Caffè Coppedè: Un giallo dallo humor nero
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Anteprima del libro
Caffè Coppedè - Daniele Botti
tempi.
Uno
Val d’Orcia, 21 dicembre 2011.
Per un momento lo fissò negli occhi. Erano sgranati. Cercavano la mamma.
Basta, lo finisco
pensò Canova, e gli poggiò la sua Colt Python sulla tempia.
«Che fa marchese, è impazzito?» urlò il professor Aldebrandi. Ma quello aveva già sparato. Bang!
«E che dovevo fare, professore?».
«Ma adesso dal proiettile possono risalire all’arma. Vedo che lei ha una pistola d’epoca...».
«Già, senza considerare che i proiettili sono d’argento, me li faccio fare apposta... adesso che facciamo?».
«L’unica è provare a estrarlo, ci penso io».
Il chirurgo Aldebrandi corse alla sua Ferrari. Tornò con una borsa di cuoio. «Tenga, marchese, mi illumini» disse, porgendo a Canova una torcia.
Armeggiò per un po’ con il bisturi, senza arrivare a nulla. Il buio e la pioggia che veniva giù a spilli minuscoli ghiacciati rendevano l’operazione ancora più difficile.
«Ci vuole troppo, dobbiamo sbrigarci» incalzò il marchese.
«Ha ragione, c’è solo una cosa da fare».
Mentre Canova lo teneva fermo, Aldebrandi gli segò la testa. Quindi la presero per le corna e la caricarono nella Porsche del marchese.
Fu lì che Giselda Beach aprì lo sportello e vomitò.
«Per la mia collezione, cara» le urlò Canova «mi mancava giusto un cervo della Val d’Orcia, sono rarissimi sai?» e scoppiò in una risata cavernosa che fece fuggire ogni animale selvatico nel raggio di un chilometro.
Buttata la carcassa decapitata tra i lecci, la Porsche del marchese, alla guida di una colonna di auto amiche, riprese la marcia. Ormai mancava poco, meno di un quarto d’ora e sarebbero arrivati.
«Sei un mostro» lo apostrofò la Beach appena risalì in macchina.
«Ah sì? Uno investe per sbaglio un cervo, poi lo sopprime facendo in modo che non soffra e tu lo chiami mostro?».
«L’hai ucciso apposta per la tua collezione!».
«Stavo scherzando, cara, stavo scherzando! Se non gli segavamo la testa, la Forestale sarebbe risalita a me dal proiettile. Possibile che tu non abbia il minimo senso dell’umorismo?».
La Beach abbassò gli occhi. Poi riprese a lamentarsi: «Che palle comunque, eh!».
«Che hai adesso, si può sapere?».
«E me lo chiedi? È che mi porti sempre tra questi vecchi!».
«Senti carina, è la solita cena di beneficenza di Natale, non posso dire di no, capito?».
L’aveva notata un paio d’anni prima tra i questuanti che ogni mattina si mettevano in fila davanti al suo palazzo romano sull’Aventino. Spiccava tra tutti: capelli ricci rosso fuoco, occhi verdi, bel viso, un seno prepotente, una quinta a dir poco. Aveva ordinato di farla salire.
Le fece un breve colloquio, se così si può chiamare, e perse la testa. La infilò prima nel cast del cinepanettone Natale a Ferragosto col nome d’arte di Giselda Beach, e poi in Parlamento, dove era diventata presidente della Commissione Cultura. Ora però iniziava a stancarsi di lei. Si era forse dimenticata che prima di conoscerlo era solo una borgatara?
Tra i lecci spuntarono due fiaccole e quattro guardie armate di fianco. «Ci siamo, perdio!». Canova abbassò il finestrino e fece cenno agli altri di svoltare a destra.
Nel parcheggio, accanto alla sua Porsche Panamera, si piazzò la Jaguar del notaio Lalli e signora, la Maserati del senatore Rosati, venuto col portaborse che si vociferava fosse anche l’amante, poi la Ferrari dello stimatissimo ginecologo professor Aldebrandi, proprietario di una decina di cliniche a Roma e dintorni, e tutti gli altri a seguire.
