poi non mantiene, come la più spietata delle amanti...un po’ come la vita che prima ti seduce, poi ti illude e infine ti abbandona, senza mantenere fede alle sue promesse.

    Ed è nei giorni di pioggia che ogni mancanza si fa sentire. La mancanza di un ombrello, di un riparo, del sole che illumina le giornate più belle ma soprattutto delle proprie certezze.

    E quando cominciano a vacillare le fondamenta sulle quali avevi basato l’intera esistenza, subentrano domande che lasciano un vuoto enorme dentro di te. Vuoto che solamente risposte certe possono colmare.

    Da tempo soffrivo di un piccolo malessere indefinito, che avevo attribuito al rientro dalle vacanze estive. Già perché ogni volta che terminavo le ferie e dovevo ritornare al lavoro, cominciava il dramma. E questo accadeva perché finché ero impegnato a lavorare molto e la routine con tutti i suoi impegni assorbiva ogni mio pensiero, non avevo tempo a disposizione per filosofare su questioni esistenziali. Si sa la vita è un fatto pratico per cui bisognava districarsi tra i vari impegni e imprevisti: lavoro, scuola, meccanico, dentista, spesa, varie ed eventuali. Non c’era tempo per altro. La vita vera, quella che non ha nulla a che vedere con quella che conduciamo oggigiorno, era annichilita da quel surrogato monotono e ripetitivo che si materializzava ogni mattina alle sette, al suono della sveglia.

    Mentre quando staccavo la spina ed andavo in ferie due o tre settimane e riprendevo pieno possesso della mia vita perché finalmente riacquistavo la mia libertà, ritornare al lavoro era per me come rientrare in carcere. Con l’unica differenza che io non avevo commesso nessun crimine. Se avessi ucciso qualcuno, ora avrei già saldato il mio debito con la giustizia e sarei fuori; mentre oggi dopo vent’anni, ne avrò almeno altrettanti da scontare in una prigione forzata, spacciata per normale esistenza. Pur essendo innocente, o quasi. Perché forse qualche colpa ce l’ho anch’io. Non ho saputo trovare una valida alternativa alla realtà che mi veniva propinata da tutti, sin da quando ero piccolo: vai a scuola, studia, trovati un buon lavoro, risparmia, sposati, fai dei figli, stipula un mutuo, invecchia e arriva alla pensione. Se ci riesci, perché di questi tempi è più facile morire prima di stenti.

    Ma il fatto che tutti seguano un certo percorso, significa che sia giusto? O che esista solamente quel percorso?

    Non credo. Molti sono convinti che l’unica realtà che esiste, sia quella che vedono affacciandosi al proprio balcone.

    Aprendo le finestre di casa mia vedo la pianura padana, ma ciò non esclude che esistano le montagne ad esempio.

    Il fatto che io non abbia mai visto qualcosa, non significa che esso non esista. Esiste, ma fa parte di una realtà diversa dalla mia.

    Ma siccome il percorso che tutti seguiamo viene venduto sotto mentite spoglie come normale, perché dubitare di qualcosa che tutti fanno? In fondo la normalità non è ciò che fa la maggioranza della gente, che corrisponde all'atteggiamento medio della popolazione?

    Tuttavia non ha senso, perché si basa su una convenzione, molto spesso tacita, tra le persone. Il fatto che molti seguano un certo tipo di comportamento, non significa necessariamente che esso sia giusto.

    A volte è difficile riconoscere il pericolo non a causa della sua stranezza, ma proprio a causa della sua familiarità.

    In fondo questo modo di vivere l’abbiamo ereditato dai nostri nonni e l’abbiamo visto molto da vicino osservando i nostri genitori. Ed ora lo stiamo vivendo, anche se sarebbe più corretto dire subendo, noi stessi.

    Ma pensandoci bene, non è l’unico modo di vivere.

    Perché continuare con un’esistenza che ci rende infelici?

    Perché spesso è più facile e comodo rifugiarsi nella monotonia sicura e ripetitiva del quotidiano, anche se ormai non ha più nulla da offrire, piuttosto che provare a cambiare le sorti del proprio destino.

