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I due che salvarono il Natale
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E-book169 pagine2 ore

I due che salvarono il Natale

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Info su questo ebook

Nel sud della Toscana, ai piedi di un antico vulcano, sorge un paese i cui abitanti lavorano quasi tutti in una grande miniera. Il lavoro è duro e procede incessante. Ma ogni anno il trambusto si ferma alla vigilia di Natale: la sera delle Fiaccole.
L’usanza vuole che per quella magica notte siano erette alte pire di legna che quasi arrivano ai comignoli dei tetti e che verranno poi incendiate, riscaldando la Notte Santa. Ce n’è una per ogni via e tutti gli abitanti si prodigano nella loro preparazione. Non sanno da quanto tempo si facciano, ma chiunque – dal più giovane al più anziano – giurerebbe di averle sempre viste fare.
Ma che succede se qualcuno, in nome di interessi molto più materiali, vuol far lavorare gli uomini anche durante il Natale?
È proprio il tentativo di ignorare questa usanza ad accendere la miccia della storia, che si dipana tra lotte operaie, padroni che al posto del cuore hanno un portafogli, bambini che sanno come creare il giusto scompiglio per rimettere tutto a posto e adulti che per una causa – dalla più pura e delicata alla più illecita – possono rischiare la propria vita.
LinguaItaliano
Data di uscita19 ott 2018
ISBN9788893720618
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    Anteprima del libro

    I due che salvarono il Natale - Marco Fabbrini

    XXIII

    CAPITOLO I

    Nel sud della Toscana, ai piedi di un antico vulcano – una montagna solitaria che si erge solenne e austera sopra le docili colline come un guardiano che sorveglia la valle – stava un piccolo paese. Non così piccolo in realtà, se paragonato agli altri borghi della montagna, ma certo non tanto grande da potersi dire città.

    L’agglomerato delle case si allungava come il corpo di un sinuoso rettile, risalendo a ritroso fianco a fianco ai torrenti che scendevano verso valle, e proseguiva fino a raggiungere ampi e fecondi castagneti. Alcuni dei suoi abitanti, i più coraggiosi, arrivavano a popolare addirittura l’immensa faggeta che si arrampicava sino al cucuzzolo della montagna.

    Ai due estremi del paese c’erano un borgo antico, medievale, grigio come la roccia di trachite figlia delle viscere del vulcano da cui era venuta e, dall’altra parte, una vasta e rumorosa miniera, in piena attività come ogni progenie del progresso umano di quel tempo. Come due contendenti che si odiano, si studiano e si sfidano, il borgo e la miniera parevano costantemente scrutarsi a vicenda con aria di contesa, come due vecchi rancorosi che serbano in silenzio il loro ancestrale risentimento.

    Gli uomini che popolavano quel luogo sembravano non curarsene affatto e trascorrevano pacificamente le loro giornate facendo avanti e indietro tra il borgo e la miniera, tra la miniera e il borgo, lasciando che a scandire il tempo fosse il suono lungo e cantilenante di una sirena, che loro chiamavano la corna.

    L’aria fresca di dicembre già sferzava le chiome giallo oro degli alberi, sminuzzate dal vento e accartocciate come tanti origami di carta, e s’insinuava, molesta, dentro le strette viuzze del paese.

    Tornando a casa, dopo il duro lavoro da cavapietre, gli uomini dovevano preoccuparsi che non mancasse la legna per i camini e per le stufe, ma a volte erano così stanchi che l’unica cosa che riuscivano a fare era sbronzarsi, con una fiaschetta di vino delle loro vigne, digiuni o con appena una ciotola di acqua cotta nello stomaco.

    In una di queste case, una delle prime del nucleo più antico del borgo, viveva la famiglia di Mino. Mino, che stava per Ultimino, come si capisce bene dal nome era l’ultimo di cinque fratelli e tutti insieme, con la mamma e il babbo, vivevano in una casa che non era più grande di una stalla, anche se la stalla ce l’avevano comunque, piccola che c’entrava giusto un po’ di legna e un’asina. Dormivano tutti in quell’unica grande stanza con letti stretti, imbottiti di paglia e fieno, e di pulci e pidocchi che certo non potevano lasciarsi scappare un’opportunità così ghiotta.

    «Vedrete che adesso che ho trovato lavoro in miniera le cose miglioreranno per noi. Hanno detto che tra qualche tempo ci porteranno anche la luce», diceva spesso il padre.

    Mino non aveva mai capito perché dovessero portare loro la luce. Dopotutto ci pensava già il sole e, anche se non l’aveva confidato a nessuno, un po’ questa storia della luce lo preoccupava. A lui stava bene così com’era. Di giorno c’è la luce, di notte c’è il buio e, sebbene molti dei suoi amici non avessero mai nascosto di esserne spaventati, a lui il buio non aveva mai fatto paura. Che problema c’era? Bastava chiudere gli occhi e dormire.

