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Marassi. Cella 23
Marassi. Cella 23
Marassi. Cella 23
E-book180 pagine2 ore

Marassi. Cella 23

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Info su questo ebook

Due individui, differenti per età, per cultura e per professione – il giovane, voce narrante, giornalista, il vecchio, imprenditore edile – si trovano costretti a condividere per una notte una cella nel carcere genovese di Marassi. Inquieti, dubbiosi sul loro prossimo futuro, forzatamente insonni, passano una parte delle ore notturne a parlare, in un crescendo sempre più frenetico. Il giovane rievoca a se stesso l’amara e infelice storia d’amore che ha appena vissuto, intrecciata con una bizzarra vicenda criminosa che l’ha condotto in carcere, l’altro, il vecchio, approfitta dell’occasione d’avere davanti a sé un ascoltatore compiacente per raccontargli momenti della sua esistenza passata. Due vite a confronto, dunque, destinate a separarsi con il sopraggiungere dell’alba liberatrice.
LinguaItaliano
Data di uscita3 gen 2014
ISBN9788875639464
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    Anteprima del libro

    Marassi. Cella 23 - Giorgio De Piaggi

    1

    Vi dirò. Nel momento in cui il tizio è entrato nella cella è come se lo spazio a mia disposizione si fosse improvvisamente ristretto. (Il mio isolamento è dunque finito?) Strascina i piedi, con fatica. Statura media, guance scavate, capelli bianchi, radi, che gli scivolano dal cranio, schiena curva. Elegante nel suo cappotto di cammello. Grandi occhiali da miope con montatura in tartaruga. Rasato di fresco. Profuma d’acqua di colonia, fine. Più che vecchio, un uomo disfatto.

    La guardia carceraria posa una borsa sul tavolo, l’aiuta a liberarsi del cappotto, che appende ad una gruccia. Lo fa sedere sulla branda. Gli toglie le scarpe. Poi apre la borsa, n’estrae degli oggetti per l’igiene, che sistema sul tavolino. L’aiuta ancora a togliersi il vestito, la camicia, che appende ad un’altra gruccia, ad infilare il pigiama e la vestaglia (deve essere un personaggio importante, mi dico, per ricevere un simile trattamento di favore). Tutto si svolge in silenzio. Gli domanda se ha bisogno di qualcosa. Lui gli risponde di no con un cenno del capo. Lo ringrazia, in un sussurro. La guardia esce, chiude a chiave la porta. Rumore sinistro.

    Appesa al soffitto, la lampada spande un chiarore giallastro, opaco, che sembra far sprofondare il minuscolo locale in un pozzo senza fondo. È come una vertigine. A quest’ora, soprattutto, quando la notte, infida, s’impadronisce dei muri, delle cose, di noi tutti.

    Da due sere tendo l’orecchio per captare alcuni rumori familiari che salgono dalla profondità della città e che mi danno l’illusione che un’altra parte della vita continui. Certo, la vita continua... Straziante evocazione del mondo degli altri, alla quale m’aggrappo con disperazione! Per me resta soltanto il buco nero e misterioso nel quale precipito ogni ora di più.

    Si siede sulla branda, il nuovo inquilino, si guarda intorno con l’occhio in desolazione. Mi scopre. È sorpreso della mia presenza. Mi scruta. Vuole capire chi sono, con chi deve spartire questi pochi metri quadrati, dividere la scarsa aria a disposizione. «È tutto qui?» domanda.

    «È tutto qui».

    «Non è molto per due».

    «No, non è molto».

    Ne ha di pretese, l’amico! Una camera singola, esige! Conforto palace, reclama! La sua presenza m’irrita. Mi pompa l’aria. L’abitudine alla solitudine, anche se è una solitudine imposta... Guardare il soffitto, sdraiato sulla branda... Quel ragno che tesse la tela in un angolo. Si sente perfettamente libero, lui, anche in una cella... Io e il ragno. Senza parlare... (Lo odio quel ragno! Soltanto perché è libero. Vorrei ucciderlo. Schiacciarlo. Ma se ne sta troppo in alto, prudente).