Come entrarono li accolse il calore da altoforno del camino medievale e un reggimento di servi in divisa. «Presto, Brunello per tutti» urlò il marchese battendo le mani «mi raccomando: la riserva speciale del Sessantaquattro».
Dopo il brindisi entrarono nel salone dove era apparecchiato un enorme tavolo a ferro di cavallo. Ma sopra non c’erano piatti posate e bicchieri, solo balestre, una per ogni commensale.
«In onore dei nostri padri e delle antiche tradizioni, oggi ognuno mangerà solo quello che riesce a cacciare». Il marchese batté di nuovo le mani e, spinta dai servi, entrò un’enorme gabbia da circo semovente piena di uccelli strepitanti.
«Yellow neck, beccaccini, sandgrouse, pernici, quaglie: pregevolezze venute direttamente dal mio resort in Kenya per voi, cari amici. Troppo facile starvene lì seduti a farvi servire, oggi il cibo ve lo dovrete guadagnare».
«Bella idea» commentarono le signore «in questi tempi di crisi dobbiamo essere noi i primi a dare l’esempio di sobrietà».
Nobili, ministri, mogli e puttane al seguito caricarono le balestre e mirarono verso la gabbia. Le prede fiocinate venivano subito raccolte dai servi solerti, spennate e buttate sulla brace. Finito il tiro al bersaglio, iniziò la cena.
«Ma le posate?» chiese il notaio Lalli.
«Faremo anche questo come gli antichi» rispose Canova «mangeremo con le mani».
Così si avventarono famelici sulla carne. I pezzi di grasso, oltre a intasare le dentiere, finivano nei décolleté e a terra, raccolti subito dai servi. Non nei décolleté, è chiaro, lì ci pensavano i vegliardi infilando il braccio intero con gran divertimento di tutta la brigata.
«Ehm, attenzione per favore!» disse il marchese Canova alla fine della cena, alzandosi in piedi. I nobili, gli onorevoli, le escort e le carampane sollevarono le bocche dai loro fieri pasti. «Cari amici, grazie a tutti per aver partecipato, come sempre generosamente, alla nostra cena annuale di beneficenza. Quest’anno, come sapete, l’obiettivo è raccogliere fondi per costruire un pozzo a Menamene, o Meme-Meme, o come cavolo si chiama, un povero villaggio dell’Etiopia. Paese che tra parentesi non starebbe com’è adesso se avessimo mantenuto le nostre colonie, ma tant’è».
Applauso.
«Chi mi conosce sa che mi piace parlare poco, per cui passiamo al programma del dopocena. Per gli uomini degustazione di rum, sigari e cioccolato, per le signore partita di burraco, di roulette o di quello che vi pare nel casinò che ho fatto allestire nella dépendance, a meno di cinquecento metri da qui, e che potrete raggiungere con delle comode navette. Detto questo, ci vediamo domattina. Prosit!».
Gli uomini, di età media ottant’anni, si alzarono scambiandosi cenni e occhiolini d’intesa, mentre le donne, di età media nettamente inferiore grazie alle numerose escort presenti, si catapultarono verso le navette, seguite da autisti e portaborse.
Nel trambusto si insinuò il capocameriere che si chinò su Canova sussurrandogli qualcosa all’orecchio.
«Un attimo. Solo un attimo e sono da voi» prese tempo il marchese dopo aver ascoltato scuro in volto, e uscì dalla stanza.
Nell’attesa del suo ritorno si formarono due gruppetti, uno attorno al senatore Rosati, l’altro a Baldovino Bernasconi Lalli, notaio, anzi notaro
, come aveva fatto scrivere sul biglietto da visita e sulla targa del suo studio di lungotevere Flaminio per rimarcare l’orgoglio di appartenere a una prestigiosa e antica corporazione.
Iniziarono a parlare del più e del meno.
