Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il romanzo del grande Torino
Il romanzo del grande Torino
Il romanzo del grande Torino
E-book491 pagine6 ore

Il romanzo del grande Torino

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

La storia esaltante di una memorabile e irripetibile squadra di calcio e dei suoi campioni che il fato ha trasformato in leggenda

4 maggio 1949: precipita sulla collina di Superga l’aereo su cui viaggiavano i calciatori del grande Torino. Sgomento e dolore negli italiani. Con la terribile sciagura scompaiono gli uomini, ma le loro gesta divengono subito leggenda. La storia della mitica squadra che ci fece sognare e soffrire in un periodo particolarmente difficile per il Paese viene riportata in vita in queste pagine esaltanti con autentico entusiasmo e commossa partecipazione. Dopo avere raccolto materiale di ogni genere e soprattutto dopo avere ascoltato, custodito e confrontato tante diverse narrazioni, i due autori l’hanno ricostruita con dovizia di particolari umani e sportivi, attenti a descrivere le singole memorabili personalità. La nascita della squadra, la lungimiranza del Presidente Novo nell’acquisto di tanti prestigiosi fuoriclasse, il successo e le vittorie nei campionati italiani fino al tragico epilogo del ’49 vengono ripercorsi da chi ha condiviso la magia prima e il dolore poi di un capitolo fondamentale del calcio e del costume italiani.

• La forza di un’idea (1939-1944)

• Torino chiama

• È tempo di migrare

• I «gemelli» veneziani

• La gloria è alle porte

• Una splendida accoppiata

• Guerra a parte

• La macchina perfetta (1945-1947)

• Ogni pezzo al suo posto

• Cugini lontani e… vicini

• Uno scudetto vinto due volte

• Parola d’ordine: programmare

• Il gusto di vincere • Il terzo tricolore

• Dentro la leggenda (1948-1949)

• Contratti, vacanze e sogni

• Magia di un campo

• Gioie e dolori in azzurro

• Storie di uomini e cose

• Novo, il grande stratega

• Grande Torino, per sempre

• Campioni, per sempre

Franco Ossola

Franco Ossola Junior, torinese, figlio dell’omonimo campione del Grande Torino caduto a Superga, architetto e scrittore, collabora con quotidiani sportivi e si occupa di editoria. È autore di numerosi libri tra cui, I 30 grandi del Torino, Grande Torino per sempre! (Premio Speciale del CONI 1999), Cuore Toro, Un secolo di Toro (con l’artista Giampaolo Muliari), 365 volte Toro, 100 anni da Toro e Grande Torino: la storia a fumetti (con Paolo Fizzarotti e Emilio Grasso). Con la Newton Compton ha pubblicato 101 motivi per odiare la Juventus e tifare il Torino, 101 gol che hanno fatto grande il Torino; e, a quattro mani con Renato Tavella, ha scritto Cento anni di calcio italiano (Premio Selezione Bancarella 1998) e Il romanzo del Grande Torino (Premio CONI e Selezione Bancarella 1995), da cui è stata tratta la fiction RAI in due puntate Il Grande Torino, per la regia di Claudio Bonivento.

Renato Tavella

Nato a Torino e supporter bianconero DOC, dopo le giovanili esperienze calcistiche nella Juventus si è dedicato al giornalismo sportivo. Ha pubblicato vari libri, tra cui Un uomo, un giocatore, un mito: Valentino Mazzola, e i testi per l’infanzia Nel Paese di Giocapalla e Sei favole e una torta. Per la Newton Compton ha scritto Il romanzo della grande Juventus; Dizionario della grande Juventus; 101 gol che hanno fatto grande la Juventus; Il Libro nero del calcio italiano, Nasce un mito: Juventus! e, insieme a Franco Ossola, Il romanzo del grande Torino (libro che ha ispirato la fiction televisiva RAI del 2005, Premio Selezione Bancarella Sport e Premio CONI) e Cento anni di calcio italiano (Premio Selezione Bancarella Sport e Premio Paladino d’oro della città di Palermo).
LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2015
ISBN9788854187221
Il romanzo del grande Torino

Leggi altro di Renato Tavella

Correlato a Il romanzo del grande Torino

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Calcio per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il romanzo del grande Torino

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il romanzo del grande Torino - Renato Tavella

    La forza di un’idea

    1939/1944

    Torino chiama

    Una valigia piena di libri

    La stazione a quell’ora era deserta.

    D’altra parte era presto, non poteva essere altrimenti. A preferire quell’orario aveva comunque fatto bene, partire di buon’ora e arrivare a Torino con largo anticipo voleva dire poter raggiungere con tutta calma il luogo dell’appuntamento. Che la via Alfieri fosse poi poco distante dalla stazione di Porta Nuova, come gli avevan detto, tanto meglio. Sapere di poter contare su di un discreto margine di tempo, in un certo senso, lo rassicurava. Non con questo perché fosse particolarmente emotivo; semplicemente gli piaceva fare le cose bene, senza troppo concedere all’improvvisazione.

    Meno che mai lo sfiorava il pensiero di poter rischiare un minimo intoppo quel giorno, nell’occasione più importante creatasi nella sua vita fino a quel momento.

    Avrebbe dovuto accompagnarlo il padre, ci teneva tanto. Ma proprio il giorno prima un improvviso, inderogabile impegno di lavoro lo aveva costretto a lasciare la città in fretta e furia. Tutto sommato era forse meglio così, perché alla sua inevitabile agitazione non avrebbe potuto sottrarre quella del genitore e alla prospettiva di un viaggio in auto, tempestato dalle raccomandazioni paterne, preferiva di gran lunga quella di un tranquillo trasferimento in treno, solo con i suoi pensieri.

