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Memorie di Ghiaccio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti
Memorie di Ghiaccio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti
Memorie di Ghiaccio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti
E-book1.464 pagine20 ore

Memorie di Ghiaccio: Una storia tratta dal Libro Malazan dei Caduti

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Info su questo ebook

Nel continente di Genabackis è sorto un nuovo e terrificante impero: il Dominio Pannion, che, come un copioso fiotto di putrido sangue, invade la terra inghiottendo tutti coloro che si rifiutano di ascoltare la parola del Veggente. Per contrastare le orde di Pannion si forma un’improbabile alleanza: da un lato il signore della guerra Caladan Brood e Anomander Rake, dall’altro l’Armata di Dujek il Monco, dichiarato fuorilegge dall’imperatrice Laseen. Insieme, queste forze avanzano nel cuore del Dominio di Pannion, coadiuvate dai T’lan Imass, convenuti per il loro Secondo Raduno… Numerosi e malfidenti, cercano nuovi potenziali alleati, fra cui le Spade Grigie, una confraternita di mercenari che ha giurato di difendere a tutti i costi la città di Capustan, posta sotto assedio. Mentre diversi clan di più antica discendenza si accingono a riunirsi, in risposta a un richiamo primordiale, i T’lan Imass insorgono poiché un’ombra cupa e malvagia minaccia il mondo: i Canali sono infettati e corrono voci su un dio scatenato e bramoso di vendetta.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita20 ott 2015
ISBN9788834435021
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    Anteprima del libro

    Memorie di Ghiaccio - Steven Erikson

    Storpio

    STEVEN

    ERIKSON

    Memorie di

    Ghiaccio

    Una storia tratta dal

    Libro Malazan dei Caduti

    ARMENIA

    Titolo originale dell’opera: Memories of Ice

    Traduzione dall’inglese di Chiara Arnone

    Copyright © Steven Erikson 2001

    Maps drawn by Neil Gower

    First published asTransworld Publishers,

    a division of The Random House Group Limited

    Copyright © 2015 Armenia S.r.l.

    Prima edizione digitale 2015

    978-88-344-3502-1

    Via Milano 73/75 - 20010 Cornaredo (MI)

    Tel. 02 99762433 - Fax 02 99762445

    www.armenia.it

    info@armenia.it

    Questa opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.

    È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

    A R.S. Lundin

    RINGRAZIAMENTI

    Desidero esprimere la mia riconoscenza per il loro appoggio e la loro amicizia alle seguenti persone: Clare, Bowen, Mark, David, Chris, Rick, Cam, Courtney, Susan e Peter, David Thomas Sr. e Jr., Harriet e Chris e Lily e Mina e Smudge; Patrick Walsh e Simon e Jane. Grazie anche a Dave Golden e al suo amichevole staff (Trincia, Cindy, Liz, Tanis, Barbara, Joan, Nadia, Amanda, Tony, Andi e Jody) del Pizza Place, per il tavolo e le provviste. E grazie a John Meaney per i ripugnanti dettagli sui semi morti.

    CARTINE

    ELENCO DEI PERSONAGGI

    Il Caravanserraglio

    Gruntle, guardia di carovana

    Stonny Menackis, guardia di carovana

    Harllo, guardia di carovana

    Buke, guardia di carovana

    Bauchelain, esploratore

    Korbal Broach, il suo socio silenzioso

    Emancipor Reese, domestico

    Keruli, mercante

    Marble, mago

    A Capustan

    Brukhalian, Spada Mortale di Fener (Spade Grigie)

    Itkovian, Incudine-Scudo di Fener (Spade Grigie)

    Karnadas, Destriant di Fener (Spade Grigie)

    La recluta Velbara (Spade Grigie)

    Il sergente maggiore Norul (Spade Grigie)

    Farakalian (Spade Grigie)

    Nakalian (Spade Grigie)

    Torun (Spade Grigie)

    Sidlis (Spade Grigie)

    Nilbanas (Spade Grigie)

    Jelarkan, principe e governante di Capustan

    Arard, principe e governante in absentia di Corallo

    Rath’Fener (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’Trono d’Ombra (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’Regina dei Sogni (Sacerdotessa del Consiglio Mascherato)

    Rath’Hood (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’D’rek (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’Trake (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’Burn (Sacerdotessa del Consiglio Mascherato)

    Rath’Togg (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’Fanderay (Sacerdotessa del Consiglio Mascherato)

    Rath’Dessembrae (Sacerdotessa del Consiglio Mascherato)

    Rath’Oponn (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    Rath’Beru (Sacerdote del Consiglio Mascherato)

    L’Armata del Monco

    Dujek il Monco, comandante dell’esercito Malazan disertore

    Whiskeyjack, comandante in seconda dell’esercito Malazan disertore

    L’Ardito, comandante dei Moranth Neri

    Artanthos, alfiere dell’esercito Malazan disertore

    Barak, ufficiale di collegamento

    Hareb, capitano di nobili natali

    Ganoes Paran, capitano, Arsori di Ponti

    Antsy, sergente, 7° squadrone, Arsori di Ponti

    Picker, caporale, 7° squadrone, Arsori di Ponti

    Detoran, soldatessa, 7° squadrone

    Spindle, mago e zappatore, 7° squadrone

    Blend, soldatessa, 7° squadrone

    Mallet, guaritore, 9° squadrone

    Hedge, zappatore, 9° squadrone

    Trotts, soldato, 9° squadrone

    Ben lo Svelto, mago, 9° squadrone

    Aimless (caporale degli Arsori di Ponti)

    Bucklund (sergente degli Arsori di Ponti)

    Runter (zappatore degli Arsori di Ponti)

    Mulch (guaritore degli Arsori di Ponti)

    Bluepearl (mago degli Arsori di Ponti)

    Shank (mago degli Arsori di Ponti)

    Toes (mago degli Arsori di Ponti)

    L’esercito di Brood

    Caladan Brood, Alto Comandante dell’esercito di liberazione

    a Genabackis

    Anomander Rake, Signore della Progenie della Luna

    Kallor, l’Alto Re, comandante in seconda di Brood

    La Mhybe, matrona delle tribù Rhivi

    Volpe d’Argento, la Rhivi rinata

    Korlat, una Soletaken Tiste Andii

    Orfantal, fratello di Korlat

    Hurlochel, ricognitore dell’esercito di liberazione

    Crone, Grande Corvo, al servizio di Anomander Rake

    I Barghast

    Humbrall Taur, capo dei Clan del Viso Bianco

    Hetan, sua figlia

    Cafal, il suo primo figlio

    Netok, il suo secondo figlio

    Gli inviati di Darujhistan

    Coll, ambasciatore

    Estraysian D’Arle, membro del Consiglio

    Baruk, alchimista

    Kruppe, cittadino

    Murillio, cittadino

    I T’lan Imass

    Kron, comandante dei Kron T’lan Imass

    Cannig Tol, Capoclan

    Bek Okhan, Divinatore

    Pran Chole, Divinatore

    Okral Lom, Divinatore

    Bendal Home, Divinatore

    Ay Estos, Divinatore

    Olar Ethil, Primo Divinatore e Primo Soletaken

    Tool, il Tonsurato, un tempo Prima Spada

    Kilava, Divinatrice traditrice della sua gente

    Lanas Tog, dei Kerluhm T’lan Imass

    Il Dominio di Pannion

    Il Veggente, sacerdote-re del Dominio

    Ultentha, Eptarca di

    Kulpath, Eptarca dell’esercito assediante

    Inal, Eptarca di Lest

    Anaster, Figlio del Seme Morto, membro del Tenescowri

    Il Seerdomin Kalt

    Altri

    K’rul, Dio Antico

    Draconus, Dio Antico

    Sorella delle Fredde Notti, Dea Antica

    Lady Invidia, abitante di Morn

    Gethol, Araldo

    Treach, Primo Eroe (la Tigre dell’Estate)

    Toc il Giovane, Aral Fayle, ricognitore Malazan

    Garath, grande cane

    Baaljagg, lupa ancora più grande

    Mok, Seguleh

    Thurule, Seguleh

    Senu, Seguleh

    L’Incatenato, ignoto ascendente (noto anche come

    il Dio Storpio)

    La strega di Tennes

    Munug, artigiano Daru

    Talamandas, figura-stecco Barghast

    Ormulogun, artista dell’Armata del Monco

    Gumble, il suo critico

    Haradas, padrona di carovana della Corporazione Commerciale Trygalle

    Azra Jael, fante di marina dell’Armata del Monco

    Straw, Irregolare di Mott

    Sty, Irregolare di Mott

    Stump, Irregolare di Mott

    Job Bole, Irregolare di Mott

    PROLOGO

    Le antiche guerre dei T’lan Imass e degli Jaghut lacerarono il mondo. Vasti eserciti combatterono sulle terre devastate; i morti si ammassavano in alte pile, le loro ossa formavano colline, il loro sangue mari. La magia infuriò finché il cielo stesso diventò di fuoco…

    Storie Antiche, Vol. I

    Kinicik Karbar’n

    I

    Maeth’ki Im (Il Massacro del Fiore Marcio), la 33esima Guerra Jaghut

    298.665 anni prima del Sonno di Burn

    Rondini sfrecciavano attraverso i nugoli di moscerini che danzavano sopra le pianure fangose. Il cielo sopra la palude restava grigio, ma aveva perso l’argenteo bagliore invernale, e il vento caldo che sibilava sopra la terra devastata recava in sé il sentore della guarigione.