    Quella sera, come ogni sera da quando suo padre era stato assunto alla miniera, Mino uscì di casa al suono della corna e si diresse di corsa fino al lavatoio che stava proprio davanti alle vecchie mura per assistere alla sciolta, la lunga fila di minatori che, come un serpentone, tornava verso valle nel silenzio, accompagnata solo dal suono dei passi sul sentiero sterrato. Era inconfondibile quel suono, lo si sentiva giungere da lontano come si avverte piano piano l’avvicinarsi di un temporale. Poi, all’improvviso, quel mare di volti inscuriti dalla polvere e quei sorrisi stanchi. Gli uomini si salutavano con battute di spirito per cercare di sollevarsi il morale, alcuni di loro si abbracciavano come se fossero fratelli, felici di poter ripetere ancora una volta quel rito quotidiano, poi finalmente se ne tornavano a casa.

    CAPITOLO II

    «Mino, va’ a prendere la legna dal boscaiolo!»

    Il padre di Mino se ne stava seduto, con la testa china sul tavolo, una mano sulla coscia a sorreggere il peso del busto, l’altra ben salda sulla fiaschetta del vino. L’ordine era suonato deciso, autoritario.

    «Babbo, ma perché ci devo andare sempre io dal boscaiolo? Terzide la mandi sempre a prendere l’acqua alla fonte e Primetta ogni volta va con mamma a lavare i panni al lavatoio. Perché qualche volta non posso andarci io al posto loro?», protestò Mino.

    Suo padre si voltò lentamente, lo sguardo stanco e severo.

    «Perché tu sei un maschio, Mino, e bisogna che cominci a capire che presto diventerai un uomo. Hai otto anni e tra qualche stagione farai il battesimo del minatore. Dovrai imparare la dura vita di noi uomini di montagna: la mattina presto l’orto, il giorno la miniera e le sere dalla primavera all’autunno la vigna – sorrise amaro, gli occhi che gli si chiudevano per il sonno e per la sbronza, – proprio quello che è toccato l’anno scorso ad Alvisio», concluse indicando il fratello di Mino che se ne stava seduto su una sedia mezza rotta davanti al camino acceso, con la gamba steccata e una gruccia di legno sotto l’ascella.

    Alvisio aveva quattordici anni. Era l’unico maschio dei cinque fratelli assieme a Mino ed era stato il primo a ricevere il battesimo del minatore. Così gli operai della miniera chiamavano quel momento indelebile nella vita di ognuno di loro in cui per la prima volta erano entrati a lavorare nelle viscere della montagna. Calandosi nel pozzo a torso nudo, mentre la temperatura saliva fino a far sudare, ci si immergeva nel buio pesto della miniera, un buio come non ne esistevano fuori da quelle scure gallerie, nero come il carbone e contrastato solo dalla flebile fiammella di una lampada ad acetilene. Da quel momento il minatore al tuo fianco diventava tuo fratello, la sua vita dipendeva dalla tua e, d’altro canto, in caso di pericolo lui sarebbe stato l’unico in grado di proteggerti. Ma Alvisio era stato proprio sfortunato, soltanto al terzo giorno di lavoro un carrello carico di pietra grezza si era staccato dalla fila e gli aveva preso in pieno una gamba. Il dottore che l’aveva curato aveva detto ai genitori che con il volere di Dio forse il giovane sarebbe guarito, ma probabilmente sarebbe rimasto zoppo per tutto il resto della vita. Il padre non l’aveva presa bene, un figlio che lavora alla miniera porta a casa uno stipendio, un figlio sano aiuta nell’orto e nella vigna, un figlio storpio porta solo via da mangiare e, in una delle sue solite sbronze, questa frase gli era scappata detta. La loro mamma si era messa a piangere, ma era stato Alvisio per primo a dire che il babbo aveva ragione e, se prima dell’incidente era un giovane sorridente, solare e pieno di energie, da quel giorno era diventato cupo e scontroso e passava le giornate in silenzio a contemplare le faville del focolare.

    «Va’ dal boscaiolo Mino. Porta con te Erminia se hai paura», concluse il babbo.

    La bambina, sentito il suo nome, guardò il fratello con il sorriso bucherellato per via del fatto che i denti da latte se n’erano andati, ma quelli nuovi erano davvero troppo pigri a ricrescere. Era solo di un anno più grande di Mino, ma era raro che suo padre le permettesse ancora di svolgere qualche commissione.

    «Avete sentito cosa ha detto babbo?» intervenne la mamma con voce severa, avvicinandosi a loro con una fiaschetta di vino e un sacchetto di patate. «Date questo al boscaiolo e fatevi dare la legna di cerro da quel furfante. L’ultima volta ti sei fatto buggerare Mino, ti ha dato tutta legna di castagno che brucia in fretta e scalda poco».