    Si sforzò fino all’ultimo di tenere sott’occhio il tabellone con la scritta Varese e solo quando quelle poche lettere sbiadite si fusero in un’unica macchia bianca ed indistinta, risollevato il finestrino, decise di non pensarci più.

    Nello scompartimento non c’era nessuno. Avrebbe potuto leggere. O, meglio ancora, dare una scorsa ai libri di scuola, lasciati da poco, ma che altrettanto presto sarebbero ridiventati il pane quotidiano, insieme ad allenamenti e partite naturalmente.

    Aperta la valigia pescò a caso nel mucchio. Ne venne fuori la sua persecuzione: la grammatica greca. La ricacciò sul fondo con un gesto almeno tanto rapido quanto istintivo, ripiegando, quasi per scendere a patti con la coscienza, sulla sintassi latina – lasciando l’antologia italiana, certo più appetita, accanto al pigiama a righe.

    Vi erano più libri che vestiti in quella valigia nuova di zecca che la famiglia al gran completo gli aveva regalato per festeggiare quel grande avvenimento. Richiudendola, con un gesto che pareva più una carezza che altro, si ripromise che non se ne sarebbe mai liberato, qualunque via il destino gli avesse fatto percorrere.

    Si sedette ed aprì il libro alla prima pagina.

    OSSOLA FRANCO, aveva scritto con chiara ed ordinata scrittura sul frontespizio. I Liceo Classico, Collegio Salesiano «Gallio», COMO.

    D’improvviso un lampo: una camerata di giovani, le risate spensierate, le lunghe giornate di studio intenso; ma anche le ore di piacevole svago, la «Prealpi» su tutto, la loro squadretta di calcio. Niente male davvero, per un gruppetto di amici. E tutti a mettersi in mostra quando capitava di scendere a Varese per sfidare i cadetti del glorioso sodalizio biancorosso.

    Era stato proprio in una di quelle occasioni che Fàtterer, l’allenatore ungherese dei varesini, lo aveva notato e tesserato senza indugio. In un baleno dagli allievi era passato nelle file delle riserve.

    Il Football Club Varese in quel 1938 disputava il torneo nazionale di Serie C e disponeva di una valida compagine.

    In principio per lui non c’era stato spazio; ma con l’inizio del nuovo torneo, era entrato nella rosa dei titolari e aveva avuto la soddisfazione dell’esordio.

    Era stato chiamato nel frattempo alla guida della squadra un uomo eccezionale: Antonio Janni. Già allenatore del Torino e prima ancora con la squadra granata mitico atleta campione d’Italia, convocato più volte a vestire la maglia della nazionale italiana, Janni, sopra ogni cosa, era rimasto del suo Torino un ambasciatore itinerante. «Gioca davvero bene ’sto Ossola», deve senz’altro aver detto ai dirigenti granata il signor Janni. E dette da lui, certe parole, si sa...

    Il treno ebbe un sobbalzo. Tra lo stridore dei freni ed il clangore di ammortizzatori che impattavano fra loro, una voce assonnata comunicava da un gracchiante altoparlante: «NOVARA, NOVARA, stazione di NOVARA».

    Franco trasalì. Era già oltre la metà strada e, malgrado tutte le buone intenzioni, non aveva ancora letto due sole righe di sintassi. Al solito. Si impose di non distrarsi più e prese a sfogliare il libro: rivide le pieghe all’angolo dei fogli, le croci e le sottolineature che facevano di ogni pagina un campo di battaglia.

    Ma evidentemente stava scritto: di quel tempo, per studiare, non avrebbe potuto far tesoro. Quasi come un comico destino avesse voluto fargli riprendere il filo interrotto dei suoi ricordi, da una pagina scivolò fuori un roseo ritaglio di giornale. Con un volteggio leggero si adagiò a terra, ammiccando, come ad invitarlo a raccoglierlo. Lo riconobbe a volo.

    Era la cronaca della sua partita d’esordio: Legnano-Varese, finita in parità uno ad uno. L’occhio gli cadde all’istante su alcune righe ben sottolineate. L’articolista, Nino Oppio, aveva speso non poche parole per lui:

    C’è un elogio nuovo, che va dritto dritto a quel ragazzo, 18 anni, che Janni ha pescato nelle riserve per farne un titolare. Si chiama Ossola e gioca alla mezza destra; la sua partita è stata un gioiello di ricami, di passaggi, di azioni impostate, sviluppate ed anche concluse con tiri saettanti. Una continuità ed una sicurezza di gioco degne di un giocatore arrivato. È troppo presto ed è troppo poca cosa una sola gara a giudicare un atleta, ma Ossola è una bella promessa e le possibilità per andare lontano ed i mezzi ci sono...

    Terminato di scorrere quelle poche righe, mentre alla mente gli si riaffacciavano i momenti salienti di quel felice esordio, gli venne da ridere e disse tra sé e sé:

    «Eccomi qui, caro Oppio. Come vedi mi sto già muovendo. Non che Torino sia in capo al mondo, ma è certo lontano per come la intendi tu... è però così, lontano lo è anche per me, non mi pare vero!».

    Pensare di andare a giocare con atleti ormai affermati come Baldi, Osvaldo Ferrini, Gallea, Neri, Petron era una sensazione indescrivibile. Per non dire di Olivieri, un campione del mondo!