    Quello che era, un tempo, il mare interno di acqua dolce chiamato Jaghra Til dagli Imass – nato dallo scioglimento dei ghiacciai Jaghut – viveva ora la sua agonia. Il riflesso della pallida cortina di nubi nelle distese d’acqua alta fino al ginocchio continuava verso sud a perdita d’occhio e, tuttavia, la terra appena nata dominava il paesaggio.

    La rottura dell’incantesimo che aveva provocato l’era glaciale restituiva alla regione le antiche, naturali stagioni, ma il ricordo dei ghiacci alti come montagne restava. La roccia esposta a nord era graffiata e scrostata e i suoi bacini pieni di massi. Lo spesso strato di limo che era stato il fondo del mare ribolliva ancora di gas, mentre la terra, libera del peso enorme dei ghiacciai scomparsi otto anni prima, continuava la sua lenta ascesa.

    La vita dello Jaghra Til era stata breve, ma il limo che si era depositato sul fondo era alto. E infido.

    Pran Chole, Divinatore del clan di Cannig Tol dei Kron Imass, sedeva immobile in cima a un masso, lungo un’antica spiaggia. Il pendio davanti a lui era ricoperto di un groviglio di erba bassa, sottile, e di pezzi di legno malconci, portati dalla corrente. Dodici passi più in là, la terra declinava leggermente, poi si apriva in un ampio bacino fangoso.

    Tre ranag erano rimasti intrappolati in una pozza paludosa all’interno del bacino. Un maschio, la sua compagna e il loro vitello, stretti in un patetico cerchio difensivo. Prigionieri, vulnerabili, dovevano essere sembrati facili prede al branco di ay che li aveva trovati.

    Ma la terra era veramente infida. I grossi lupi della tundra avevano subito lo stesso destino dei ranag. Pran Chole contò sei ay, compreso un cucciolo di un anno. Impronte indicavano che un altro cucciolo aveva girato intorno alla pozza dozzine di volte prima di vagabondare verso ovest, destinato senza dubbio a morire in solitudine.

    Quanto tempo prima si era verificato questo dramma? Non c’era modo di dirlo. Il fango si era rappreso su ranag e ay, formando mantelli di argilla percorsi da crepe. Macchie di verde brillante spuntavano là dove avevano germinato i semi portati dal vento e il Divinatore ricordò le visioni avute nel camminare in forma di spirito: una moltitudine di dettagli mondani distorti in immagini irreali. Per le bestie, la lotta era diventata eterna: prede e cacciatori erano stretti in un abbraccio fino alla fine dei tempi.

    Qualcuno arrivò quasi senza rumore, accoccolandosi al suo fianco.

    Gli occhi bronzei di Pran Chole rimasero fissi su quella statica scena. Il ritmo dei passi aveva rivelato al Divinatore l’identità del suo compagno e ora gli odori, tipici di una creatura a sangue caldo, erano eloquenti tanto quanto la visione diretta del suo volto.

    Cannig Tol parlò. «Che cosa giace sotto l’argilla, Divinatore?».

    «Solo ciò che ha plasmato l’argilla stessa, Capoclan».

    «Non vedi alcun presagio in queste bestie?».

    Pran Chole sorrise. «E tu?».

    Cannig Tol rifletté per un attimo, poi disse: «I ranag sono scomparsi da queste terre. E anche gli ay. Quella che ci sta davanti è una battaglia antica. E queste constatazioni hanno un significato profondo, poiché agitano il mio animo».

    «E anche il mio», ammise il Divinatore.

    «Cacciammo i ranag finché non ce ne furono più, e questo fece morire di fame gli ay, perché avevamo cacciato anche i tenag fino all’ultimo esemplare. Gli agkor che camminano con i bhederin rifiutarono di dividere con gli ay le loro prede, e ora la tundra è vuota. Da ciò, concludo che la nostra caccia è stata avventata e rovinosa».

    «Però il bisogno di nutrire i nostri piccoli…».

    «Il bisogno di altri piccoli era grande».

    «E lo è ancora, Capoclan».

    Cannig Tol grugnì. «Gli Jaghut erano potenti in queste terre, Divinatore. Non fuggirono; non all’inizio. Conosci il prezzo in sangue Imass».

    «E la terra cede le sue ricchezze per pagare quel prezzo».

    «Per servire la nostra guerra».

    «E così, si smuovono gli abissi».

    Il Capoclan annuì, ammutolendo.

    Pran Chole aspettò. Nella loro conversazione, avevano toccato solo la pelle delle cose. La rivelazione di muscoli e ossa doveva ancora venire, ma Cannig Tol non era uno sciocco, e l’attesa non fu lunga.

    «Noi siamo come quelle bestie».

    Il Divinatore socchiuse gli occhi, volgendoli verso l’orizzonte meridionale.

    Cannig Tol continuò: «Noi siamo l’argilla, e la nostra guerra infinita contro gli Jaghut è la bestia che lotta al di sotto. La superficie è plasmata da ciò che giace sotto». Indicò con una mano. «E davanti a noi, ora, in queste creature che lentamente diventano pietra, sta la maledizione dell’eternità».

    Non era finita. Pran Chole rimase in silenzio.

    «Ranag e ay», riprese Cannig Tol. «Prede e cacciatori, entrambi quasi scomparsi dal regno mortale».

    «Ossa comprese», mormorò il Divinatore.

    «Vorrei che avessi visto un presagio», borbottò il Capoclan, alzandosi.

    Pran Chole l’imitò. «Lo vorrei anch’io», concordò in un tono che solo debolmente riecheggiava l’asciutto sarcasmo di Cannig Tol.

    «Ci siamo quasi, Divinatore?».

    Pran Chole lanciò un’occhiata alla sua ombra, studiando le corna ramificate, la figura che traspariva da sotto il mantello di pelliccia, le pelli logore e il copricapo. L’angolazione del sole lo faceva sembrare alto quasi quanto uno Jaghut. «Domani», annunciò. «Si stanno indebolendo. E una notte di viaggio li indebolirà ancora di più».

    «Bene. Allora il clan si accamperà qui stanotte».

    Il Divinatore tese le orecchie, mentre Cannig Tol tornava là dove aspettavano gli altri. Con il buio, Pran Chole avrebbe camminato in forma di spirito, dentro la terra percorsa da bisbigli, alla ricerca dei suoi simili. Anche se la loro preda si stava indebolendo, il clan di Cannig Tol era ancora più debole. Restava meno di una dozzina di adulti. Quando si inseguivano gli Jaghut, la distinzione fra cacciatore e cacciato aveva scarso significato.

    Sollevò la testa, annusando l’aria del crepuscolo. Un altro Divinatore percorreva quella terra: la traccia era inconfondibile. Si chiese chi fosse, e perché viaggiasse da solo, senza clan né parenti. E sapendo che, come lui, Pran Chole aveva avvertito la presenza dell’altro, quello doveva aver avvertito la sua, e si chiese perché non fosse ancora venuto alla loro ricerca.

    Si tirò fuori dal fango e si lasciò cadere sulla riva sabbiosa; respirava faticosamente, in ansiti rochi. Il figlio e la figlia sgusciarono fuori dalle sue braccia di piombo, correndo su per la bassa gobba dell’isola.

    La madre Jaghut abbassò la testa, fino ad appoggiare la fronte sulla sabbia fresca e umida. La graniglia le premette contro la pelle con cruda insistenza. Le ustioni erano troppo recenti per essere guarite; era stata sconfitta, e aspettava solo l’arrivo dei suoi cacciatori per morire.

    Per fortuna, erano estremamente competenti. A quegli Imass non interessava la tortura. Un colpo rapido, micidiale; per lei, poi per i suoi figli. E con loro – con quella scarna, malandata famiglia – gli ultimi Jaghut sarebbero scomparsi dal continente. La fortuna arrivava sotto molte forme. Se non si fossero uniti nell’imprigionare Raest, tutti quanti – Imass e Jaghut insieme – si sarebbero ritrovati inginocchiati davanti a quel Tiranno. Una temporanea tregua di convenienza. Era stata abbastanza saggia da fuggire una volta completata la missione; aveva saputo, anche allora, che il clan Imass avrebbe ripreso l’inseguimento.

    La madre non provava amarezza, ma non per questo era meno disperata.

    Avvertendo una nuova presenza sulla piccola isola, alzò la testa di scatto. I suoi figli erano impietriti, e fissavano inorriditi la donna Imass che si ergeva sopra di loro. La madre strinse gli occhi grigi. «Bella mossa, Divinatrice. Avevo i sensi rivolti solo a chi ci stava alle spalle. Avanti, fa’ quel che devi fare».

    La donna giovane, dai capelli neri, sorrise. «Niente patti, Jaghut? Voi andate sempre in cerca di patti per risparmiare la vita ai vostri figli. Hai spezzato i legami di parentela con quei due? Sembrano giovani per una cosa simile».