    Il decrepito fissa, assorto, la parete bianca di fronte, poi dice: «Mi fa uno strano effetto trovarmi qua dentro. Sa, è la prima volta...». Non si direbbe, eppure è un chiacchierone. M’investe con le sue parole, mi sommerge, mi frastorna, mi spiega tutto di lui, della sua famiglia, del suo lavoro... Che si chiama Calisto Bracaloni. Che ha ottant’anni. Moglie, una figlia... Che fa l’imprenditore. Oh, mica un imprenditore qualunque, figurarsi, no, no, uno grande, uno dei più grandi della città. Ha costruito centinaia d’edifici e chilometri di strade e ponti e gallerie e moli in porto. Per miliardi e miliardi... Il bene che ha fatto, a tutti. E gli ospedali? E la beneficenza? Ha sempre dato, non si è mai tirato indietro. Alla Chiesa e agli altri, partiti, associazioni, sindacati. A tutti, insomma! E ora? Eccolo qui, ora, in questa cella, a raccontare ad un compagno di sventura... Raccontare dell’ingiustizia di cui lo hanno gratificato... E per che cosa? Un’inezia! Un nonnulla! Un incidente di percorso! Corruzione di funzionari pubblici, l’accusano! Corruzione! Parola grossa! S’è limitato a retribuire al giusto valore dei funzionari che gli hanno reso dei servizi, che gli hanno facilitato la trafila burocratica di una pratica. Tutto lì! Tutti ne hanno tratto beneficio. Tutti... Regolare! Normale! Concesso! Non la si finirebbe più altrimenti! Cos’è successo, stavolta? Ah! Un integerrimo, ha trovato, stavolta. Un inattaccabile! Un tignoso, insomma! Ha fatto finta d’accettare la proposta e lo ha denunciato. Guardia di Finanza, ispettori, magistrati! Tutto ciò che c’è di peggio... Far questo a lui, a Calisto Bracaloni, che ha cantieri in tutta Italia, che fa affari per centinaia di miliardi, che dà lavoro ad un fottio d’ingegneri, geometri, impiegati, operai... Ah! L’ingiustizia del mondo!

    Sono stupito dalla voce profonda, vibrante che scaturisce da quel vecchio cascante. La voce sembra l’unica cosa in lui che sia rimasta intatta. Ed è in stridente contrasto col suo aspetto.

    Un filo di bava gli scivola dal labbro inferiore, si spande sul risvolto della vestaglia, forma già una macchia e suda e tossisce e si passa un fazzoletto sul cranio, sulla faccia.

    Gli dico che con l’età che si ritrova potrebbe mettersi a riposo. Mi replica, con impeto, che per il fatto d’esser vecchio e malandato non ha nessuna intenzione di ritirarsi in una poltrona a scaldare le ossa davanti al fuoco in attesa del momento finale. Eh, no! Proprio no! Lui non appartiene alla razza dell’italiano medio che aspetta con ansia d’aver cinquant’anni per andarsene in pensione. Lui ha dei doveri da rispettare verso la sua azienda, verso i suoi dipendenti e, soprattutto, verso se stesso. E mi assicura che resterà al suo posto di comando fino alla fine, come un comandante sulla sua nave. Dopo di lui il diluvio! (Calisto Bracaloni fa evidentemente parte di quegli uomini che non si assoggettano mai. Che invece di dire amen dicono crepa. Ma non ha ancora capito, malgrado il suo cranio spelacchiato e le ossa che cigolano, che nessuno, ma proprio nessuno, è veramente importante nella vita? Come m’irritano gli uomini con la loro stravagante mania di prendersi sul serio, di dichiararsi indispensabili!)

    «Ma faccia un po’ quel che crede meglio» ribatto seccato. «Tanto per quel che me n’importa!».

    Zittisce di colpo. Mi guata, sorpreso. Offeso.

    Una manciata di minuti silenziosi interrompe la nostra strana conversazione. Riprende, in una replica dolente, dopo essersi lungamente raschiato la gola e raccolto nel fazzoletto uno scaracchio: «Non è giusto quel che m’ha detto, e tanto meno caritatevole».