    Il bigliettaio dovette dargli un colpetto sulla spalla:

    «Coraggio, giovanotto, esibite il biglietto».

    Ancora con la testa tra le nuvole, Ossola gli allungò istintivamente il ritaglio di giornale. Allo sguardo stralunato del controllore si lasciò sfuggire un sorriso, rovistò nella tasca, e tratto finalmente fuori il tagliando, azzardò:

    «Scusate, ma voi per quale squadra calcistica tenete?».

    La risposta fu secca e decisa: «Per la Juventus, che domanda. Su, coraggio, piuttosto preparate i bagagli, tra un attimo siamo a Porta Nuova».

    «Come as fà a esse dèi Turin, che a guadagna mai niente!», borbottò ancora il ferroviere mentre si allontanava. «La Juve invece...»

    Franco volse lo sguardo al finestrino e vide le pensiline della stazione scorrere sempre più lentamente, fino a fermarsi fisse nei suoi occhi. Ricacciò allora sintassi ed articolo in valigia, afferrò la giacca, si rimise in ordine i capelli – anche se sapeva di non averne bisogno – e si affacciò nel corridoio.

    Il cuore, che fino a quel momento non aveva dato segni di agitazione, incominciò a martellare forte, più forte persino dello stantuffo della motrice.

    Poi, di colpo, una placida quiete: ebbe la certezza di essere arrivato fin lì non soltanto per incontrarsi con il presidente del Torino, Ferruccio Novo, ma quasi per dare inizio e compimento a qualcosa di più importante e profondo.

    Con un brivido sentì la mano del destino come a sospingerlo giù dal treno.

    Era arrivato.

    Il Football Club Torino

    Torino, dove fabbricano la Fiat. Come tanti ragazzi Franco associava al capoluogo piemontese l’automobile, giovane sogno, in quegli anni, di molti giovani. Conosceva, certo, i trascorsi risorgimentali della città, l’eleganza dei suoi giardini e delle sue piazze, dei suoi Caffè, dei suoi negozi, delle sue «tote»... Che poi Torino fosse anche detta «la piccola Parigi», Antonio Janni, da bravo piemontese, glielo aveva sottolineato più d’una volta.

    «Vedrai, Franco», non si era stancato di ripetergli il buon Janni, «vedrai, al Toro ti troverai come a casa. E al Valentino, e in riva al Po, ti piacerà: ti piacerà come a Varese!»

    Ma che imboccando i portici di corso Vittorio Emanuele, appena fuori dalla stazione, ci si ritrovasse a camminare per «la gran via del vermut», questo proprio Franco Ossola quando giunse a Torino non lo sapeva; ancora nessuno glielo aveva detto.

    Solo in seguito conobbe il curioso particolare che, legato al mondo del calcio da un sottilissimo filo, riconduce la storia granata ai suoi albori.

    Granata è il colore della maglia scelto il 3 dicembre 1906, giorno in cui prese corpo, in una sala della Birreria Voigt, la squadra del Torino. Ma i granata rivendicano, e pare con ragione, la discendenza e trasformazione dal «Football Cricket Club», prima società in Italia ad aver praticato nel 1887 il moderno gioco del calcio, nonché dal «Football Club Internazionale» sorto a Torino nel 1890 e dal «Football Club Torinese» costituitosi sempre a Torino nel 1894. È infatti provato che al di là dei mutamenti di denominazione sono quasi sempre le stesse persone a dar vita all’organizzazione di queste società, stessi i giocatori che sui prati o sugli acciottolati cittadini si disputavano il possesso del pallone sotto gli sguardi stupiti della gente. Intemazionale e Torinese quindi si fusero, conservando la denominazione di «Football Club Torinese», finché nel novembre del 1906, in seguito al distacco dal «Football Club Juventus» di alcuni soci, questi si accordavano con altri della «Torinese» per fondare il «Football Club Torino». Il baffuto signor Hans Schoenbrod, eletto per acclamazione, è del F.C. Torino il primo presidente.

    Come si vede in questo parto c’è anche un po’ di Juventus, l’altra squadra torinese nata nel novembre del 1897 da un’iniziativa di alcuni studenti del Liceo Massimo D’Azeglio. Nascere sotto lo stesso tetto, e insieme seguitare a viverci, prima o poi, si sa, genera motivi di confronto. La tradizionale casacca a «righe» bianconera, con cui la Juventus veste i suoi calciatori, diventa così presto oggetto di rivalità sportiva di campanile per la neonata maglia granata, e viceversa. Ma per rievocare quegli anni degli inizi è necessario affidarsi al classico e fantasioso c’era una volta il calcio, quello epico, quello delle porte senza reti, dei campi senza tribune, dei lunghi mutandoni e delle grandi cavalcate nel pantano, della passione pionieristica di tifosi e giocatori. Quello dei Bollinger, Ferrari-Orsi, Muettzell, Ghiglione, Kempher, Jaquet, Rodgers, Streule, Michel, De Fernex, Fresia, Zuffi, Morelli... e poi dei fratelli Bachmann, Mosso, Capra, Arioni... e ancora dei De Marchi, Morando, Tirone... e di quel primo trainer, giovane, ma già accreditato, che risponde al nome di Vittorio Pozzo. Tanti personaggi che consentirono al Torino, fin dalle prime gare, di essere degno rappresentante di quel calcio piemontese che nel periodo precedente la Grande Guerra fu vessillifero del movimento calcistico italiano. La stessa prima nazionale italiana, scesa in campo a Milano nel maggio del 1910 contro la Francia, vedeva presente nei ranghi due atleti del Torino: Capello e De Bernardi.