    «I patti sono inutili. La tua gente non li accetta mai».

    «No, ma la tua gente ci prova comunque».

    «Io non lo farò. Uccidici, allora. In fretta».

    L’Imass indossava una pelle di pantera. I suoi occhi erano altrettanto neri e sembravano uguagliarne la lucentezza nel chiarore morente. Sembrava ben nutrita e i seni ampi, gonfi, indicavano che aveva partorito da poco.

    La madre Jaghut non poteva leggere la sua espressione; vide solo che mancava della tipica, cupa certezza che era solita associare agli strani visi rotondi degli Imass.

    La Divinatrice parlò. «Le mie mani hanno già versato abbastanza sangue Jaghut. Vi lascerò al clan di Kron che vi troverà domani».

    «A me», ringhiò la madre, «non importa chi di voi ci uccide: basta che lo facciate».

    La donna increspò la bocca larga. «Capisco il tuo punto di vista».

    La madre Jaghut si sentiva sopraffare dalla debolezza, ma riuscì a mettersi in posizione seduta. «Che cosa vuoi?» chiese ansimante.

    «Offrirti un patto».

    Il respiro fermo in gola, la madre Jaghut fissò gli occhi scuri della Divinatrice, e non vi trovò traccia di inganno. Poi il suo sguardo cadde, per un attimo soltanto, sul figlio e sulla figlia, prima di tornare a incontrare fermamente quello della donna.

    L’Imass annuì lentamente.

    A un certo punto del passato, nella terra si era aperta una ferita, una ferita così profonda da dare origine a un fiume di materia liquefatta, abbastanza largo da estendersi da un orizzonte all’altro. Vasto e nero, il fiume di pietra e ceneri si allungava ora verso sud, fino al mare lontano. Solo le piante più piccole erano riuscite ad attecchirvi, e al suo passaggio la Divinatrice – un bambino Jaghut stretto sotto ciascun braccio – alzava soffocanti nuvole di polvere che aleggiavano immobili nella sua scia.

    Il maschietto, stimò, doveva avere cinque anni; sua sorella forse quattro. Né l’uno né l’altro sembravano del tutto svegli, ed era evidente che né l’uno né l’altro avevano capito quando la madre li aveva salutati per sempre con un abbraccio. La lunga fuga giù per il L’amath e attraverso lo Jaghra Til li aveva ridotti entrambi in stato di choc. E, senza dubbio, assistere all’orribile morte del padre non li aveva aiutati.

    Aggrappati a lei con le mani piccole, sporche, le ricordavano tristemente il figlio che lei stessa aveva perso da poco. In breve, entrambi le si attaccarono al seno, mostrando una fame disperata. Dopo un po’ si addormentarono.

    Il flusso di lava si restrinse, mentre la donna si avvicinava alla costa. Alla sua destra, una catena di colline si sollevava in montagne lontane. Davanti a lei, si stendeva una pianura uniforme, che terminava in una cresta distante mezza lega. Anche se la vista le era preclusa, sapeva che, dall’altra parte, la terra digradava bruscamente verso il mare. La pianura era costellata da monticelli, che la Divinatrice si fermò a esaminare. Erano disposti in cerchi concentrici, e al centro c’era una cupola più alta, ricoperta da un mantello di cenere e lava. Il dente marcio di una torre in rovina si levava dal bordo della pianura, alla base della prima linea di colline. Quelle colline, come aveva notato la prima volta che era venuta in quel posto, erano allineate a intervalli di gran lunga troppo regolari per essere naturali.

    La Divinatrice alzò la testa. Gli odori, per quanto mischiati l’uno all’altro, erano inconfondibili: uno antico e morto, l’altro… meno. Il maschietto si mosse sotto la sua stretta, ma non si svegliò.

    «Ah», mormorò lei, «lo senti anche tu».

    Costeggiando la pianura, camminò verso la torre annerita.

    La porta del canale si trovava appena oltre il malconcio edificio, sospesa nell’aria a un’altezza di circa sei volte la sua. La vide come una cicatrice rossa, il segno di un antico taglio che aveva smesso di sanguinare. Non riuscì a riconoscere il canale; il danno oscurava le caratteristiche dell’ingresso. Si sentì percorrere da vaghi brividi di inquietudine.

    La Divinatrice posò i bambini accanto alla torre, poi si sedette su un blocco di pietra caduto. Lo sguardo le cadde sui due piccoli Jaghut, che, ancora raggomitolati nel sonno, giacevano sui loro letti di cenere. «Cosa devo fare?» mormorò. «Quello deve essere Omtose Phellack. Certo non è Tellann. Starvald Demelain? Improbabile». Spostò lo sguardo sulla pianura, puntandolo sui cerchi di monticelli. «Chi abitava lì? Chi altro aveva l’abitudine di costruire con la pietra?».Rimase in silenzio per un lungo momento, poi riportò l’attenzione sulla rovina. «Questa torre è la prova definitiva, perché è sicuramente Jaghut, e una struttura simile non sarebbe stata innalzata così vicino a un canale nemico. No, il canale è Omtose Phellack. Per forza».

    Tuttavia rimanevano dei rischi. Uno Jaghut adulto nel canale, che incontrasse due bambini estranei al suo sangue, avrebbe potuto tanto adottarli quanto ucciderli. «E allora la loro morte sporcherà le mani di un altro, di uno Jaghut». La distinzione le era di magro conforto. Non mi importa chi di voi ci uccide: basta che lo facciate. La donna emise un sospiro sibilante. «Cosa devo fare?» chiese di nuovo.

    Li avrebbe lasciati dormire ancora un po’. Poi, li avrebbe infilati nel canale. Una parola al maschietto: abbi cura di tua sorella. Il viaggio non sarà lungo. E a entrambi: vostra madre vi aspetta al di là. Era una bugia, ma avevano bisogno di consolazione. Se lei non riuscirà a trovarvi, lo farà uno dei suoi parenti. Su, andate, verso la sicurezza, verso la salvezza.

    Dopo tutto, cosa c’era di peggio della morte?

    La donna si alzò mentre si avvicinavano. Pran Chole saggiò l’aria, increspando la fronte. La Jaghut non aveva aperto il suo canale. E, cosa ancora più sconcertante, dov’erano i suoi figli?

    «Ci accoglie con tranquillità», borbottò Cannig Tol.

    «Già», concordò il Divinatore.

    «Non mi fido; dovremmo ucciderla subito».

    «Vuole parlare con noi», replicò Pran Chole.

    «Soddisfare quel desiderio è un rischio mortale».

    «Non posso darti torto, Capoclan. Però… cosa ne ha fatto dei figli?».

    «Non riesci ad avvertire la loro presenza?».

    Pran Chole scosse la testa. «Prepara i tuoi lancieri», disse, avanzando.

    Negli occhi di lei c’era la pace, un’accettazione così chiara della morte imminente che il Divinatore ne fu scosso. Pran Chole camminò attraverso l’acqua alta fino agli stinchi, poi mise piede sulla riva sabbiosa dell’isola, per ritrovarsi faccia a faccia con la Jaghut. «Che cosa hai fatto di loro?» domandò.

    La madre sorrise; le labbra si ritrassero a rivelare le zanne. «Se ne sono andati».

    «Dove?».

    «Oltre la tua portata, Divinatore».

    Pran Chole assunse un’aria ancora più torva. «Queste sono le nostre terre. Qui non c’è luogo che sia oltre la nostra portata. Li hai uccisi con le tue stesse mani, allora?».

    La Jaghut inclinò la testa, studiando l’Imass. «Avevo sempre creduto che foste uniti nel vostro odio per la nostra gente. Avevo sempre creduto che concetti come la pietà e la compassione fossero estranei alla vostra natura».

    Il Divinatore la fissò per un lungo attimo, poi il suo sguardo la superò, per esaminare il morbido terreno argilloso. «Un’Imass è stata qui», osservò. «Una donna. La Divinatrice…» quella che non sono riuscito a trovare camminando in forma di spirito. Quella che ha scelto di non farsi trovare. «Che cosa ha fatto?».

    «Ha esplorato questa terra», rispose la Jaghut. «A sud, ha trovato la porta di un canale. Un canale Omtose Phellack».

    «Sono felice», commentò Pran Chole, «di non essere una madre». E tu, donna, dovresti essere felice del fatto che non sia crudele. Fece un gesto. Aste pesanti sfrecciarono oltre il Divinatore. Sei lunghe, scanalate punte di pietra trafissero la pelle che ricopriva il petto della Jaghut. La donna barcollò, poi crollò a terra in un fracasso di lance.

    Così finì la trentatreesima Guerra Jaghut.

    Pran Chole si girò. «Non c’è tempo per allestire una pira. Dobbiamo dirigerci a sud. In fretta».

    Cannig Tol avanzò, mentre i suoi guerrieri andavano a recuperare le armi. Il Capoclan strinse gli occhi sul Divinatore. «Che cosa ti angustia?».

    «Una Divinatrice traditrice ha portato via i bambini».

    «Verso sud?».

    «A Morn».

    Il Capoclan aggrottò le sopracciglia.

    «La traditrice voleva salvare i figli di questa donna. Crede che lo Squarcio sia Omtose Phellack».

