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Il mercante
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E-book236 pagine3 ore

Il mercante

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Info su questo ebook

Don Francesco Russo, tornato ricco dal Brasile, dove era emigrato da giovanissimo, ha sposato la figlia del più importante notabile del paese, don Alfonso, ed è riuscito a farsi costruire il palazzo più bello dei dintorni, una dimora degna delle classi altolocate di Napoli. Adesso, può finalmente abbandonare la coppola che ha sempre indossato e sfoggiare un cilindro – che sfodera con la delicatezza che va riservata a una reliquia, a un simbolo. Ma lo scontro con l’ambiente provinciale, che trova la sua personificazione in don Alfonso, renderà difficile, se non impossibile, proseguire quel percorso di rinnovamento. La storia personale si intreccia con quella di una società ignara di essere alla vigilia di quel radicale cambiamento che la prima guerra mondiale rappresenterà. I contrasti che don Francesco sperimenta nel suo piccolo ambiente provinciale, e che interiorizza, sono i contrasti che la società italiana ed europea  stanno vivendo.
LinguaItaliano
Data di uscita27 feb 2017
ISBN9788856781694
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    Anteprima del libro

    Il mercante - Renata Ameruso

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2017 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8169-4

    I edizione elettronica febbraio 2017

    A mia madre

    "Lascia andare un altro giorno, poi tutto cambierà.

    E ti illudi ingenuamente ignori la realtà.

    Il ghiaccio in quella stanza che si stringe intorno a te,

    soffoca la rabbia e prova a sopravvivere."

    Iceberg - Fading Memories

    Per leggerlo bisogna saper guardare oltre quello che c’è scritto.

    Capitolo 1

    L’aveva estratto dalla cappelliera con l’attenzione devota del sacerdote che estrae il SS. Sacramento dal Tabernacolo. Poi, con cautela, l’aveva liberato dalla carta velina che ancora l’avvolgeva, l’aveva lisciato, osservato con cura scrupolosa da ogni lato, facendolo ruotare per controllare che non vi fosse neppure il minimo granello di polvere. Ne aveva lievemente inarcate le falde stringendolo appena tra i palmi delle mani e, finalmente, se l’era messo in testa spostandolo un po’ più avanti o un po’ più indietro, centrandolo perfettamente o inclinandolo appena appena da una parte, fino a quando non aveva trovato la posizione giusta.

    Non c’era che dire: quel mezzo cilindro era perfetto e valeva tutti i soldi ch’era costato farlo venire dalla migliore cappelleria di Napoli. E poi gli stava bene, perché quel nero metteva in risalto i suoi baffi biondi, che qualche rado filo d’argento cominciava a far brillare qua e là, e gli occhi chiari che in quel momento scintillavano, accesi, come se fosse febbricitante. Anche le mani gli tremarono leggermente mentre sistemava la catena dell’orologio sul panciotto. Ma, ecco, ora era pronto.

    L’unico cruccio, sempre presente, come una piaga che non si vuol rimarginare e a volte duole, a volte prude, era il pensiero che suo padre non fosse più lì ad ammirarlo, orgoglioso e soddisfatto come in quel momento era lui. Che peccato che ora suo padre non ci fosse, morto troppo presto, prima di poter assistere al suo trionfo. Perché quel 15 maggio 1901 per lui si celebrava un trionfo.

    A quel pensiero si rabbuiò per un attimo, per ritrovare vivacità appena lo sguardo colse tutt’intera l’immagine riflessa nella specchiera, quasi un ritratto incorniciato dalla ghirlanda di rose intagliata nel legno che correva tutt’intorno allo specchio dell’armadio. E subito le spalle, che in genere teneva leggermente incurvate, si raddrizzarono e la sua persona parve trovare un nuovo slancio, una diversa e più autorevole postura.

    Sembrava un quadro, pensò. Ecco, così avrebbe voluto la fotografia che poco dopo sarebbe andato a farsi fare e, se don Calogero non aveva la cornice adatta, avrebbe pensato lui a trovarne una simile a quella della specchiera.