    Tutto ciò avveniva mentre nella Torino città stava nascendo la grande industria automobilistica. Le Lancia e le Fiat cominciavano a circolare sulle piazze un po’ ovunque, contribuendo ad accrescere il prestigio del capoluogo piemontese al pari della sua pasticceria e dei suoi notissimi vermut. I manifesti colorati che pubblicizzavano l’aperitivo della Carpano o della Cora, della Martini e Rossi, della Gancia o della Cinzano si potevano vedere sui muri di tutte le città d’Italia. I torinesi, negli anni successivi alla Grande Guerra, chiamavano addirittura «gran via del vermut» il loro centralissimo corso Vittorio Emanuele, visto che al numero 42 vi era la Martini e Rossi, al 62 la Carpano e all’86 la Cinzano. E proprio al nome di quest’ultima azienda, al conte Enrico Marone Cinzano, titolare dell’omonima ditta, si legano i primi trionfi del Torino.

    Ma, sulla «via del vermut», c’era da scommetterci, una lacrima d’aperitivo l’aveva versata pure la Juventus. La Martini e Rossi annovera infatti tra i soci fondatori, nel lontano fine ’700, il signor Michele Agnel. La grafia di molti cognomi, oscillanti tra il francese e l’italiano, era in quel tempo ancora incerta, ma certo è che il signor Agnel era il nonno del senatore Agnelli, fondatore della Fiat e noto padre della società juventina.

    Il conte Enrico Marone Cinzano giunse alla presidenza del Torino nel 1924.

    Dopo l’oscuro periodo della prima guerra mondiale, che tra i milioni di morti aveva visto anche il sacrificio di molti giocatori granata, la Società era passata attraverso le presidenze del Commendator Luigi Paissa e dell’avvocato Giuseppe Bevione vivendo periodi di importante trasformazione.

    Ora, col conte sulla poltrona presidenziale, per la prima volta si sente parlare di scudetto, di Grande Torino.

    Il conte era il classico gentiluomo torinese, molto serio, appassionato di calcio fin dai tempi in cui il Torino giocava nella «tana» del Velodromo Umberto i, un impianto nei pressi dell’Ospedale Mauriziano. Attraverso operazioni di mercato leggendarie fa subito arrivare dall’Argentina Julio Libonatti, dall’Alessandria Adolfo Baloncieri e poi Bosia, Colombari, Gino Rossetti... Antonio Janni, pietra miliare del complesso, era di Santena, un paesino distante da Torino una ventina di chilometri, e nel Torino aveva esordito quando portava ancora i calzoni corti, cioè nel ’21, a soli sedici anni. Ma vediamoli i campioni che consecutivamente furono primi in classifica nei campionati 1926/27 e ’27/’28, giunti altre due volte secondi nel ’25/’26 e nel ’28/’29 e a cui è stata affidata, il 17 ottobre 1926, l’inaugurazione del «Campo Torino» di via Filadelfia – con l’andar del tempo diventato familiarmente il «Filadelfia».

    Bosia, Monti III, Martin II; Colombari, Janni, Sperone; Vezzani, Baloncieri, Libonatti, Rossetti, Franzoni. Allenatore: Tony Cargnelli.

    Uno squadrone. Alla pratica ed efficace intuizione di Bosia ben si sposavano, nel reparto difensivo, la grinta mai doma di gladiatori come Monti e Sperone, lo stile temprato da mille avventure di Martin n, l’azione elegante di Colombari.

    Nella fascia topica del campo, a farla da padroni, giostravano con rara maestria Janni e Baloncieri. Una spanna più su di tutti i compagni, rappresentavano il primo il cosiddetto centrhalf, ed il secondo il regista, entrambi ideatori e ispiratori di gioco. Le gambe ad infaticabile stantuffo e l’intuizione di Gino Rossetti coadiuvano il lavoro per gli attaccanti Vezzani e Franzoni, due ali rapide e scattanti, pericolose, che trovavano l’apice al centro dell’area avversaria dove si muoveva il funambolico Libonatti, giocatore capace di fare, di tanto in tanto, vilipesa «puntonata», stilisticamente parlando, un tiro ad effetto e classe tanto potente quanto preciso.

    Guidati dal trainer Tony Cargnelli, un austriaco tutto d’un pezzo ma in possesso di una mentalità sufficientemente aperta, questi campioni si vedono revocare il titolo conquistato nel ’26/’27 per un presunto illecito sportivo. Sospetti mai approfonditi, tanto meno accertati, erano sorti attorno al comportamento del difensore juventino Allemandi, accusato di aver favorito la vittoria del Torino nel derby di ritorno di quel campionato.

    Una persona seria come il conte Marone Cinzano non poteva certo accettare accuse di illecito sportivo. Deluso da questo pasticcio e dall’ambiente calcistico, lascia la presidenza al generale Ferrari dopo che per il Torino aveva speso molto e dopo aver fatto sbocciare una grande Società.

    Una grande Società rappresentata sul campo da meravigliosi atleti come Janni, Baloncieri, Libonatti, Rossetti, un poker di campioni ch’erano poi anche la spina dorsale della nazionale italiana. Se quel dribblomane di Gino Rossetti portava da solo al «bàlon» in porta, Libonatti, insuperabile nel «fintare», preferiva calciare in porta solo quando era sicuro di fare gol. Di gol, al di là di come fossero, questi signori ne facevano comunque a grappoli, grazie anche ai fari sempre accesi di Janni e Baloncieri.