    Pran Chole vide Cannig Tol sbiancare in viso. «Va’ a Morn, Divi­natore», bisbigliò il Capoclan. «Noi non siamo crudeli. Va’ subito».

    Pran Chole si inchinò. Il canale Tellann lo inghiottì.

    Bastò una debole emissione del suo potere a spedire i due bambini Jaghut verso l’alto, nella porta spalancata. Prima di raggiungerla, la femmina cacciò un breve lamento, un grido di desiderio per la madre, che immaginava li aspettasse al di là. Poi le due figurette svanirono all’interno.

    La Divinatrice sospirò e tenne lo sguardo puntato verso l’alto, in cerca di eventuali segni che il trasferimento fosse andato storto. A quanto pareva, tuttavia, non si era riaperta nessuna ferita, nessun fiotto di potere selvaggio zampillava dalla porta. Aveva un aspetto diverso da prima? Non sapeva dirlo con certezza. Questa era terra nuova per lei; la donna era completamente priva di quella sensibilità istintiva che aveva provato per tutta la vita nelle terre del clan di Tarad, nel cuore del Primo Impero.

    Il canale Tellann si aprì dietro di lei. La Divinatrice si girò; nel giro di pochi attimi avrebbe assunto la sua forma Soletaken.

    Una volpe artica apparve saltellando, rallentò nel vederla, poi riprese la forma Imass. La donna si trovò davanti un giovane, che portava sulle spalle la pelle del suo animale totemico, e sulla testa un logoro copricapo con corna ramificate. L’espressione distorta dalla paura, teneva lo sguardo non su di lei, ma sulla porta alle sue spalle.

    La donna sorrise. «Ti do il benvenuto, compagno Divinatore. Sì, li ho infilati dentro. Sono al di là della tua vendetta, e questo mi rende felice».

    I suoi occhi bronzei si fissarono su di lei. «Chi sei? A quale clan appartieni?».

    «Ho lasciato il mio clan, ma una volta facevo parte dei Logros. Mi chiamo Kilava».

    «Avresti dovuto lasciare che ti trovassi ieri notte», ribatté Pran Chole. «Allora, Kilava, sarei riuscito a convincerti che, per quei bambini, una morte rapida era una soluzione più misericordiosa di quello che tu hai fatto qui».

    «Sono abbastanza piccoli per essere adottati…».

    «Sei arrivata nel posto di nome Morn», la interruppe Pran Chole, con voce fredda. «Alle rovine di un’antica città…».

    «Jaghut…».

    «Non Jaghut! Questa torre, sì, lo è, ma fu costruita molto dopo, nel periodo fra la distruzione della città e il T’ol Ara’d, il flusso di lava che seppellì quasi del tutto qualcosa che era già morto». Alzò una mano a indicare la porta sospesa. «Fu questo – questo taglio – a distruggere la città, Kilava. Il canale al di là… non capisci? Non è Omtose Phellack! Dimmi: come si chiudono ferite del genere? Tu conosci la risposta, Divinatrice!».

    La donna si girò lentamente, studiò lo Squarcio. «Se un’anima ha chiuso quella ferita, allora avrebbe dovuto essere liberata… quando sono arrivati i bambini…».

    «Liberata», sibilò Pran Chole, «in cambio di altre!».

    Tremando, Kilava si volse verso di lui. «Allora dov’è? Perché non è comparsa?».

    Pran Chole si girò a esaminare la cupola centrale sulla pianura. «Oh», mormorò, «sì che lo è». Lanciò uno sguardo alla Divinatrice. «Dimmi, rinunceresti alla tua vita per quei bambini? Ora sono intrappolati in un eterno incubo di dolore. La tua compassione si estende fino a farti sacrificare in un altro scambio?». La scrutò, poi emise un sospiro. «No; lo immaginavo. Per cui, asciugati quelle lacrime, Kilava. L’ipocrisia mal si addice a una Divinatrice».

    «Che cosa…» riuscì a dire la donna dopo un po’, «che cosa è stato liberato?».

    Pran Chole scosse la testa. Studiò ancora la cupola centrale. «Non ne sono sicuro, ma dovremo fare qualcosa al riguardo, prima o poi. Abbiamo molto tempo, presumo. La creatura deve liberarsi dalla sua tomba, che è stata circondata di difese. Inoltre, il mantello di pietra del T’ol Ara’d ricopre ancora il tumulo». Dopo un attimo, aggiunse: «Ma il tempo non ci mancherà».

    «Che cosa intendi dire?».

    «È stato indetto il Raduno. Il Rituale di Tellann ci aspetta, Divinatrice».

    La donna sputò a terra. «Siete tutti pazzi. Scegliere l’immortalità nell’interesse di una guerra… è una follia. Ignorerò la chiamata, Divinatore».

    Lui annuì. «Ma il Rituale sarà compiuto. Ho esplorato il futuro in forma di spirito, Kilava. Ho visto il mio volto avvizzito, a oltre duecentomila anni da adesso. Avremo la nostra guerra eterna».

    La voce di Kilava era piena di amarezza. «Mio fratello sarà contento».

    «Chi è tuo fratello?».

    «Onos T’oolan, la Prima Spada».

    A quelle parole, Pran Chole si girò. «Tu sei la Sfidante. Tu hai massacrato il tuo clan… i tuoi parenti…».

    «Per rompere il legame e conquistare la libertà, sì. Ahimè, l’abilità del mio fratello maggiore era più che pari alla mia. Ma ora siamo entrambi liberi, anche se Onos T’oolan maledice ciò di cui io gioisco». Si strinse le braccia intorno al corpo, e Pran Chole vide su di lei strati su strati di dolore. La sua era una libertà che non le invidiava. La donna parlò di nuovo. «Questa città, allora. Chi l’ha costruita?».

    «I K’Chain Che’Malle».

    «Conosco il nome, ma poco altro di loro».

    Pran Chole annuì. «Impareremo, immagino».

    II

    I continenti di Korelri e Jacuruku, all’Epoca dell’Agonia

    119.736 anni prima del Sonno di Burn (tre anni dopo la Caduta del Dio Storpio)

    La Caduta aveva distrutto un continente. Foreste erano bruciate e incendi avevano acceso gli orizzonti in tutte le direzioni, bagnando di cremisi le nubi tumultuose, piene di cenere, che velavano il cielo. La conflagrazione aveva divorato il mondo per settimane, mesi; e per tutto quel tempo, apparentemente infinito, erano risuonate le grida di un dio.

    Dal dolore nacque la rabbia. Dalla rabbia, il veleno, un’infezione che non risparmiò nessuno.

    I pochi superstiti, ridotti allo stato selvaggio, vagavano per un paesaggio punteggiato di enormi crateri pieni di acqua fosca, priva di vita. Il cielo ribolliva senza posa sopra di loro. Le famiglie erano state smembrate; l’amore si era dimostrato un peso troppo costoso da portare. Mangiavano quello che potevano, spesso i loro simili, e setacciavano il mondo devastato con intento rapace.

    Una figura percorreva da sola questo paesaggio. Avvolto in laceri stracci, l’uomo era di altezza media; i suoi lineamenti erano brutti, angolosi. Il volto aveva un’aria cupa, gli occhi un’inflessibilità ferrea. Camminava come trascinandosi dietro la sofferenza, indifferente al suo peso enorme; camminava come se fosse incapace di cedere, di negare i doni del suo spirito.

    In lontananza, bande di vagabondi tenevano d’occhio la figura che avanzava, passo dopo passo, per i resti del continente che avrebbe avuto, un giorno, il nome di Korelri. La fame avrebbe potuto spingerli più vicino, ma i superstiti della Caduta non erano sciocchi, e mantenevano una cauta distanza; la paura smussava la loro curiosità. Perché l’uomo era un Dio Antico, e camminava fra loro.

    Oltre a tutta la sofferenza già assorbita, K’rul avrebbe abbracciato volentieri le loro anime spezzate; tuttavia, già si era nutrito – e andava nutrendosi – del sangue versato su quella terra. E, in effetti, il potere da esso scaturito sarebbe stato necessario.

    Sulla scia di K’rul, uomini e donne uccidevano uomini, donne, bambini. Una cupa carneficina era il fiume su cui navigava il Dio Antico.

    Gli Dei Antichi nutrivano sentimenti decisamente sgradevoli.

    Il Dio Straniero aveva subito una lacerazione durante la sua discesa sulla terra. Era stato ridotto in pezzi, in lingue di fuoco. Il suo dolore era fiamma, tuono e grida, una voce che era stata sentita da mezzo mondo. Al dolore si era aggiunta l’indignazione. E, rifletté K’rul, l’angoscia. Sarebbe passato molto tempo prima che il Dio Straniero potesse rivendicare i frammenti sparsi della sua vita, e così cominciare a rivelare la sua natura. K’rul temeva l’arrivo di quel giorno. Da un simile disastro poteva venire solo la follia.

    Gli evocatori erano morti, distrutti da ciò che avevano richiamato su di sé. Era inutile odiarli, inutile evocare immagini delle punizioni che, in verità, meritavano. In fin dei conti, erano disperati. Abbastanza disperati da spezzare il tessuto del caos, da aprire un passaggio verso un regno remoto, alieno; da attirare poi più vicino, sempre più vicino alla trappola che avevano preparato, un dio curioso di quel regno. I richiamanti cercavano il potere.