«Cavo senatove, mio nipote mi sembva ovmai matuvo pev il sottosegvetaviato, non pensa?».
«Solo il sottosegretariato? Ma commendatore, suo nipote merita ben altro. Sa le lingue, mi diceva?».
«Ha fatto l’Evasmus in Ivlanda».
«Ecco, al ministero degli Esteri serve appunto un nuovo direttore generale e, guarda caso, alla mia villa di Portofino una nuova piscina a terrazze con cascata. Potremmo venirci incontro, no?».
«Il nuovo generale dei Carabinieri è un personaggio sgradevole, tutti quei controlli, quella solerzia! A me francamente ha rotto i coglioni».
«Ma davvero mi dice, ministro? Si è dimenticato forse chi l’ha messo lì? Perfetto, domani questo imbecille sarà a pascolare le pecore».
«Che splendida pipa d’avorio, principe».
«È un pezzo unico, intagliata a mano dal Bernini, pensi che è appartenuta allo Zar Nicola II».
Così tra queste chiacchiere passò un quarto d’ora abbondante, finché non tornò Canova, scuro in volto e sudaticcio.
«Tutto bene, marchese? Vuole che senta il polso?» gli chiese il professor Aldebrandi.
«Tutto a posto, professore. Piuttosto, è pronto il fagotto? Sbrighiamoci che alla mezzanotte manca poco».
Entrarono tutti nello spogliatoio, dove indossarono dei cappucci neri a punta con i fori per gli occhi, tranne Canova, che si gettò sulle spalle una pelliccia di lupo con la dentatura a fargli da copricapo. Poi passarono alla cappella della tenuta, illuminata solo da gigantesche torce preistoriche fissate alle pareti, come voleva la tradizione. Si accomodarono sugli scranni di legno con le coppe in mano, e il marchese in piedi dietro l’ara.
«Che entri il candidus puer!».
Quattro di loro portarono su una lettiga un neonato che dormiva avvolto in un lenzuolo bianco, e lo deposero davanti a lui.
Canova pronunziò con voce tonante: «La forza di Roma è nel sangue dei suoi eroi. Noi non possiamo perdere, o Cesare, perché gli dèi lo vogliono. Romolo fondò la nostra civiltà nel sangue di Remo, ed è nel sangue che Roma troverà la sua fortuna. Io delibero che sia rinnovato il gesto di nostro padre, e che del nero sangue scorra per le nostre future vittorie».
E subito dopo affondò il gladiolus originale del II secolo nel torace della vittima, all’altezza del cuore.
Due
Roma, la sera prima.
Toc toc.
«Chi è?».
«Amici».
Una voce roca, alle due di notte. Aprì il cassetto del comodino, dove teneva la pistola.
«Amici» ripeté la voce.
Dalla porta filtrò uno spicchio di luce sempre più grosso, fino ad abbagliarlo.
«Amici non si vede».
«Mamma! Ma che c’è?».
«C’è la finale di Amici, e il Cinque non si vede. Oh, ma… dormivi? Scusa eh, ma questo decodere…come si dice, che hai comprato».
«Non dipende dal decoder, è l’antenna che è vecchia e bisogna sostituirla».
«Verresti un attimo a vedere, così lo riinizi».
«Lo ri…?».
«Come si dice?».
«Risintonizzi. Va bene… Ufffff!».
«Maria stava per dire la prova finale, ballo o canto».
Ogni tanto era pesante. Soprattutto quando si trattava della tv. Era snervante tornare la sera e sentirla parlare di gente immaginaria come Maria, Antonella, Paolo, Max: oggi Maria ha fatto questo, Antonella ha fatto quest’altro, Maria è stata da Paolo e hanno invitato pure Max. E di che hanno parlato? Di Antonella naturalmente – quando tutto il giorno non era stata che a casa, al massimo era scesa un’ora a fare la spesa al cafone market
, come chiamava il Carrefour. Ma era proprio questo il suo lato positivo. Stava a casa, puliva, gli faceva da mangiare, lavava e stirava. Era autosufficiente, e a ottant’anni e passa non è poco. E poi parliamoci chiaro: la mamma è sempre la mamma.