    Janni, sintesi perfetta di quello che doveva essere un atleta vero e completo: una riuscita miscela di intelligenza e buon senso, lealtà e cavalleria, velocità, padronanza tecnica, altruismo, efficacia. Il suo ruolo lo chiamava, di necessità, sempre nel cuore del gioco e lui non deludeva mai. Sono restate proverbiali le sue felici intuizioni nel farsi sempre trovare libero, le sue poderose azioni di interdizione, i suoi passaggi smarcanti per i compagni dell’attacco. Un lavoro sempre attento e tenace, puntiglioso, di alta caratura; certamente reso più agevole dal compagno di reparto, il grande Baloncieri.

    Baloncieri, il fuoriclasse che per intelligenza e padronanza del gioco aveva dato una svolta decisiva in tutto l’orientamento tecnico italiano.

    Già quando militava nell’Alessandria, squadra della sua provincia, si era imposto all’attenzione dei critici perché con le sue partite trasformava quella discreta compagine in una pericolosa avversaria per chiunque.

    Fu lui, addirittura, a strutturare un nuovo modo di giocare che veniva detto appunto «all’alessandrina». Si trattava, in sostanza, della realizzazione di passaggi con palla che viaggiava veloce rasoterra, in un continuo tourbillon di uomini, soprattutto quelli non in possesso di palla. In questo, Baloncieri era maestro. Dall’apoteosi alessandrina era passato al Torino, accompagnato dall’etichetta prematura di atleta finito. Ma ben aveva veduto il conte nel non lasciarselo sfuggire: Baloncieri era tutt’altro che al capolinea della carriera, aveva ancora tanta energia da sfruttare. Spirito e anima di questo Grande Torino, in campo era contemporaneamente regista e trascinatore, ispiratore e realizzatore, volendolo riassumere in una sola parola era il Capitano.

    In onore alla sua fulgida figura nacquero gli altrettanto mitici «Balon Boys», i terribili ragazzini delle formazioni giovanili granata che crescendo diventano campioni. Una «scuola» seguita e amata da Carlin Rocca, che applicando la «pedagogia» calcistica di Stiirmer ha promosso a pieni voti in prima squadra giocatori come Silano, Buscaglia, Osvaldo Ferrini, Pino Maina, Mario Bo, Cesare Gallea, Giacinto Ellena, Raf Vallone, Oberdan Ussello, Federico Allasio. Quest’ultimo, dagli amici della barriera cittadina, chiamato semplicemente «Fede».

    Con questi giocatori il Torino era ormai negli anni Trenta, periodo caratterizzato, nella sua prima parte, dallo strapotere dei vicini di casa juventini che si erano aggiudicati ben cinque scudetti consecutivi. Fatta salva l’edizione ’35/’36 della Coppa Italia, vinta dai granata sul campo di Genova a spese dell’Alessandria, il Torino di questi anni aveva invece vissuto senza brillare, tra una girandola di presidenti ed un alternarsi di allenatori.

    C’era stato, poi, sul finire del decennio, un risveglio con la presidenza Cuniberti e un bel secondo posto nel campionato ’38/’39. Siamo ormai sulla soglia degli anni Quaranta, con l’opinione pubblica preoccupata dall’occupazione della Cecoslovacchia e l’invasione della Polonia da parte della Germania nazista. I governi di tutte le nazioni erano in tensione, sempre più spesso sulle bocche della gente affiorava la terribile parola «guerra».

    In quelle stesse settimane l’ingegner Cuniberti aveva lasciato la massima carica del Torino, sulla poltrona presidenziale della Società sedeva, adesso, Ferruccio Novo.

    Mille lire al mese

    La Società fornirà al giuocatore il corredo di gioco che resterà di proprietà esclusiva della Società e verrà considerato come di rito in deposito al giuocatore stesso.

    Franco alzò per un attimo gli occhi dal foglio. Istintivamente voltò a destra, nella direzione in cui la via Alfieri conduceva nel cuore della città, in piazza San Carlo.

    Il giuocatore dovrà provvedere alla normale cura del corredo ed è tenuto al pagamento degli oggetti deteriorati o smarriti per sua colpa o negligenza.

    4°) Il giuocatore si impegna e si obblig a di seguire ed osservare tutte le istruzioni di carattere tecnico sportivo che saranno impartite dalla Società e dai suoi incaricati. Il giuocatore si impegna e si obbliga, inoltre;, di conservare continuamente e dovunque un contegno disciplinato e corretto, un tenore di vita regolare moralmente e fisicamente, una condotta sportiva e civile irreprensibile: ancora, il giuocatore accetta e si obbliga di rispettare gli statuti ed i regolamenti del la Federazione Italiana Giuoco Calcio, nonché gli statuti ed i regolamenti interni della Società...

    Il viavai spedito dei torinesi, indaffarati sempre, perfettamente uguali a come gli erano stati dipinti, lo distolse dalla lettura. Trotterellava invece pigramente qualche automobile, quasi i conducenti desiderassero godersi con calma lo spettacolo, composto e radioso, della superba piazza San Carlo, splendido esempio di geometrie architettoniche, culminanti, sul fondo, nella chiesa di Santa Cristina vitalizzata dal genio di Juvarra.