    E tutto per distruggere un uomo.

    Il Dio Antico aveva attraversato il continente in rovina, aveva visto la carne ancora viva del Dio Caduto, le larve che strisciavano sinistramente dalle ossa rotte e dalle membra marce, pulsanti. Aveva visto in quali creature sbocciavano quelle larve. In quel momento, mentre stava per raggiungere la costa danneggiata di Jacuruku, l’antico continente fratello di Korelri, turbinavano sopra la sua testa con le ali larghe, nere. Avvertivano il potere dentro di lui, e bramavano di assaggiarne il sapore.

    Ma un dio forte poteva ignorare i predatori sulla sua scia, e K’rul era un dio forte. Templi erano stati eretti in suo nome. Sangue aveva, per generazioni, bagnato innumerevoli altari a lui dedicati. Le città nascenti erano state avvolte nel fumo di pire e fucine, nel rosso chiarore dell’alba dell’umanità. Il Primo Impero era sorto, su un continente distante mezzo mondo dal punto in cui ora K’rul camminava. Un impero di umani, nato dall’eredità dei T’lan Imass, da cui prendeva il nome.

    Ma non era rimasto a lungo da solo. Lì, a Jacuruku, all’ombra di antichissime rovine K’Chain Che’Malle, era emerso un altro impero. Il suo sovrano era un guerriero senza pari, un brutale divoratore di anime.

    K’rul era venuto a distruggerlo, a rompere le catene di dodici milioni di schiavi. Nemmeno i Tiranni Jaghut avevano imposto un dominio così spietato ai loro sudditi; no, solo un mortale umano poteva raggiungere un tale livello di sopraffazione sulla propria gente.

    Altri due Dei Antichi convergevano sull’Impero di Kallor. La decisione era stata presa: i tre – gli ultimi Antichi – avrebbero posto fine al dominio dispotico dell’Alto Re. K’rul avvertiva la presenza dei suoi compagni. Entrambi erano vicini e, un tempo, erano stati amici; ma poi tutti loro – K’rul compreso – erano cambiati, avevano preso strade molto diverse. Quello sarebbe stato il loro primo incontro in millenni.

    Avvertiva anche una quarta presenza, quella di una bestia antica, feroce, che seguiva la sua pista. Una bestia appartenente alla terra, al respiro gelido dell’inverno, una bestia con la pelliccia bianca insanguinata, ferita quasi a morte dalla Caduta. Una bestia cui restava un solo occhio per guardare la terra distrutta che era stata la sua dimora, molto prima dell’ascesa dell’impero. Lo seguiva, ma non si avvicinava. E, come K’rul ben sapeva, sarebbe rimasta un lontano osservatore di tutto quanto stava per accadere. Il Dio Antico non poteva risparmiarle alcun dolore, ma non era indifferente alla sua sofferenza.

    Sopravviviamo tutti come è nostro compito e, quando arriva il momento di morire, troviamo il nostro posto solitario…

    L’Impero di Kallor si era esteso a ogni costa di Jacuruku, eppure K’rul non vide nessuno, mentre percorreva i primi passi verso l’interno. Terre desolate, prive di vita, si allungavano in tutte le direzioni. L’aria era grigia di cenere; i cieli sulla sua testa ribollivano come piombo nel calderone di un fabbro. Il Dio Antico sentì un brivido di disagio che gli raffreddò l’animo.

    Sopra di lui, i predatori nati dal corpo del dio volteggiavano gracchiando.

    Una voce familiare parlò alla mente di K’rul. Fratello, sono sulla costa settentrionale.

    «E io su quella occidentale».

    Sei inquieto?

    «Sì. Tutto è… morto».

    Incenerito. Ma il calore rimane sotto il letto di cenere. Di cenere… e ossa.

    Una terza voce intervenne. Fratelli, vengo dal sud, dove una volta troneggiavano le città. Tutte distrutte. Gli echi del grido di morte di un continente aleggiano ancora nell’aria. Siamo vittime di un inganno? Questa è forse un’illusione?

    K’rul si rivolse al primo Antico che gli aveva parlato alla mente. «Draconus, anch’io sento quel grido di morte. Un tale dolore… ancora più spaventoso di quello del Caduto. Se non si tratta di un inganno, di che cosa, allora?».

    Tutti abbiamo messo piede su questa terra, per cui condividiamo le tue percezioni, K’rul, rispose Draconus. Nemmeno io sono sicuro della loro verità. Sorella, ti stai avvicinando alla dimora dell’Alto Re?

    Sì, fratello Draconus, rivelò la terza voce. Tu e fratello K’rul vorreste raggiungermi ora, cosicché possiamo affrontare insieme questo mortale?

    «Lo faremo».

    Due canali si aprirono, uno a nord, in lontananza, l’altro proprio davanti a K’rul.

    I due Dei Antichi si unirono alla sorella sulla scabra cima di una collina, dove il vento turbinava fra le ceneri, intrecciando ghirlande funerarie nel cielo. Davanti a loro, sopra un mucchio di ossa bruciate, si ergeva un trono.

    L’uomo che vi stava seduto sorrideva. «Come potete vedere», esordì aspro, dopo averli guardati con aria sprezzante, «ho… fatto preparativi per il vostro arrivo. Oh sì, vi aspettavo. Draconus, della stirpe di Tiam. K’rul, Apritore dei Sentieri». I suoi occhi grigi si girarono sulla terza Antica. «E tu. Mia cara, avevo l’impressione che avessi abbandonato la tua… vecchia identità. Camminare fra i mortali, recitare la parte della maga mediocre… un rischio letale, anche se, forse, è questo ad attirarti a tal punto verso il gioco. Sei stata sui campi di battaglia, donna. Una freccia mal diretta…». Scosse lentamente la testa.

    «Siamo venuti», annunciò K’rul, «per porre fine al tuo regno di terrore».

    Kallor alzò le sopracciglia. «Vorreste togliermi tutto quello che ho ottenuto con tanta fatica? Cinquant’anni, cari rivali, per conquistare un intero continente. Oh, forse Ardatha si ostinava a resistere: mi mandava sempre in ritardo i tributi che mi spettavano, ma io ignoravo questi atti meschini. È fuggita, lo sapevate? Quella strega! Credete di essere i primi a sfidarmi? Il Cerchio ha abbattuto un Dio Straniero. Sì, il tentativo è andato… storto, risparmiandomi così il compito di uccidere quegli sciocchi con le mie mani. E il Caduto? Be’, impiegherà un po’ di tempo a riprendersi e, anche allora, credete veramente che aderirà alle richieste di chicchessia? Avrei…».

    «Basta», ruggì Draconus. «La tue ciance diventano pesanti, Kallor».

    «Benissimo», sospirò l’Alto Re. Si chinò in avanti. «Siete venuti a liberare il mio popolo dal mio dominio tirannico. Per vostra sfortuna, non sono tipo da cedere il mio potere. Né a voi, né a nessun altro». Si riappoggiò allo schienale, agitando languidamente una mano. «Così, ciò che volevate negare a me, ora lo nego a voi».

    Anche se la verità stava davanti agli occhi di K’rul, egli non poteva crederci. «Che cosa…».

    «Sei cieco?» urlò Kallor, afferrando i braccioli del trono. «È scomparso! Loro sono scomparsi! Rompete le catene, avanti! Coraggio… no, ve li cedo! Tutto ciò che vi circonda è ora libero! Polvere! Ossa! Tutto libero!».

    «Hai veramente incenerito un intero continente?» mormorò l’Antica. «Jacuruku…».

    «Non esiste più, e non esisterà mai più. Ciò che ho scatenato non guarirà mai. Avete capito? Mai. Ed è tutta colpa vostra. Vostra. È lastricata di cenere e ossa, questa nobile strada che avete scelto di percorrere. La vostra strada».

    «Non possiamo permetterlo».

    «È già successo, sciocca!».

    K’rul parlò alla mente dei suoi simili. Deve essere fatto. Forgerò un… un posto allo scopo. Dentro di me.

    Un canale per contenere tutto questo? chiese Draconus, inorridito. Fratello mio…

    No, deve essere fatto. Unisciti a me ora, quest’opera non sarà facile…

    Ti spezzerà, K’rul, osservò sua sorella. Ci dev’essere un altro modo.

    No. Lasciare questo continente così com’è… No, questo mondo è giovane. Portare una cicatrice simile…

    E Kallor? indagò Draconus. Cosa avverrà a questa… creatura?

    Lo terremo d’occhio, rispose K’rul. Conosciamo il suo più profondo desiderio, no?

    E l’estensione della sua vita?

    Lunga, amici miei.

    D’accordo.

    K’rul batté le palpebre, puntando sull’Alto Re gli occhi scuri, intensi. «Per questo crimine, Kallor, ti infliggiamo una punizione adeguata. Sappi questo: tu, Kallor Eiderann Tes’thetula, conoscerai la vita mortale eterna. La vita mortale, nella devastazione della vecchiaia, nel dolore delle ferite e nell’angoscia della disperazione. Nei sogni che finiscono in rovina. Nell’amore che appassisce. Nell’ombra dello spettro della Morte, che minaccerà perpetuamente di porre fine a ciò che non vorrai cedere».