    La capanna del boscaiolo non era molto distante dal paese, si doveva scendere il poggio passando per delle larghe e basse scalette che uscivano da una delle porte più antiche, proseguire ancora fin fuori le mura, attraversare un ponticello di pietra che sovrastava un torrente – proprio davanti al laghetto che raccoglieva a valle le acque sorgive della montagna – e poi risalire un breve pendio sino al limitare del bosco.

    Mino aveva sistemato l’imbragatura della loro asina e aveva sciolto la fune dal gancio nel muro.

    «Perché non vuoi mai andare dal boscaiolo?» chiese candidamente Erminia, comodamente appollaiata sul dorso dell’asina, mentre Mino tirava forte su per la salita sperando che la bestia non si impuntasse.

    «Tu non ci sei mai stata. Non lo sai com’è!» borbottò il fratello.

    «No che non lo so, è brutto?»

    «Brutto? È il Bobo Nero!»

    Erminia rannicchiò le gambe tra le braccia, rischiando quasi di perdere l’equilibrio. Il Bobo Nero era il suo incubo peggiore. La mamma la minacciava sin da piccola che se non si fosse addormentata la sera senza fare troppe storie il Bobo Nero sarebbe venuto a prendersela e nessuno avrebbe potuto farci un bel niente. All’inizio in realtà l’idea non faceva altro che impaurirla al punto da farla scoppiare in lacrime, ma con il tempo il terrore era diventato tale che, davanti alla minaccia di essere rapita da quel mostro, si infilava a letto e chiudeva forte gli occhi nella speranza di addormentarsi prima possibile.

    «Voglio dire, è brutto come il Bobo Nero, ma non è proprio lui» cercò di rinfrancarla Mino dopo averne colto il terrore nello sguardo.

    Il boscaiolo viveva, neanche a dirlo, in una capanna di legno che si era costruito da solo, trasportando sin dalla cima della montagna solidi tronchi di faggio. Davanti all’ingresso, lo spiazzo di terra smossa e segatura profumava di resina e puzzava di fumo allo stesso tempo, mentre tranci di legna spaccata erano poggiati disordinatamente attorno a un ceppo sul quale era piantata una grossa accetta rugginosa.

    Mino ed Erminia rimasero in silenzio a guardarsi attorno. Il silenzio durò abbastanza da metter loro paura finché all’improvviso l’asina ragliò facendoli sobbalzare.

    La porta della capanna cigolò, quasi avesse voluto rispondere al verso dell’animale, e dalla porta uscì un uomo enorme, nerboruto, con la barba incolta e brizzolata e un grosso cappello di pelliccia sulla testa. I vestiti erano sporchi, anneriti dalla fuliggine e scuriti dalla terra, la pelle e le unghie delle sue grandi mani erano così rovinate dal tempo e dal logorio da sembrare grigie.

    L’uomo restò immobile davanti all’uscio a fissare i due ragazzini che lo guardavano impietriti.

    «Beh, che volete?» la voce dell’uomo suonò profonda e impetuosa come il suono di un corno.

    «Sono Mino Sabbatini» balbettò il ragazzo cercando di farsi coraggio e si affrettò a mostrare il carico dell’asina, con la fiaschetta di vino e il sacchetto di patate. «Il mio babbo ci ha mandato a prendere la legna per il camino».

    L’uomo sospirò, poi guardò all’improvviso Erminia. Quando vide gli occhi freddi di quel gigante puntati su di sé, la bambina rabbrividì.

    «Bene allora. Ho dell’ottima legna di castagno che i miei cavalli hanno portato giù dalla montagna proprio stamattina» disse il boscaiolo, avvicinandosi ai beni ricevuti in baratto. «Ma con queste poche patate e il vino cattivo del tuo babbo non so quanta potrò darvene».

    Erminia guardò il fratello.

    «Di cerro, Mino. Devi dirgli che vogliamo legna di cerro» disse sottovoce.

    Mino scosse la testa.

    «Diglielo tu se ci riesci!»

    Il boscaiolo li sentì bisbigliare.

    «C’è qualcosa che non va?»

    I due fratelli rimasero in silenzio, sapevano che tornare a casa con il castagno avrebbe fatto infuriare i loro genitori, ma la sola idea di contraddire quell’energumeno li terrorizzava.

    «Vorremmo legna di cerro», la vocina timida di Erminia sfiorò l’aria come una corda di violino appena pizzicata.

    L’uomo emise una specie di grugnito. Poi guardò di nuovo la fiaschetta del vino e la sacchetta delle patate e alzò le spalle.

    «Mino ha sempre preso la legna di castagno, pensavo che il vostro babbo la preferisse. Di cerro ne ho poca e vecchia, ma basterà» affermò voltandosi e dirigendosi verso il retro della capanna.

    Mino ed Erminia si scambiarono uno sguardo incredulo.

    Dopo che il boscaiolo ebbe caricato la soma, i due si affrettarono a rincasare sotto il cielo imbrunito dall’imminente calare delle tenebre. Il vento freddo si era fatto più pungente e seccava le labbra e le mani e per le strette vie

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