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Vado a comprarmi le scarpe da tango
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Vado a comprarmi le scarpe da tango
E-book223 pagine3 ore

Vado a comprarmi le scarpe da tango

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Info su questo ebook

Il tango è sensualità, seduzione, passione. Fatto di regole, gesti e sguardi, è un ballo tra anime, non solo tra corpi, è gioco di forme, di combinazioni possibili, e per Mario, il tanghèro protagonista di questa raccolta, rappresenta un microcosmo in cui gravitano donne fatali e sanguigne, maestri esotici, fotografi aggressivi, principianti allo sbaraglio. Tra vicende reali e surreali, milonghe affollate e personaggi bizzarri, mocassini aerodinamici e posture impeccabili, il tango diviene sentimento, “pensieri tristi che si ballano” in quell’abbraccio fra uomo e donna perfetto come perfette devono essere le scarpe, amatissime dalle ballerine, con i tacchi vertiginosi e i laccetti colorati.

Attraverso i diciassette racconti di Vado a comprarmi le scarpe da tango si compone, così, un viaggio musicale che indaga con passo leggero e ritmo serrato la comunicazione umana, le relazioni emotive, la vita nelle sue intense e delicate geometrie.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2017
ISBN9788893330688
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    Anteprima del libro

    Vado a comprarmi le scarpe da tango - Mario Abbati

    (1965)

    BUENOS AIRES

    Quando supero il vestibolo e mi presento sulla soglia del locale rimango un attimo perplesso. Da la Viruta – quella che viene spacciata per la milonga¹ più famosa di Buenos Aires – mi aspettavo qualcosa di diverso: uno di quegli ambienti raccolti e malinconici, i tavoli che scricchiolano, le luci soffuse, una pista microscopica con il parquet in legno giurassico e una densità di ballerini per metro quadro tale da sfiorare i record più audaci. Invece no, di fronte ai miei piedi esitanti si staglia un androne a metà strada fra una sala per banchetti e il circolo dopolavoro dei ferrovieri, il soffitto basso delimitato da lunghe file di faretti che sparano ondate di luce su una pedana immensa tappezzata da una griglia di maioliche di marmo, un formicaio di gente che vivacizza la pista debordando sui tavoli che fungono da cornice.

    Con lei ci siamo dati appuntamento subito fuori dalla cucina; alle ventitré, ossia cinque minuti fa. Sondo l’ambiente finché non individuo il passaggio attraversato dai camerieri in uniforme bianca con al seguito questi vassoi stracarichi di tutto, dalle bottiglie di Dom Pérignon alle bistecche con l’osso.

    Non mi perdo in preliminari e parto emozionato verso la meta. Una ragazza cammina stile sentinella davanti alla porta, mi fermo a qualche metro di distanza e la metto a fuoco. Ha i capelli a caschetto di un giallo innaturale, le sopracciglia scure; magra, sul metro e settanta, le misure ideali per ballare con me.

    È lei.

    Sfodero il numero uno dei miei sorrisi e mi avvicino.

    «Hola! Soy Mario» esordisco col mio spagnolo da corso a fascicoli. «El chico italiano».

    Lei capisce al volo.

    «Encantada. Soy Alejandra».

    Ci stringiamo la mano più due bacetti sulle guance. Devo dire che è carina, una bellezza minimalista, quasi spigolosa. Indossa un vestitino scuro con ampia scollatura, sotto pantaloni neri alla zuava con due lunghe feritoie sui lati e gli elastici finali che li saldano alle gambe appena sotto le ginocchia, scarpe da tango già calzate, rosse ed essenziali, senza fregi.

    «Ho riservato, vieni».

    Mi fa strada nella selva di tavolini affollati che costeggiano la pista, all’orizzonte ne scorgo uno incontaminato, è il nostro.

    Ci accomodiamo uno di fronte all’altra.

    «È la prima volta che vieni qui?» mi chiede.

    «Sì».

    Nel frattempo ho già iniziato la cerimonia del cambio delle scarpe. Estraggo i mocassini dalla sacca, tolgo le pallottole di carta umida che ho ficcato nelle punte per evitare che s’incurvino.

    «Ti piace il posto?».

    «Non so» sollevo lo sguardo e la inquadro di striscio. «Me l’aspettavo diverso».

    «Diverso come?».

    «Forse più intimo».

    «A Buenos Aires le milonghe sono tutte così» si lascia sfuggire una risatina. «Con la valanga di turisti che calano giù da mezzo mondo per imparare il tango, gli spazi devono essere accoglienti».

    Stringo i lacci a dovere e sono operativo. Proprio quando Horacio Godoy, il celebre musicalizador² della casa, pone fine alla tanda³ e lancia l’intermezzo musicale.