    Draconus parlò: «Kallor Eiderann Tes’thetula, tu non ascenderai mai».

    La sorella aggiunse: «Kallor Eiderann Tes’thetula, ogni volta che ti innalzerai, sarai destinato a ricadere. Tutto ciò che otterrai si trasformerà in polvere nelle tue mani. Ciò che hai fatto qui di tua volontà colpirà a sua volta tutto ciò che farai».

    «Tre voci ti maledicono», salmodiò K’rul. «Così sia».

    L’uomo sul trono tremò. Le sue labbra si ritrassero in un ghigno convulso. «Vi spezzerò. Tutti quanti. Lo giuro sulle ossa di sette milioni di sacrifici. K’rul, tu sparirai dal mondo, verrai dimenticato. Draconus, tutto quello che farai si rivolterà contro di te. E quanto a te, donna, mani non umane faranno a pezzi il tuo corpo, su un campo di battaglia, ma non conoscerai sollievo; questa è la mia maledizione contro di te, Sorella delle Fredde Notti. Kallor Eiderann Tes’thetula, una voce, ha espresso tre maledizioni».

    Lasciarono Kallor sul suo trono, sul suo cumulo di ossa. Unirono i loro poteri per avvolgere in catene un continente massacrato, poi lo attrassero in un canale creato per quell’unico scopo, lasciando la terra completamente nuda. A guarire.

    Lo sforzo lasciò K’rul spezzato, vittima di ferite che, sapeva, l’avrebbero accompagnato per tutta la vita. Inoltre, cominciava a sentire l’influenza maligna della maledizione di Kallor: l’adorazione dei suoi fedeli era in declino. Ma, con sua grande sorpresa, la perdita lo affliggeva meno di quanto avrebbe immaginato.

    In piedi ai margini del regno nascente, privo di vita, i tre contemplarono a lungo la loro opera.

    Poi Draconus parlò: «È dall’epoca dell’Oscurità Totale che forgio una spada».

    A quelle parole, sia K’rul sia la Sorella delle Fredde Notti si girarono: non ne sapevano niente.

    «Il lavoro ha richiesto... molto tempo», continuò Draconus, «ma ora ho quasi finito. Il potere investito nella spada possiede una sua… determinazione».

    «Allora», sussurrò K’rul, dopo aver riflettuto per un attimo, «devi compiere delle modifiche nella sagomatura finale».

    «Così pare. Dovrò pensarci a lungo».

    Dopo un lungo momento, K’rul e il fratello si volsero verso la sorella.

    Lei scosse le spalle. «Cercherò di proteggermi. Quando arriverà la mia rovina, sarà a causa del tradimento, e di nient’altro. Non posso prendere precauzioni contro una cosa simile, o la mia vita diventerà un incubo di diffidenza e di sospetto. Non intendo arrendermi a questo. Continuerò a recitare il gioco mortale fino alla fine».

    «Attenta, allora», mormorò K’rul, «a scegliere bene per chi combattere».

    «Trovati un compagno», le consigliò Draconus. «Uno valido».

    «Sagge parole da tutti e due. Vi ringrazio».

    Non c’era altro da dire. I tre si erano riuniti, con un’intenzione che era stata realizzata anche se, forse, non nel modo che avevano desiderato. E il prezzo era stato pagato. Volentieri. Tre vite e un’altra ancora, tutte distrutte. Per una singola, l’inizio dell’odio eterno. Per le altre tre, uno scambio equo.

    Gli Dei Antichi, come si diceva, nutrivano sentimenti decisamente sgradevoli.

    In lontananza, la bestia guardò le tre figure dividersi. Lacerata dal dolore, la bianca pelliccia sporca e gocciolante di sangue, l’orbita dell’occhio perduto lucida di viscidume, essa sorreggeva la massa sgraziata del corpo sulle zampe tremanti. Desiderava la morte, ma la morte si rifiutava di venire. Desiderava la vendetta, ma quelli che l’avevano ferita erano morti. Rimaneva soltanto l’uomo seduto sul trono, che aveva distrutto la sua dimora.

    Sarebbe giunto il momento di regolare quel conto.

    Un ultimo desiderio riempì l’animo devastato della creatura. Da qualche parte, in mezzo alla conflagrazione della Caduta e al caos che ne era seguito, aveva perso la sua compagna, e ora era sola. Forse lei era ancora viva. Forse, ferita a sua volta, setacciava le lande desolate in cerca delle sue tracce.

    O forse era fuggita, in preda al dolore e al terrore, verso il canale che aveva immesso il fuoco nel suo spirito.

    Ovunque fosse andata – sempre che fosse ancora viva – lui l’avrebbe trovata.

    Le tre figure lontane aprirono i canali; ognuna svanì nel proprio Regno Antico.

    La bestia scelse di non seguirne nessuna. Erano entità giovani, per quanto riguardava lui e la sua compagna, e il canale in cui lei, forse, era fuggita era, in confronto a quello degli Dei Antichi, vecchio.

    Il sentiero che lo aspettava pullulava di pericoli, e il suo cuore addolorato era gonfio di paura.

    La porta che gli si aprì davanti rivelò una turbinosa tempesta di potere, striata di grigio. Dopo un attimo di esitazione, la varcò.

    E scomparve.

    LIBRO PRIMO

    LA SCINTILLA E LE CENERI

    Cinque maghi, un Aggiunto, innumerevoli Demoni Imperiali e il disastro di Darujhistan: tutto servì a giustificare pubblicamente la proscrizione di Dujek il Monco e delle sue malconce legioni da parte dell’Imperatrice. E ciò rese liberi il Monco e la sua Armata di lanciare una nuova campagna, stavolta come forza militare autonoma, di forgiare le loro empie alleanze destinate a sfociare nella continuazione della terribile Infilata dei Maghi a Genabackis è, si potrebbe sostenere, incidentale. Certo, le incalcolabili vittime di quell’epoca di devastazione potrebbero, se Hood concedesse loro tale privilegio, esprimere un’opinione completamente diversa. Forse il dettaglio più poetico di quelle che sarebbero state chiamate le Guerre Pannion fu, in effetti, un segno precursore dell’intera campagna: la noncurante distruzione di un ponte di pietra solitario, da parte del Tiranno Jaghut durante la sua sfortunata marcia verso Darujhistan…

    Campagne Imperiali (Le Guerre Pannion)

    1194-1195, Volume IV, Genabackis

    Imrygyn Tallobant (n. 1151)

    CAPITOLO UNO

    I ricordi sono arazzi intessuti a nascondere dure pareti… ditemi, amici, che colore ha il vostro filo preferito e io, a mia volta, vi dirò che tonalità ha la vostra anima…

    Vita di sogni

    Ilbares la Strega

    1164esimo anno del Sonno di Burn (due mesi dopo la Festa di Darujhistan)

    4° anno del Dominio di Pannion

    Anno Tellann del Secondo Raduno

    I blocchi di calcare Gadrobi del ponte giacevano sparsi, rotti e bruciacchiati nel fango smosso della riva, come se la mano di un dio fosse scesa a frantumare la struttura di pietra in un solo, meschino gesto di disprezzo. E, sospettava Gruntle, la cosa non era molto lontana dalla verità.

    La notizia era filtrata a Darujhistan meno di una settimana dopo la distruzione, quando le prime carovane dirette a est, nel raggiungere il punto di attraversamento del fiume, avevano scoperto che, al posto di un ponte funzionale, non c’era altro che un mucchio di macerie. Voci sussurrarono di un antico demone che, scatenato da agenti dell’Impero Malazan, era uscito dalle Colline Gadrobi deciso ad annientare la stessa Darujhistan.

    Gruntle sputò nell’erba annerita accanto alla carrozza. Aveva i suoi dubbi su quella storia. Certo, due mesi prima, la notte della Festa della città, c’erano stati strani eventi – non che fosse stato abbastanza sobrio da notare granché – e testimoni a sufficienza da far prestare fede all’avvistamento di draghi, di demoni e della terrificante discesa della Progenie della Luna; ma qualunque creatura soprannaturale con il potere di devastare un’intera regione avrebbe potuto arrivare a Darujhistan. E, dal momento che la città non era ridotta a un cumulo di detriti fumanti – o almeno, non più di quanto non fosse, di norma, dopo i festeggiamenti – ciò non si era evidentemente verificato.

    No, era molto più probabile che fosse opera della mano di un dio, o forse di un terremoto, anche se le Colline Gadrobi non erano famose per i loro sommovimenti. Forse Burn si era mossa, inquieta, nel suo sonno eterno.

    A ogni modo, ora la verità delle cose gli si ergeva davanti. O, meglio, giaceva sparpagliata fino alla Porta di Hood e oltre. E il fatto era che, quali che fossero i giochi degli dei, erano i bastardi come lui, lavoratori indefessi ma poveri in canna, a soffrirne.