    «Caritatevole? E perché mai dovrei esserlo di fronte alle sue affermazioni così arroganti? Forse lei non si rende neppure conto di quel che dice e dove lo dice».

    Mi lancia un’occhiata sconsolata. «Sì, ha ragione» ammette. «Fa parte del mio carattere irruente e per niente accomodante. Non posso certo cambiarlo a ottant’anni... Il fatto che m’hanno sbattuto qui dentro, poi...». (Malgrado tutto mi fa pena. L’infelicità, come l’amore, la politica o la malattia, ha il suo vocabolario, la sua fraseologia. Cambia poco, da individuo ad individuo).

    Gli faccio notare, tanto per consolarlo, che la legge non prevede che un anziano sia messo in galera. E lui mi confessa, scotendo malinconico il capo, d’essere recidivo, perché lo hanno già condannato un paio di volte agli arresti domiciliari. Ora l’assimilano a un delinquente abituale! Spera, in ogni modo, di restarci soltanto una notte in ‘sto buco. Domani se ne va. Il sostituto procuratore gli concede gli arresti domiciliari. Almeno così ha chiesto il suo avvocato.

    «Per l’età, suppongo».

    «No, per ragioni di salute. Il cuore... M’hanno già operato due volte. Pare che non ci sia più niente da fare... Domani, fra tre mesi, un anno? E chi lo sa? Mah! Spero almeno di morire nel mio letto, se non altro». La sua magrezza eccessiva, si capisce, la pelle grinzosa appiccicata alle ossa del viso, le orbite come una cavità nera.

    Riattacca. Vuole sapere. «Anche lei è di Genova?».

    «Di Pegli».

    «È la stessa cosa, no?».

    «Quasi».

    «E cosa fa nella vita, se è lecito?».

    «Il giornalista».

    «Il giornalista? Ma va’...».

    «La stupisce? Anche i giornalisti finiscono in galera, no? Anche i medici s’ammalano...».

    «Sì, certo, anche i medici... E come mai è finito dentro? Diffamazione, suppongo. La diffamazione è una specialità di voi giornalisti, vero?».

    Non ho voglia di delucidare la sua curiosità. Divago. Necessità, in certe circostanze, di chiudersi in se stessi. E questa che sto vivendo è una di quelle. Gli dico che per diffamazione non si finisce in galera. C’è già così poco spazio... Che si tratta di una faccenda assai più complessa della diffamazione, anzi, allucinante. Che mi ci sono trovato incastrato per puro caso. Che c’è di mezzo l’Interpol. Che non posso dirgli altro, segreto istruttorio.

    «Caspita! Non è uno scherzo» commenta.

    «Lo so anch’io che non è uno scherzo, ma vallo a spiegare ...».

    «A chi lo dice!» m’interrompe con la solita irruenza. «Consideri il mio caso...». E giù ad espormi che ciò che lo fa più incazzare è il fatto che lui è dentro per un nonnulla, mentre fuori c’è una masnada di farabutti che passeggiano tranquilli... Che prenda Sampierdarena, il quartiere dove abita. Ci si trova l’inventario di tutti i reati possibili. E furfanti di tutti i paesi, albanesi, rumeni, africani... E i latinos? Me li raccomanda quelli! Ubriaconi, rissosi. Casse di birra comperate nei supermercati, la notte del sabato, nei giardini di via Fillak, in piazza Modena, davanti al teatro... E quei figli pestiferi, con le loro braghe che sembrano tante baiadere? Ah! Bisogna abitarci, in quel quartiere, per capire... «Che cazzo!». E picchia un pugno sulla branda.

    La solita gnola. Parole che mi frusciano nelle orecchie come un ronzio fastidioso. (Non dico che le ragioni della sua insofferenza nei confronti degli ubriaconi sudamericani del suo quartiere non siano reali ed anche legittime, ma, insomma, in questo momento e in questo luogo, francamente me ne sbatto).

    Si sdraia infine sulla branda. Esausto. Si assopisce.