A guardare bene, dopo il divorzio, di ragioni per andare a stare da solo non ne aveva più avute e tantomeno ora, che di anni ne aveva cinquantacinque e gliene mancava solo uno alle dimissioni. Sì: alle dimissioni, non alla pensione. Si sarebbe dimesso con un milione di euro, così doveva andare se resisteva un altro po’. Poi sarebbe tornato con la mamma nella loro Sicilia dove avrebbe costruito una villa del tutto uguale alle altre, ma con una Batcaverna nel seminterrato con la Batmobile parcheggiata dentro, quella dietro cui sbavava da anni. Era il modello dotato di turbina anteriore, radar di bordo, paracadute frenante, spargifumo, spargiolio e spargipuntine in vendita su un sito americano a trecentomila euro.
Risintonizzato il decoder, tornò a letto. Chiuse il cassetto con la pistola e si infilò di nuovo sotto le coperte. Ma di dormire non c’era verso. L’effetto del Tavor preso dopo cena era finito, svanito, volatilizzato, i nervi a fior di pelle. Cosa fare? Vediamo… una bella cannetta! Questa sì, che era un’idea. Aveva una bustina di sensimilla presa dal sequestro di due giorni prima. Roba buona, di sicuro, come ne gira a Roma prima di Capodanno. Dove però? In camera no di certo, la vecchia
era un segugio, se ne sarebbe accorta e l’avrebbe rimproverato.
Uscì sul balcone.
Non una luminaria in giro, non un triste Babbo Natale appeso a una scaletta di corda, niente di niente. Solo un grigiore assoluto, che quel quartiere di universitari fuori sede sapeva tirar fuori in occasione delle feste comandate quando si svuotava in maniera spettrale, lasciando i palazzi di quindici piani vuoti e infetti di marciume come denti cariati. Aspirò due boccate nel gelo. Davanti a lui, oltre viale Regina Elena, La Sapienza immersa nel buio. Sembrava un aeroporto abbandonato. Vialoni e casermoni, nient’altro. Vecchio relitto industriale. Finì la canna, era abbastanza sedato, rientrò, posò la testa di sasso sul cuscino e chiuse gli occhi. Nonostante fosse di sasso la testa andava di qua e di là. Ora sprofondava, ora si innalzava, ora oscillava su onde alte dodici metri. E c’è chi dice che questa roba va legalizzata
pensò. Prova a guidare dopo una di queste, prova
. Niente, il sonno non voleva più venire. E vedeva davanti a lui l’appeso, e l’assassino che si masturbava sul teschio dell’arpista. E il sonno non voleva più venire.
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Bene, tra poco avrebbe raggiunto i dieci tera di roba: nessuno al mondo aveva più cartoni giapponesi di lui. Una collezione completa dagli anni Cinquanta a oggi, da Astro Boy a City Hunter passando per Lupin, Pollon, Occhi di gatto, Lamù, La clinica dell’amore, Anna dai capelli rossi, Conan, Goldrake, Starzinger e arrivando ai sequel, ai remake e a quelli che ancora dovevano uscire. Per non parlare della sua collezione di oltre cento Action figures che riempiva sei vetrinette a colonna e comprendeva tutti gli eroi Marvel, ovviamente i giapponesi, tra i quali spiccava la principessa Aurora, di cui era innamorato, alta settanta centimetri, e qualcuno della Disney in edizione ultra limitata, compreso un servizio da tè di Cenerentola laccato in oro. Alla sua collezione mancava solo… Azz! il cellulare! Ecco uno degli inconvenienti del fare il commissario: devi tenerlo sempre acceso. E ti tocca anche rispondere.
«Pronto!».
«Commissario, sono Carletti».
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«Un incidente».
«Che tipo di incidente?».
«Un incidente d’auto».
«E tu mi chiami alle tre di notte per un incidente d’auto?».
«Ma c’è qualcosa