    Torino era piaciuta subito a Franco, sotto molti aspetti così vicina alla sua Varese: il centro con i portici, l’eleganza dei grandi negozi, la pulizia, l’ordine e poi quella fascia di collina tutt’attorno che lo riportava al dolce declinare delle Prealpi. S’infilò nel portico che si allungava nella via Roma e riprese di leggere. Era la quinta o sesta volta che si mangiava con gli occhi la copia fac-simile del contratto che lo legava al «Torino Calcio», e ogni volta che arrivava alla quarta ed ultima pagina, nel punto in cui, sul bianco del foglio, in lettere stampatello, spiccavano le scritte PER LA SOCIETÀ e IL GIUOCATORE – laddove, cioè, le parti avevano fissato il reciproco impegno – vedere la sua firma accostata a quella di Novo gli rinnovava l’emozione del momento da poco consumata. Alla grafia sicura, disinvolta e non del tutto leggibile del presidente, subito a fianco faceva bella mostra di sé la sua, nitida e chiara, certo, ma ancora così palesemente acerba che non sarebbe occorso un esperto calligrafo per intuire che la mano che l’aveva siglata non era ancora segnata dal tempo.

    Per un momento si guardò intorno. Poi ricominciò a leggere, dal principio: con un colpo secco rivoltò il contratto e ritrovò il titolo: «A 5861 CONI – Federazione Italiana Giuoco Calcio...» stava scritto in alto, sulla prima facciata. E qualche riga dopo, a metà del foglio, il punto cruciale dell’intero documento diceva:

    ...la Società si obbliga a corrispondere al Signor Franco Ossola, a partire dal giorno 1 agosto 1939 – XVIII un assegno fisso mensile posticipato di Lit. 1.000 (Lire mille lorde///) e Lit./// per indennità di alloggio; ed un premio speciale di ingaggio per una volta tanto di complessive Lit. 4.500 (Lire quattromila cinquecento) da pagarsi con l’osservanza delle Norme Federali...

    Guadagnare mille lire al mese, com’era risaputo per una nota canzonetta di quel tempo, rappresentava un’aspirazione per gran parte degli italiani. Si consideravano ben retribuiti quegli operai-specializzati o quegli impiegati comuni che raggiungevano al mese le cinque-seicento lire e, risparmiando con tenacia, avevano messo da parte milleduecentocinquanta lire per una radio 5 valvole Marelli e attraverso la musica dell’Eiar facevano sapere ai vicini di casa il loro indice di buone possibilità economiche.

    A Torino questo genere di lavoratore-medio era ben rappresentato. Abitavano, costoro, per lo più in soffitte del centro cittadino, dove spendevano per l’affitto poche decine di lire al mese, o in alloggi di due, tre stanze, nelle case della barriera di Nizza, della barriera di Milano, del borgo San Paolo, in Vanchiglia, con pigioni sulle cento lire. Naturalmente, queste case di tipo economico erano prive di ascensori, riscaldamento centrale, bagno, e avevano in maggioranza i gabinetti in comune sui balconi di ogni piano. Poi bisognava mangiare, vestirsi... ma, rispetto ad altri italiani, che vivevano in zone più arretrate, i torinesi potevano cantare meno chimericamente: «Se potessi avere, mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità. Un modesto impiego, io non ho pretese; voglio lavorare per poter alfin trovare tutta la tranquillità. Una casettina di periferia, una mogliettina, giovane e carina, tale e quale come te...».

    Anche Franco, rileggendo il suo «mille lire al mese», non potè fare a meno di richiamare alla mente le parole della canzone, quel motivetto allegro che aveva fischiettato chissà le volte e come lui milioni d’italiani. Sorrise.

    Ma il riso presto si spense. Già un istante dopo la vetrina lucente di un negozio gli aveva ritornato l’immagine del suo volto sereno ma serio, disteso ma pensoso. Troppo stridente la differenza tra sogno e realtà, anche per un ragazzo di diciott’anni appena compiuti. Sì, si doveva ritenere fortunato. Erano, comunque, meno banali di come gli erano parse quelle parole, quando si limitava a canticchiarle senza pensarci su, come sempre si fa con le canzonette, pensò.

    D’altra parte, che altro, lui pure, avrebbe desiderato di diverso e di più? Il lavoro, ammesso che divertirsi a prendere a pedate un pallone potesse definirsi tale, adesso ce l’aveva: a Varese vi era una casa sempre aperta, con mamma Angela pronta a saltar giù anche di notte per fare un buon caffè; in quanto alla mogliettina, era davvero troppo presto per pensarci.

    Anche se... una ragazza graziosa come quella vista la mattina in latteria, con una cascata di capelli bruni che le scendevano sulle spalle in ampie onde...

    Doveva ritornare, in quella latteria, oltretutto era vicinissima alla sede. Alla parola sede il suo pensiero tornò al contratto, agli impegni appena sottoscritti: era ora di rientrare.

    Anticipando i tempi, ma inaugurando un costume che negli anni a venire sarebbe diventato caratteristico non solo della Società granata ma di tanti sodalizi all’avanguardia, il Torino, pescando qua e là nei vivai di mezza Italia, aveva iniziato a raggruppare giovani atleti, le promesse sulle quali puntare, offrendo loro ospitalità in una pensioncina a due passi dalla Sede – particolare che, ovviamente, consentiva di tenere sotto controllo i movimenti di tutti, specie di chi si fosse fatto frullare per la testa qualche idea avventurosa.

    Con Ossola quell’estate erano arrivati numerosi altri acquisti di un certo peso, il cui inserimento in prima squadra, nelle intenzioni della dirigenza, avrebbe dovuto rivitalizzare un ambiente rimasto forse un po’ statico per troppo.