    Ritorno a pensare a me, soltanto a me. Gli uomini, si sa, sono incapaci di allontanarsi dai loro pensieri quando questi sono assillanti. E i miei sono talmente assillanti che m’invadono tutto, totalmente, mi devastano, m’usurpano. Il momento in cui sono entrato in questa cella... E ora?

    2

    Ora posso almeno restarmene sdraiato senza sentirlo blaterare, il Calisto Bracaloni. Ma questo pensiero non mi dà maggior sollievo. Ogni rumore si è ormai spento all’interno del carcere. Il tempo è immobile, come se si fosse dissolto in una tenebra amorfa. Supino sulla branda, fisso la fosca lampada appesa al soffitto. Il pagliericcio sotto di me è piatto e duro. Il calore umidiccio della coperta comincia ad infastidirmi e la sposto. Mi afferra tuttavia un leggero brivido.

    Bruscamente sento il bisogno pazzo di leggere, un giornale, un libro, un opuscolo pubblicitario, magari. È così forte, questo desiderio, che mi pare di fiutare l’odore della carta stampata e di sentire il fruscio delle pagine che sfoglio. E mi viene in mente il Rubasciov di Buio a mezzogiorno, rinchiuso in carcere nell’attesa di un processo per atti controrivoluzionari. Rubasciov, quell’ex commissario del Popolo della Vecchia Guardia che si trova vittima di un meccanismo che, nella sua indefettibile fedeltà alla Causa, lui stesso aveva infinite volte attivato, tradendo compagni e amici, rinnegando ogni principio morale, pur di eliminare qualsiasi eventuale ostacolo alla sopravvivenza del comunismo. Perché proprio Rubasciov? Eppure non ho nulla da spartire con quel tetro personaggio. Io non faccio parte della storia, almeno della Grande Storia! Forse perché anche lui è stato preda di un meccanismo infernale dal quale non riuscirà a sottrarsi.

    È soltanto un romanzo, certo, ma di quale intensità! Del resto, quando leggo un libro che mi appassiona non faccio soltanto lavorare la testa. Leggo con tutto il corpo. È un piacere profondo, un godimento.

    Pensando a Buio a mezzogiorno mi domando se è giusto quel che ha sostenuto con tanto vigore, all’inizio d’agosto, Naipaul, nel New York Times, sulla morte del romanzo. Sulla vacuità della finzione che non può più catturare la complessità del nostro tempo. Sull’inutilità di perdere tempo con la narrativa. E, quindi, sulla necessità di concentrarsi solo sulla saggistica, per trovare le risposte alle questioni che ci affliggono da ogni parte. E se fosse vero il contrario? Se fosse proprio la saggistica che non riesce più a spiegare la realtà, mentre invece la narrativa la comprende e la interpreta da sempre? Non so rispondere. So soltanto che il Rubasciov di Koster, nella sua drammatica finzione, mi ha fatto scoprire il mondo dei processi staliniani assai più di qualsiasi lettura d’opera scientifica. Mi dico anche che la fantasia è assolutamente insostituibile. Molto meglio della realtà, spesso, perché ci permette di abbandonare l’universo della verità e della morale per entrare in quello dell’immaginazione, un universo che ci soddisfa compiutamente non richiedendo alcuna interpretazione concreta.

    Sono queste vaghe riflessioni che mi permettono, anche se per pochi istanti, di distogliere la mente dal pensiero dominante che mi strugge.

    Ora non ho più bisogno di un giornale o di un libro, ma con la stessa ingordigia desidererei sapere che cosa passa nel cervello del sostituto procuratore che ha ordinato il mio incarceramento. Lo vedo seduto alla sua scrivania concentrato a leggere il mio incartamento, a domandarsi, pensieroso, quanta verità ci sia nella deposizione che gli ho rilasciato, a sviscerare quale oscura macchinazione nasconda la vicenda nella quale mi trovo coinvolto, quale parte criminosa sia da addebitarmi. Oppure, forse, ha già elaborato una coerente convinzione su tutta la faccenda, ritenendo veritiera la testimonianza che gli ho fornito nel mio primo interrogatorio e si accinge ad elaborare, conseguentemente, il risultato motivato del suo convincimento. Lui, l’attuale

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