    «Che dici, balliamo?» la invito inchinando appena la testa.

    «Certo».

    Scivoliamo al limite della pista. Cullati dalle note di un tango brioso dell’orchestra Juan D’Arienzo ci immergiamo nel circolo dei danzatori. A metà del terzo brano, fregandosene ampiamente del galateo di sala, Alejandra scioglie l’abbraccio e mi trascina fuori dalla pista.

    «Però tu…» balbetta con gli occhi sgranati «… tu sei un ottimo tanghèro!».

    Non so che aggiungere, con tutti i corsi che ho frequentato in cinque anni vorrei vedere che mi dicesse il contrario.

    «Molto più di un intermedio!» precisa.

    Lo so, al telefono mi sono mantenuto su un profilo basso.

    «Un ballerino come te» Alejandra non riesce ad attenuare la sua smorfia sbigottita «che bisogno aveva di chiamarci?».

    Sono atterrato in Argentina da quattro giorni, ho frequentato altrettante milonghe e finora, scandalo degli scandali, non ho ballato nemmeno un tango. Visto che domani riparto per Roma e mi volevo togliere lo sfizio, ho messo da parte il mio orgoglio italico e mi sono rivolto alla TangoTaxiDancers, l’agenzia di noleggio ballerini più rinomata di Buenos Aires. Chiami, comunichi il tuo livello tecnico, di che hai bisogno, e loro ti mettono a disposizione un partner o una partner tagliati su misura. Centosessanta pesos all’ora per un minimo di tre ore, l’equivalente di ottanta euro spicciolo più spicciolo meno, quello cioè che ho anticipato con la Visa perché Alejandra e il suo caschetto giallo ballassero col sottoscritto – due tandas su tre, come stabilisce il regolamento – fino a notte inoltrata.

    «Non lo so che succede» scuoto la testa. «Ogni volta che invito una donna, quella si gira dall’altra parte».

    «Ah sì?» i suoi occhi insistono con fermezza nei miei. «Fammi capire come le inviti».

    «Semplice, vado là e gli domando se vogliono ballare».

    Alejandra scoppia a ridere come se le avessi raccontato la barzelletta del giorno.

    «Di che parte d’Italia sei?».

    «Roma».

    «A-ha!» fa una smorfia come a dire che ha già capito tutto. «Qualche anno fa ci sono stata».

    «Davvero?».

    «In milonga, sì. Ho visto, voi maschietti, come invitate una dama. Allucinante» nega rassegnata. «Andate là con le braccia stese. Magari lei sta parlando con un’amica, non vi ha degnato di un’occhiata e voi vi presentate lo stesso. Ne ho visti alcuni che nonostante il rifiuto si stranivano» ogni frase l’accompagna con un no deciso, come se stesse elencando i sette peccati capitali o le dieci piaghe d’Egitto, «quelle poveracce le trascinavano in pista con la forza».

    «Hai ragione» ammetto. «Forse nel tango siamo un po’ rozzi».

    «La colpa non è solo la vostra, anche le donne non scherzano» niente, non si ferma più. «A chiunque si presenti con quel braccio steso loro dicono sempre di sì. Ci sono certe che sarebbero disposte a strisciare per terra pur di ballare una tanda».

    «Da noi le donne sono in maggioranza, capita che molte di loro se ne stiano ferme tutta la sera».

    «E allora?» mi guarda male. «Se non c’è nessuno che mi convince io sono capace di rimanere seduta fino all’alba. Decido io con chi ballare».

    «Insomma» taglio corto, qua il tassametro scorre indisturbato e io continuo a girare a vuoto, «che devo fare perché una fanciulla porteña⁴ balli un tango insieme a me?».

    «Niente, devi solo tenere gli occhi aperti» risponde decisa. «È la donna che invita. Lo fa con il suo sguardo, la mirada. Tu raccogli la mirada, le rispondi con un lieve assenso della testa, il cabeceo, e il gioco è fatto».

    Mi giro intorno.

    «Non vedi che casino c’è qui dentro?» controbatto. «Non riconoscerei mio fratello, figurati una mirada».

    «Di che colore ho gli occhi?» domanda a bruciapelo.

    Non mi vengono le parole.

    «Lo vedi?» schiocca la lingua. «Il casino non c’entra, tu non sei abituato a guardare la gente negli occhi. Me ne sono accorta subito. Ecco perché il tuo invito non funziona».

    Mi rattrappisco dentro le mie spalle colpevoli.

    «Gli occhi sono i fari dell’anima, se vuoi comunicare sul serio con una persona prima la devi guardare negli occhi. Il tango come lo pensi tu, come lo pensa un sacco di gente, è un ballo fra corpi. Qua a Buenos Aires il tango è un ballo fra anime e l’unico modo per far incontrare due anime è attraverso la mirada».