    Era tornato in uso il vecchio guado, trenta passi a monte di dove era stato costruito il ponte. Non vedeva traffico da secoli e una settimana di piogge fuori stagione aveva trasformato entrambe le rive in una palude. Carovane affollavano quel punto, alcune sulle antiche rampe, altre impantanate senza speranza nel fiume in piena; e altre dozzine ancora aspettavano sulle piste, mentre l’umore di mercanti, guardie e animali peggiorava di ora in ora.

    Gruntle, che da due giorni aspettava di attraversare, era soddisfatto della sua scarna truppa. Erano un’isola di calma. Harllo aveva raggiunto sguazzando i resti delle fondamenta di sinistra del ponte, e ora vi sedeva in cima, con in mano la canna da pesca. Stonny Menackis aveva condotto una banda di lacere guardie di carovana al carro di Storby, e Storby non era troppo dispiaciuto di vendere boccali di birra Gredfallan a prezzi esorbitanti. Che i barili fossero destinati a una locanda sulla strada nei pressi di Saltoan era una sfortuna per l’oste che li aspettava. Se le cose continuavano a quel modo, lì sarebbe sorto un mercato, e poi una maledetta cittadina. Alla fine, qualche zelante funzionario di Darujhistan avrebbe concluso che sarebbe stato meglio ricostruire il ponte, e in una decina d’anni l’opera sarebbe stata compiuta. A meno che, naturalmente, la cittadina non fosse diventata un florido centro d’affari, nel qual caso avrebbero mandato un esattore delle imposte.

    Gruntle era egualmente soddisfatto della serenità dimostrata dal suo principale davanti al ritardo. Era arrivata notizia che il mercante Manqui dall’altra parte del fiume si era fatto scoppiare un’arteria in testa, morendo sul colpo; il che era tipico della professione. No, il loro padrone Keruli era un fuori razza, tanto da minare il disgusto che Gruntle coltivava per i mercanti in genere. Ma, del resto, la lunga lista di caratteristiche insolite di Keruli aveva spinto il capitano delle guardie a credere che egli non fosse affatto tale.

    Non che avesse importanza. Il denaro era denaro, e la paga di Keruli era buona, addirittura superiore alla media. Per quel che importava a Gruntle, avrebbe potuto essere il principe Arard travestito.

    «Voi, signore!».

    Gruntle distolse lo sguardo dalla pesca infruttuosa di Harllo. Un vecchio brizzolato stava accanto alla carrozza, e lo guardava con gli occhi socchiusi. «Un tono maledettamente imperioso, il vostro», ruggì il capitano, «dal momento che, a giudicare dai vostri stracci, dovete essere il peggior mercante del mondo, o il servo di un poveraccio».

    «Sono un domestico, per la precisione. Mi chiamo Emancipor Reese. Quanto al fatto che i miei padroni siano poveri, tutt’altro. Tuttavia, siamo sulla strada da parecchio tempo».

    «Vi credo», ammise Gruntle, «poiché il vostro accento è irriconoscibile, il che, se lo noto io, è tutto dire. Che cosa volete, Reese?».

    Il domestico si grattò la barbetta argentea sulla mascella squadrata. «Un attento interrogatorio di questa folla ha raccolto l’unanime consenso che, come guardia di carovana, vi siete guadagnato un certo rispetto».

    «Come guardia di carovana, immagino che sia vero», replicò seccamente Gruntle. «E allora?».

    «I miei padroni desiderano parlarvi. Se non siete troppo occupato… siamo accampati non lontano da qui».

    Appoggiandosi allo schienale, Gruntle studiò Reese per un attimo, poi grugnì. «Devo chiedere il permesso al mio principale per incontrarmi con altri mercanti».

    «Ma certo, signore. E potete assicurargli che i miei padroni non hanno intenzione di corrompervi o compromettere in altro modo il vostro contratto».

    «Sul serio? Va bene, aspettate qua». Gruntle si lasciò scivolare giù dalla piattaforma sul lato opposto a Reese. Andò fino alla porticina dall’intelaiatura ornata e bussò una volta. Essa si aprì silenziosamente e, nell’oscurità relativa della carrozza, si profilò il viso rotondo, inespressivo di Keruli.

    «Sì, capitano, andate pure. Riconosco di provare una certa curiosità riguardo ai due padroni di quell’uomo. State molto attento a osservare i particolari del vostro incontro imminente. E, se potete, scoprite quali sono state le loro attività, a partire da ieri».

    Il capitano grugnì per mascherare la sua sorpresa davanti alla conoscenza stranamente profonda di Keruli – non era ancora sceso dalla carrozza – poi disse: «Come volete, signore».

    «Oh, e recuperate Stonny sulla via del ritorno. Ha bevuto di gran lunga troppo, ed è diventata molto polemica».

    «Forse dovrei farlo subito, allora. Rischia di riempire qualcuno di buchi, con quel suo stocco. Conosco i suoi umori».

    «Ah, d’accordo. Fatela prendere da Harllo».

    «Uh, lui si unirebbe al suo gioco, signore».

    «Eppure parlate bene di loro».

    «Sì», rispose Gruntle. «Non per peccare d’immodestia, signore, ma noi tre insieme valiamo due volte tanto, quando si tratta di proteggere un padrone e la sua mercanzia. Per questo siamo così cari».

    «Le vostre tariffe erano alte? Capisco. Uhm. Informa i tuoi due compagni, allora, che l’avversione ai guai aggiungerà una gratifica sostanziale alla loro paga».

    Gruntle riuscì a non spalancare la bocca. «Uh, questo dovrebbe risolvere il problema, signore».

    «Ottimo. Da’ la notizia a Harllo, allora, e mandalo dove deve andare».

    «Sì, signore».

    La porta si richiuse.

    Per combinazione, Harllo stava già tornando, con la canna da pesca in una mano massiccia, e un misero pesce, simile a una suola di scarpa, stretto nell’altra. I suoi occhi azzurro lucente brillavano di eccitazione.

    «Guarda, razza di omiciattolo: ho procurato la cena!».

    «La cena per un topo di monastero, vuoi dire. Potrei risucchiare quella roba da una narice».

    Harllo si accigliò. «Zuppa di pesce. Un gusto…».

    «Grandioso. Adoro la zuppa al gusto di fango. Guarda, non respira nemmeno; probabilmente era già morto quando l’hai preso».

    «Gli ho picchiato una pietra in mezzo agli occhi, Gruntle…».

    «Dev’essere stata una pietruzza».

    «Non ne avrai una briciola!».

    «Grazie al cielo. Ora ascoltami. Stonny si sta ubriacando».

    «Strano, non sento nessun chiasso».

    «E Keruli vi darà una gratifica se non se ne sentirà mai. Capito?».

    Harllo lanciò un’occhiata alla porta della carrozza, poi annuì. «Glielo dirò».

    «Meglio che ti sbrighi».

    «Bene».

    Gruntle lo guardò trotterellare via, con ancora in mano la sua canna e il suo trofeo. L’uomo aveva braccia enormi, troppo lunghe e muscolose per il resto della corporatura scarna. La sua arma di elezione era una spada a doppia impugnatura, acquistata da un fabbro di Deadman’s Story; fra quelle braccia scimmiesche, sembrava fatta di bambù. La chioma arruffata, color biondo chiaro, gli copriva la zucca come un groviglio di lenze. Nel vederlo per la prima volta, la gente scoppiava a ridere, ma Harllo usava il piatto della spada per zittirli. Bruscamente.

    Con un sospiro, Gruntle tornò al punto in cui lo aspettava Emancipor Reese. «Fatemi strada», lo esortò.

    Reese chinò la testa. «Splendido».

    La carrozza era imponente, una casa appollaiata su ruote alte, munite di raggi. Elaborate incisioni affollavano la struttura stranamente arcuata, figurette dipinte che saltellavano e si arrampicavano con espressioni beffarde. Tela sbiadita dal sole formava una volta sopra il sedile del vetturino. Quattro buoi si spostavano liberamente in un recinto di fortuna, a dieci passi sottovento rispetto al campo.

    La riservatezza doveva essere importante per i padroni del domestico, poiché si erano messi a buona distanza sia dalla strada sia dagli altri mercanti, là dove potevano vedere chiaramente i poggi che si innalzavano sul lato meridionale della strada e, oltre quest’ultima, la vasta estensione della pianura.

    Un gatto rognoso sdraiato sulla piattaforma guardò avvicinarsi Reese e Gruntle.

    «È vostro?» domandò il capitano.

    Reese gli rivolse un’occhiata, poi sospirò. «Sì, signore. È una femmina; si chiama Squirrel».

    «Un alchimista o una strega della cera potrebbero curare quella rogna».

    Il domestico sembrava a disagio. «Me ne occuperò senz’altro quando arriveremo a Saltoan», borbottò. «Ah», indicò con il capo le colline al di là della strada, «ecco che arriva Padron Bauchelain».

    Gruntle si girò a osservare l’uomo alto, angoloso che aveva raggiunto la strada e ora camminava disinvoltamente verso di loro. Portava un costoso mantello di pelle nera, lungo fino alle caviglie, stivali da cavallerizzo dello stesso materiale sopra calzoni grigi e, sotto una larga camicia di seta – pure nera – s’intravedeva la lucentezza di un’armatura di maglia fine, annerita.