    Nell’elenco dei nuovi arrivi spiccavano i nomi di Marchini, Borrini, Ganelli, degli attaccanti Capri e Borsetti, di Michelini, Piacentini. Quest’ultimo, originario di Piombino, era cresciuto nel vivaio granata e veniva adesso promosso a pieni voti fra i titolari.

    Avevano suppergiù tutti la stessa età, si disse Franco. Pure simpatici, gli erano parsi. E con quel pensiero nella mente infilò l’atrio poco illuminato dell’edificio in cui si trovava la pensione. Al pomeriggio era prevista una seduta di allenamento: era bene andare al campo per tempo, cuore allegro e gambe pronte. Si mise a canticchiare, mentre saliva le scale, sottovoce.

    Il maestro magiaro

    Ferruccio Novo ci teneva a dar rilievo e immortalare il suo primo momento importante da presidente. Volle perciò farsi fotografare, al Filadelfia, in compagnia dei nuovi giocatori.

    Tant’era spaesato e intimidito, Franco, che di fronte all’obiettivo accennò appena un debole sorriso, simile ad una smorfia. Spalla a spalla, il presidente sorrideva, invece, con gli occhi, sicuro di sé, come ogni giorno.

    Torinese di «buona famiglia», con studi al rigoroso e blasonato Collegio San Giuseppe dei Fratelli delle Scuole Cristiane, Novo era un uomo di bell’aspetto, moderno di vedute, orgoglioso e ambizioso, conversatore brillante e attento ascoltatore. Aveva da poco compiuto quarantadue anni e da una trentina era innamorato del Torino. Risale infatti all’anno 1913, il primo cartellino firmato per il Torino dal sedicenne giocatore Ferruccio Novo.

    Seguendo i passi scanditi di una trafila di eventi lenta ma inesorabile, quasi come in una di quelle storie da romanzo d’appendice, via via da giocatore si era trasformato in accompagnatore, quindi in socio, dirigente, consigliere, fino a diventare, della Società, il presidente. La sua era stata dunque una scalata «fisiologica», come a dire naturale, quasi connaturata con lo svolgersi degli eventi della vita sua e del Club. Non approccio violento, un’operazione di possesso in virtù di mezzi e disponibilità finanziaria; ma un sicuro, pacato procedere verso la sintesi di un sogno, il cui raggiungimento si operò come fatto assolutamente conseguenziale ed inevitabile.

    Si trovava, oltretutto, in una posizione favorevole. Responsabile con il fratello Mario di un’avviata attività commerciale di cinghie ed attrezzature agricole, sapeva di potersi dedicare in maniera seria alla direzione del Torino poiché l’amatissimo fratello, anch’egli appassionato tifoso, era disposto ad accollarsi il peso maggiore della loro azienda. Nell’assumere la guida della Società pensava di poter trasferire, per quanto possibile, l’esperienza maturata nel mondo imprenditoriale alla gestione della «sua» compagine calcistica. Si prefiggeva perciò di agire secondo quegli schemi e quelle direttive che vigevano appunto nell’operato delle imprese industriali, ossia con prontezza, tempestività d’intervento, aggiornamento continuo e lungimiranza, attenzione ad ogni mutamento e, soprattutto, con buona disponibilità ad affrontare un rischio calcolato, anche a costo di «uscire» con spese apparentemente roboanti. Idee moderne insomma, in netto contrasto con il modo di concepire il calcio di alcuni dirigenti che nell’ambito societario appartenevano alla «vecchia guardia». Gli scontri che si susseguirono non furono pochi. Ma, gradualmente, con un’operazione finanziaria tesa al controllo della Società, superò ogni resistenza interna e conquistò tutti i poteri decisionali, diventando sostanzialmente anche il tecnico della squadra, oltre che presidente.

    Ispirandosi ai club britannici, pensava ad uno staff di collaboratori capaci che, nel caso specifico, aveva avuto la fortuna di trovare tra personaggi ed amici più o meno «velati». Tutti illustri conoscitori del fenomeno calcio comunque; attenti e pronti sempre a riversare ogni loro sensazione e speculazione in merito sul tavolo di lunghe ed interminabili discussioni.

    Da questo punto di vista va ascritto a Novo il merito di aver saputo fungere da grande catino recettivo, all’interno del quale i germi delle idee e dei suggerimenti, proprii ed altrui, dopo un breve momento di verifica e di decantazione e dopo un intenso ribollimento, uscivano distillati in una intuizione, una presa di posizione, una decisione il più delle volte rimarchevole.

    Competenza, e grande capacità d’intuizione, l’aveva già mostrata da dirigente seguendo con interesse il lavoro del tecnico magiaro Egri Erbstein, un quarantenne giramondo ricco di umanità e conoscenza calcistica. Intravista la possibilità di far approdare il tecnico al Torino, si adoperò per la riuscita dell’operazione e l’ambiente granata, in pochi giorni, fu conquistato da quel nuovo allenatore dalle idee innovatrici e dai nuovi sistemi di preparazione.

    Le indicazioni dell’ungherese, per di più, trovarono ben presto conforto anche nei risultati.

    Peccato che Erbstein dopo appena sei mesi dalla sua venuta decise poi, per prudenza, di lasciare l’Italia: «È bene che porti al sicuro adesso, la mia famiglia», disse a Novo. «Sa quanto mi spiace lasciare il Torino, ma la persecuzione contro gli ebrei potrebbe, ora, aumentare anche in Italia.»