    «Come faccio a capire che sto ballando con l’anima di una donna e non con il suo corpo?» a questo punto il discorso lo voglio sviscerare fino ai minimi termini.

    «Il giorno che ballerai con la più vecchia, più brutta, più grassa della sala e proverai piacere, allora saprai che stai ballando con l’anima di quella persona».

    Ci penso su, in pochi millisecondi passo in rassegna il campionario di tutte le donne con cui mi sono accoppiato sulla pista di una milonga, ahimè, di anime ne conto ben poche.

    «Vieni!» mi prende per mano, costeggiamo la pista finché non raggiungiamo quella che lei considera una posizione privilegiata. «Le migliori milongueras⁵ di Buenos Aires si mettono sedute in questo settore della sala. Al termine della tanda scatterà il cambio delle coppie. Così vedrai come funziona».

    Sfuma il brano e il musicalizador fa partire l’intermezzo. Le coppie in pista si sciolgono, i cavalieri accompagnano le dame ai blocchi di partenza. Io sto con gli occhi fissi sulle donne schierate a pochi metri da me, le vedo che si guardano intorno, queste stilettate assassine dirette chissà dove. Horacio Godoy annuncia dal microfono il turno successivo, parte un tango dell’orchestra Francisco Canaro. Una dopo l’altra le dame abbandonano le sedie, ciascuna di loro si unisce a un uomo che staziona nei paraggi scegliendolo quasi a caso, poi tutti insieme invadono la pista.

    «Allora?» mi chiede ansiosa Alejandra.

    «Non mi sono accorto di niente!» lo dichiaro con una punta di rabbia. «Quelli non si sono neppure avvicinati».

    «Hai visto? Niente braccia, niente parole. Solo sguardi».

    «Non ce la farò mai».

    «Quando avrai imparato la legge degli sguardi, avrai capito come funziona il tango» mi sussurra. «E anche qualcosa di più».

    Resto imbambolato.

    «Vamos, è tempo di ballare».

    Finalmente ci buttiamo nella mischia. Alejandra si dedica a me ben oltre i vincoli contrattuali, delle dieci tandas che si susseguono ne saltiamo solo una. Quando mi fa capire che il tempo a mia disposizione è scaduto sono quasi le tre.

    «Mi hai abbonato quasi un’ora» le faccio notare con riconoscenza.

    «È stato bello anche per me» sorride mentre si cambia le scarpe. «Mi raccomando, adesso che ti lascio da solo cerca di mettere in pratica i miei consigli».

    Dico di sì, ma dentro di me l’ansia riprende a galoppare.

    «Vai a ballare da un’altra parte?».

    «No, a casa» indossa il soprabito. «Domattina presto ho appuntamento con un gruppo di turisti svedesi per una lezione».

    «Ce l’hai un bigliettino da visita?» le domando. «Casomai dovessi tornare a Buenos Aires».

    Fruga nella borsetta.

    «Questo è il mio personale» me lo passa.

    Gli do una scorsa veloce.

    «Però tieni presente una cosa» i suoi occhi m’inquadrano con severità. «Se chiederai di me alla TangoTaxiDancers, io non ci verrò a ballare».

    «Capito».

    «Solo se mi cercherai come un’amica».

    «Va bene».

    Mi gira le spalle e si dilegua.

    Eccomi qua. Ho ancora qualche carta da giocare alla Viruta prima di archiviare la trasferta argentina nell’album dei ricordi. Mi porto a ridosso della zona dove siedono le dame. Le studio con attenzione mantenendomi a distanza. Ce n’è una che si volta e rimane bloccata su di me. Non ci sono dubbi, guarda proprio da questa parte. Un impulso irrefrenabile mi ordina di girare la testa, ma io resisto. Alejandra parlava di mirada fugace, la tipa però non mi schioda gli occhi di dosso. M’impegno allo stremo per non cedere, non so quanto tempo passi prima che inizi una nuova sequenza di brani. Mi faccio coraggio e vado da lei con andatura decisa. Giunto a un paio di metri do un colpetto laterale con la fronte per farle capire che il mio è un invito. La ragazza che le sta seduta vicino – un’amica, suppongo – le rifila una lieve gomitata su un fianco.

    Si alza.

    Non ci posso credere, ce l’ho fatta, la prima donna di Buenos Aires che riesco a invitare con le mie forze. Mi prende sottobraccio, ci dirigiamo silenziosi verso la pista. Avrà sui quarant’anni, carina, mi sono così concentrato sullo sguardo che i connotati del suo corpo li percepisco solo adesso, a scoppio ritardato.