    C’erano giorni in cui mi capitava di stare veramente male, senza sapere quale fosse la vera causa scatenante. Spesso anche durante il fine settimana. Se lavoravo anche di sabato, allora la domenica non era sufficiente per realizzare veramente quanto fosse assurda la mia vita; ma se per caso il sabato non lavoravo, avevo quarantotto ore di libertà che mi facevano sentire nuovamente libero e vivo. Ma soprattutto avevo parecchio tempo a disposizione per pensare a quanto fosse insensato ciò che facevo.

    Tutto era cominciato qualche mese prima al ritorno dalle ferie estive. Anche se si trattava di un malessere che mi portavo dentro da anni ormai. Sapevo che era solo una questione di tempo e sarei esploso. E l’esplosione avvenne in settembre.

    Era il 4 marzo del 2014 per la precisione. A fine anno avrei compiuto quarant’anni. Mi separavano solamente nove mesi e quindici giorni dal confine che divide per sempre i trenta dai quaranta. Se vent’anni fa mi avessero chiesto: come immagini la tua vita tra vent’anni?. Sicuramente avrei risposto: sposato, con figli, un lavoro sicuro, una certa stabilità economica e qualche risparmio da parte. La risposta standard di un percorso di vita standard. Inutile dire che ad oggi, si è avverata solamente la prima parte della profezia. Come il peggiore dei Nostradamus, sono riuscito solamente ad azzeccarne due su cinque. Se avessi sparato a caso, forse nei avrei indovinate di più. È anche vero che se ognuno di noi potesse predire il futuro, allora saremmo tutti miliardari.

    Quella mattina, come tutte le mattine, stavo guidando per andare al lavoro ma c’era qualcosa che me la rendeva, se possibile, ancora più insopportabile del solito.

    Era un periodo particolarmente stressante, ero sempre nervoso, dormivo poco e stavo male. Ogni mattina mi sentivo più stanco di quando mi coricavo la sera precedente.

    Ultimamente piangevo durante tutto il tragitto di andata e come arrivavo in azienda mi fermavo al parcheggio qualche minuto, per riprendermi e asciugare le lacrime. Perché se mi avessero visto in quelle condizioni, avrebbero cominciato ad indagare chiedendomi cosa ci fosse che non andava. E sinceramente non avevo voglia di parlare con nessuno di questioni troppo complesse, specialmente se mi capitavano persone i cui unici argomenti vertevano solo e sempre su tre temi principali: calcio non giocato ma parlato, in cui tutti si sentivano allenatori pronti a dire la propria e talmente esperti da essere gli unici ad avere la formazione perfetta sempre e comunque; pesca, lo sport più noioso del mondo; e donne siliconate e fotoshoppate che mai e poi mai avrebbero conosciuto, né tantomeno conquistato, ma ne parlavano come se fossero stati gli ex amanti di tutte le modelle da copertina.

    Non avrebbero capito né tantomeno compreso il mio disagio interiore, ma soprattutto mi avrebbero deriso perché spesso deridere ciò che non si comprende è più facile, per le persone limitate.

    Così prendevo un bel respiro e solamente quando mi ero nuovamente tranquillizzato, varcavo la soglia d’ingresso dell’azienda. Era sufficiente indossare un sorriso di circostanza e nessuno si accorgeva del mio malessere.

    In fondo basta indossare sempre la maschera giusta in ogni occasione e nessuno si accorgerà mai di nulla. Sono poche le persone che si interessano veramente alle altre e riescono a vedere oltre alle maschere di circostanza. Si chiamano amici.

    Perché alla fine il mondo è un grande palcoscenico dove però le parti sono mal distribuite, ma se sei un bravo attore, non rischi che qualcuno ti faccia domande scomode alle quali non vuoi rispondere.

    Comunque nessuno si accorgeva del mio disagio interiore perché erano tutti troppo occupati a correre. Perché ormai non si trattava più di lavorare a ritmo sostenuto, ma di correre.

    Purtroppo per me durante il viaggio di ritorno si materializzava il medesimo copione. Piangevo per l’intera durata del tragitto verso casa e anche lì, una volta arrivato a destinazione, attendevo qualche minuto in macchina in

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