    «Il nero», disse il capitano a Reese, «era il colore dell’anno scorso a Darujhistan».

    «Il nero è il colore perpetuo di Bauchelain, signore».

    Il viso del padrone era pallido, dalla forma molto simile a un triangolo, impressione accentuata da una barba ben curata. I capelli, lucidi di olio, erano scostati dall’alta fronte. Gli occhi erano grigio scialbo, incolori come il resto della sua persona. Nell’incontrarlo, Gruntle avvertì un’ondata di allarme viscerale.

    «Capitano Gruntle», esordì Bauchelain con voce morbida, studiata, «le indagini del vostro principale non sono affatto sottili. Ma, nonostante non siamo tipi da soddisfare generalmente tale curiosità riguardo alle nostre attività, stavolta faremo un’eccezione. Venite con me». Lanciò un’occhiata a Reese. «La tua gatta sembra soffrire di palpitazioni. Ti consiglio di confortarla».

    «Subito, padrone».

    Gruntle posò le mani sul pomo dei suoi coltellacci, gli occhi socchiusi fissi su Bauchelain. Le molle della carrozza cigolarono, mentre il domestico si arrampicava sulla piattaforma.

    «Ebbene, capitano?».

    Gruntle non si mosse.

    Bauchelain alzò un sopracciglio sottile. «Ve l’assicuro, il vostro principale è ansioso che ottemperiate alla mia richiesta. Se, tuttavia, avete paura, forse riuscirete a convincerlo a tenervi per mano per la durata di quest’impresa. Per quanto, vi avverto, trascinarlo all’aperto potrebbe rivelarsi difficile, anche per un uomo della vostra stazza».

    «Siete mai andato a pesca?» chiese Gruntle.

    «A pesca?».

    «I pesci che abboccano a qualunque esca sono giovani, e lo rimangono. Io accompagno carovane da più di vent’anni, signore. Non sono giovane. Se volete qualcuno che abbocchi, cercate altrove».

    Bauchelain fece un sorriso asciutto. «Le vostre parole non fanno che rassicurarmi, capitano. Procediamo?».

    «Guidatemi».

    Attraversarono la strada. Una vecchia pista per le capre li condusse fra le colline. L’accampamento delle carovane dalla parte più vicina del fiume svanì rapidamente alla vista. L’erba bruciacchiata dalla conflagrazione che aveva colpito quella terra deturpava ogni pendio e ogni sommità, anche se avevano cominciato a spuntare steli nuovi.

    «Il fuoco», osservò Bauchelain mentre avanzavano, «è essenziale per la salute di queste erbe di prateria. Come lo è il passaggio dei bhederin: le loro centinaia di migliaia di zoccoli rendono compatto il suolo sottile. Ahimè, la presenza delle capre significherà la fine del verde per queste antiche colline. Ma ho cominciato con il fuoco, no? Distruzione e violenza, entrambe indispensabili alla vita. Lo trovate strano, capitano?».

    «Quella che trovo strana, signore, è la sensazione di aver dimenticato la mia tavoletta di cera».

    «Avete ricevuto un’istruzione, allora. Interessante. Siete un uomo di spada, no? Che bisogno avete di lettere e numeri?».

    «E voi siete un uomo di lettere; che bisogno avete di quello spadone logoro per l’uso e di quella raffinata cotta di maglia?».

    «Un deplorevole effetto collaterale dell’istruzione delle masse è la mancanza di rispetto».

    «Salutare scetticismo, vorrete dire».

    «Disprezzo per l’autorità, piuttosto. Avrete notato, per rispondere alla vostra domanda, che abbiamo un solo domestico, piuttosto anziano. Niente guardie prezzolate. Il bisogno di proteggersi è vitale nella nostra professione».

    «E di che professione si tratta?».

    Erano discesi su un sentiero ben battuto che si snodava in mezzo alle colline. Bauchelain si fermò, guardando Gruntle con un sorriso. «Voi mi divertite, capitano. Ora capisco perché i carovanieri parlano bene di voi: siete il solo fra loro a possedere un cervello funzionante. Venite, siamo quasi arrivati».

    Aggirando il pendio malconcio di una collina, arrivarono al margine di un cratere recente. La terra alla base era una striscia di fango smosso, costellata di blocchi di pietra spezzati. Gruntle stimò che fosse largo quaranta passi e profondo quattro o cinque braccia. Vicino a loro, seduto sul bordo, c’era un uomo, anch’egli vestito di pelle nera; la testa calva aveva il colore della pergamena sbiancata. Si alzò senza rumore, malgrado la mole considerevole, e si volse verso di loro con movimenti sciolti e aggraziati.

    «Korbal Broach, capitano. Il mio… socio. Korbal, abbiamo qui Gruntle, un uomo il cui carattere sconfina, a dir poco, nel burbero».

    Se Bauchelain aveva suscitato disagio nel capitano, il suo compagno – con il viso largo e rotondo, gli occhi sepolti nella carne gonfia e la bocca ampia, dalle labbra carnose, leggermente increspata all’ingiù, una maschera infantile e indicibilmente orribile al tempo stesso – gli procurò brividi di paura in tutto il corpo. Anche stavolta, la sensazione fu puramente istintiva, come se Bauchelain e il suo socio emanassero un’aura in qualche modo corrotta.

    «Per forza la gatta aveva le palpitazioni», borbottò il capitano fra sé. Distolse lo sguardo da Korbal Broach e studiò il cratere.

    Bauchelain gli si mise accanto. «Capite quello che vedete, capitano?».

    «Sì, non sono uno sciocco. È una buca nella terra».

    «Bella battuta. Una volta qui si ergeva un tumulo. All’interno, era incatenato un Tiranno Jaghut».

    «Ma no».

    «Davvero. Ci si immischiò un antico impero, o così mi risulta. E, in combutta con un T’lan Imass, riuscirono a liberare quell’essere».

    «Prestate fede ai racconti, allora», commentò Gruntle. «Se è successo realmente, allora che cosa gli è accaduto, in nome di Hood?».

    «Noi ci siamo chiesti la stessa cosa, capitano. Siamo forestieri in questo continente. Fino a poco fa, non avevamo mai sentito parlare dell’Impero Malazan, né della meravigliosa città chiamata Darujhistan. Durante la nostra brevissima permanenza qui, tuttavia, abbiamo udito resoconti di eventi appena accaduti. Demoni, draghi, sicari. E la Casa degli Azath di nome Finnest, in cui è ancora proibito entrare, sembra occupata lo stesso; vi abbiamo fatto visita, naturalmente. Inoltre, abbiamo sentito storie su una fortezza volante, chiamata Progenie della Luna, che una volta aleggiava sulla città».

    «Sì, l’ho vista con i miei occhi. Se n’è andata un giorno prima di me».

    Bauchelain sospirò. «Ahimè, sembra che siamo arrivati troppo tardi per assistere di persona a tali terribili meraviglie. Un signore dei Tiste Andii governa la Progenie della Luna, a quanto ho sentito».

    Gruntle scosse le spalle. «Se lo dite voi! Io non ho simpatia per i pettegolezzi».

    Gli occhi dell’uomo si indurirono.

    Il capitano sorrise fra sé.

    «Pettegolezzi. Già».

    «È questo che volevate mostrarmi, allora? Questa… buca?».

    Bauchelain alzò un sopracciglio. «Non proprio. Questa buca è solo l’entrata. Intendiamo visitare la tomba Jaghut che giace al di sotto».

    «Che Oponn vi benedica, allora», concluse Gruntle, volgendosi dall’altra parte.

    «Immagino», proseguì l’uomo alle sue spalle, «che il vostro padrone vi esorterebbe ad accompagnarci».

    «Può esortare quanto gli pare», ribatté il capitano. «Il mio contratto non parla di affondare in una pozza di fango».

    «Non abbiamo intenzione di sporcarci di fango».

    Gruntle gli lanciò un’occhiata, storcendo la bocca in un sorriso storto. «Era una metafora, Bauchelain. Le mie scuse, se non avete capito». Si girò di nuovo, dirigendosi alla pista. Poi si fermò. «Volevate vedere la Progenie della Luna, signori?». Indicò con la mano.

    Simile a un’imponente nube nera, la fortezza di basalto torreggiava appena sopra l’orizzonte meridionale.

    Le pietruzze irregolari scricchiolarono sotto il peso degli stivali, e Gruntle si ritrovò stretto fra i due uomini, entrambi impegnati a studiare la distante montagna volante.

    «Difficile determinarne la grandezza», borbottò Bauchelain. «Quant’è lontana?».

    «Direi una lega, forse più. Credetemi, signori, è abbastanza vicina per i miei gusti. Ho camminato nella sua ombra a Darujhistan – per un po’, là, è stato inevitabile – e non è una sensazione rassicurante».

    «Presumo di no. Che ci fa qui?».

    Gruntle scrollò le spalle. «Sembra diretta a sud-est…».

    «Per questo è inclinata».

    «No. È stata danneggiata sopra Pale. Dai maghi dell’Impero Malazan».

    «Bell’impresa, da parte loro».

    «Hanno pagato con la vita. La maggior parte, comunque; così ho sentito. Inoltre, anche se sono

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