    I quattro brani fuggono via come raffiche di vento, sarà trascorso un quarto d’ora scarso quando la restituisco alla sua sedia.

    «Scusa, posso chiederti una cosa?» le bisbiglio prima che abbandoni il mio braccio.

    «Tu non sei di qui» ribatte lei.

    «Sono italiano».

    «Balli bene».

    «Quando ti ho invitato… voglio dire… sei riuscita a vedere la mia mirada?».

    Si mette a ridere.

    «Vederla no. Però l’ho sentita. L’ho sentita bene».

    Per me basta e avanza, la saluto con un mezzo inchino e mi allontano soddisfatto. Pochi metri e una mano inaspettata mi plana su una spalla. È l’amica, quella che le stava seduta accanto.

    «Senti, ti andrebbe di ballare anche con me?» incrina le labbra in una bozza di sorriso.

    Ma come, il galateo ferreo di Buenos Aires, la mirada, il cabeceo. Allora pure qua esistono i modi spicci come a Roma.

    «Va bene» le concedo il braccio di prima.

    «Margot ha detto che sei bravo».

    «Margot?».

    Lei fa un cenno alla donna con cui ho appena finito di ballare, nella foga di sguardi ed emozioni collaterali mi sono scordato di chiederle come si chiamava.

    «È la prima donna argentina che accetta il mio invito» ammetto senza vergogna, anzi, con un pizzico d’orgoglio. «La prima che riesce a leggere la mirada».

    «Allora sei bravo sul serio».

    «Perché?».

    M’infila negli occhi uno di quegli sguardi là, che escono fuori solo a Buenos Aires.

    «Margot è cieca. Non ci vede».


    1 La milonga è l’ambiente dove si balla il tango, ma anche uno dei generi musicali che vengono ballati insieme al tango e al tango-vals.

    2 Nel mondo del tango il musicalizador è il disk-jockey.

    3 Una tanda è una sequenza di tre o quattro brani, seguita da un intermezzo chiamato cortina.

    4 Gli abitanti di Buenos Aires vengono anche chiamati porteños.

    5 I ballerini che frequentano i locali di tango vengono anche chiamati milongueros.

    IL PLAYBOY DEL TANGO

    Non ricordo quand’è stata la prima volta che l’ho adocchiato, è uno degli immancabili che in milonga stanno sempre in prima linea, che non si perdono mai inaugurazioni, ricorrenze o feste epocali, di quelli che hanno eletto il tango a ragione di vita e non ho idea di come riempiano le giornate nei rari momenti che non sgambettano al ritmo di piano, violini, contrabbasso e bandoneon⁶.

    So solo che si chiama Federico, alto e di corporatura media, veste sempre di nero, giacca, cravatta, camicia, pantaloni a zampa larga e mocassini, ha i capelli tinti di un biondo esagerato, quasi platino e sparati all’insù. Sarà per questo suo stile aerodinamico che ha un successo così smodato con le donne, altrimenti non si spiega: non è giovanissimo, lo colloco fra i quaranta e i cinquanta ma più vicino ai cinquanta, un volto poco fedele ai canoni dell’estetica classica, con la bocca larga e le labbra sottili, il naso abbondante e gibboso. Eppure sta sempre avvinghiato alle pupe più imbarazzanti del circondario. Da quando frequento le milonghe non l’ho mai visto invitare una dama, lui si apposta in un angolino strategico, scansiona il locale e dopo un po’ arriva immancabile la stanga di turno che gli si getta fra le braccia, violando la regola numero uno del galateo, quella che stabilisce che sia il cavaliere a prendere l’iniziativa. Ma non solo durante il ballo, anche se sosta di fronte al bancone del bar o siede a uno dei tavolini a bordo pista, accanto a lui luccica sempre una fanciulla stratosferica che se lo coccola come se fosse un divo di Hollywood o la quintessenza della bellezza cosmica.

    A parte un velo di sana invidia, le sue performance da conquistatore mi lasciano indifferente, in realtà c’è un dettaglio di lui che attira in modo insano la mia curiosità.

    È l’unico che balla col marsupio.

    Nero, ovviamente, un modello multitasca in pelle lucida con doppia chiusura lampo e cinghia regolabile che tiene agganciato alla vita come una protesi. Se fossi una delle sue amichette inseparabili prima o poi glielo farei notare che in un mondo patinato come quello del tango dove regnano eleganza, passione e nostalgia, un accessorio del genere fa più male di un pugno in un occhio, che durante un ballo sentirsi quel coso premuto sulla pancia non è il massimo della comodità. Invece nessuna sembra scandalizzarsi.

    Forse è la serata giusta per togliermi

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