    Novo subito non gli aveva risposto. Non fu neppure tentato di riprendere e far sua, per un momento, l’opinione spicciola ch’era di molti, cioè che quella serie di provvedimenti, presa da Mussolini in sfavore degli ebrei che risiedevano in Italia, non equivaleva in pericolosità alla massiccia persecuzione messa in funzione da Hitler.

    Dopo un significativo silenzio il futuro presidente aveva acconsentito con un cenno del capo, mostrando con espressioni del viso di capire e condividere.

    «E poi riuscito ad accordarsi con Rotterdam?», aveva quindi chiesto.

    «Sì», rispose Erbstein. «E anche con Molnar saremmo d’accordo su tutto, sempre che continui ad essere d’accordo anche il Torino.»

    Novo fece ancora segno di sì con la testa. E dopo un altro silenzio aveva aggiunto:

    «Lei sa, signor Erbstein, quanti amici ha qui al Torino. Ci auguriamo tutti che il cielo si schiarisca. È comunque fuori discussione che tra di noi ci terremo in contatto, come d’accordo. Mi farebbe veramente dispiacere perdere di vista la sua amicizia».

    Come più volte nel corso della vita gli era capitato, Erbstein in quegli ultimi giorni di febbraio del ’39 si rimise in viaggio. Dalla casa in cui era nato nel maggio del 1898 a Nagy Varad – oggi Oradea Mare, una località della Transilvania, regione a quel tempo incorporata all’Ungheria e solo in seguito, col trattato del Trianon, considerata all’interno dei confini rumeni – si era spostato una prima volta a Budapest. Era avvenuto nei suoi primi anni di vita, quel primo viaggio, ma più che un’andata a Budapest si era trattato di un semplice ritorno della famiglia alla loro casa. Nella capitale ungherese aveva poi studiato, con buoni risultati, e si era diplomato in educazione fisica.

    Aveva intanto giocato come mediano nelle file del «Bak» di Budapest, per meglio dire nel «Budapesti Atle’tikai Klub», un’associazione sportiva di atletica che contava pure su una squadra di calcio, nella quale si mise in evidenza.

    Dopo questo primo momento agonistico iniziò a lavorare in qualità di agente di borsa, riservando al calcio giocato uno spazio d’attenzione secondario. Ma un ingaggio dell’«01ympia» di Fiume, nel 1924, lo riportò ad un calcio più importante e lo condusse in Italia. Giocò quindi con il «Vicenza» finché un successivo ingaggio, da parte del «Brooklin Wanderes», gli diede modo di attraversare l’oceano e di conoscere gli Stati Uniti.

    L’attività borsistica, che nel frattempo aveva seguitato a curare, incontrò in quel periodo difficoltà sempre maggiori, fino a risultare del tutto compromessa. Lasciò allora gli Stati Uniti e fece ritorno in Ungheria.

    Non gli rimaneva che il calcio, su cui riversò interamente il proprio lavoro. Iniziò ad interessarsi in maniera approfondita del fenomeno, studiando con particolare attenzione l’evolversi delle tattiche di gioco e della preparazione fisica degli atleti, informato di ogni novità e mutamento che avvenivano a questi propositi da amici inglesi, sudditi di quella Inghilterra, patria del football, a cui tutti guardavano e si ispiravano.

    Nell’ambiente calcistico italiano Erbstein era già in quegli anni abbastanza conosciuto, non solo per essere stato un calciatore, ma anche per quella fama di capace istruttore che lo accompagnava. Per questo, nel 1928, i dirigenti del Bari gli offrirono un buon contratto per allenare la loro squadra.

    Dall’esperienza barese passò quindi alla guida del Cagliari e poi della Nocerina, per tornare ancora nel capoluogo pugliese, per una stagione, alla testa dei «galletti» baresi.

    Poi l’ingegner Giuseppe Della Santina lo volle a Lucca, concedendogli la massima fiducia.

    Era il tempo in cui la Lucchese giocava ancora nel vecchio Campo di Marte, con le sue tavole e il suo pantano circostante, e stava tribolando in un difficile torneo di Prima Divisione. La capacità di trasmettere entusiasmo anche nei momenti più difficili e il saper instaurare rapporti di amicizia con tutti, imponendo nel contempo, attraverso la calma e la disciplina, le proprie indicazioni tecniche ad alto livello, risultarono virtù fondamentali nel compimento del capolavoro di due promozioni e perciò del conseguente balzo in Serie A. Sullo slancio entusiastico della promozione, con una squadra affiatatissima, Erbstein ebbe la soddisfazione di vincere una serie di incontri che dettero alla Lucchese il diritto di fregiarsi, sia pure in comproprietà, del platonico titolo di campione d’inverno, per concludere quindi quel primo campionato nella massima divisione al settimo posto in classifica a pari merito con l’Ambrosiana.

    Lucca sportiva per il duo Della Santina-Erbstein ormai stravedeva. Al Caffè Savoia da due anni non si parlava che dello Stadio di Porta Elisa voluto da Della Santina e costato ben due milioni e trecentoventisettemila lire! Si sognava ad occhi pieni sui rossoneri di quello psicologo di Erbstein, di quel fenomeno di tecnico che spesso interrompeva gli allenamenti dei suoi uomini per correggere errori e suggerire nuove azioni: guai a quel giocatore, di qualunque ruolo che, giunto al limite dell’area avversaria, calciasse una palla spiovente a caso nell’ammucchiata; guai a chi dopo

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1