    Poi si girò e lo sguardo si allargò a osservare l’intera stanza, perfettamente arredata: il bel letto con le colonnine di bronzo, le splendide sete dei drappi e dei tendaggi, la coperta di pizzo con al centro il medaglione nel quale due angioletti incrociavano le fedi che tenevano in mano. Nell’arredare la nuova casa ai tessuti aveva prestato un’attenzione particolare; lui che, quand’era in Brasile, a San Paolo, aveva avuto il più bel negozio di tessuti, non poteva permettersi di usare stoffe men che perfette.

    Lo riscosse la voce di Vittoria: «France’ sbrigati che al battesimo non manca molto e il prete non può aspettare, tanto più che ci dobbiamo fermare pure dal fotografo. E poi, se facciamo tardi, la bambina avrà di nuovo fame e si metterà a piangere».

    Si avviò con incedere sciolto, il portamento eretto e il passo ritmato, senza più traccia dell’affanno che aveva sempre caratterizzato la sua andatura un po’ curva e molto veloce. Così attraversò tutte le stanze che dalla sua camera da letto, l’ultima a destra sull’ala posteriore, arrivavano fino all’ingresso. Sei grandi stanze, che si rincorrevano girando intorno all’androne, ciascuna aperta da un lato sul ballatoio con la ringhiera e gli archi che giravano tutt’intorno alla casa, dall’altro da balconi o finestre prospicienti sulle tre strade laterali e sul giardino.

    Avrebbe fatto prima a uscire dalla parte della cucina, ma voleva controllare che tutto fosse in ordine e le porte tra una stanza e l’altra fossero aperte, in modo che gli ospiti potessero liberamente girare per la casa e avere il colpo d’occhio che la prospettiva della fuga delle stanze ricreava, diversa a ogni spostamento.

    Perché tutto fosse perfetto e niente potesse sporcarsi o sciuparsi, non aveva neppure voluto che andassero ad abitare la casa prima di quel giorno. Erano stati lì la mattina e c’erano tornati subito dopo pranzo per preparare tutto, disporre i rinfreschi e vestirsi, movendo poi insieme per la Chiesa. Quella sera, invece, si sarebbero fermati a dormire là, per la prima volta.

    E non c’era che dire, pareva tutto perfetto, anche se era meglio controllare bene, soffermandosi a osservare che gli ottoni e gli argenti brillassero, che i tappeti fossero ben tesi, che le pieghe delle tende cadessero perfettamente... ma la voce di Vittoria di nuovo lo redarguì: «France’ sbrigati, non c’è bisogno di fare un’altra ispezione, l’hai già fatta prima e pure io ho controllato ogni cosa. Stai tranquillo, è tutto a posto».

    Come diavolo facesse sua moglie a sapere sempre quello che lui stava facendo, o a volte solo pensando, anche quando era lontana, lui non riusciva proprio a capirlo. La cosa da una parte lo inorgogliva, perché significava che lei lo conosceva bene e lo amava molto, dall’altra lo irritava, perché in fondo lo metteva in una condizione d’inferiorità.

    Però che gran moglie era la sua! E si affrettò a raggiungere l’ingresso dove già Vittoria l’aspettava con le bambine e la balia.

    Nell’abito di broccato chiaro, anche quello arrivato da Napoli, e con tutti i suoi brillanti Vittoria era bellissima, nonostante l’ultima gravidanza l’avesse un po’ appesantita e affaticata; e bellissima era Maria, la prima figlia, che le assomigliava parecchio, con riccioli e occhi neri, ma, diceva Vittoria, da grande sarà molto più bella di me, vedrai.

    Le altre due bambine erano chiare, invece; la seconda, Rosaria, assomigliava a lui; l’ultima era biondissima e aveva gli occhi azzurri, come sua sorella Rosina. Maria gli era corsa incontro, prendendolo per mano, Rosaria invece si era aggrappata alla mano della mamma nascondendosi quasi nella sua gonna, paurosa e timida quanto l’altra era sicura e spavalda.

    Avevano mandato avanti la balia con la piccolina, che tra poco sarebbe stata battezzata con il nome di Ester, loro seguivano a braccetto con una bimba per lato.

    «Ti sei messo il cappello, dunque» e il sorriso di Vittoria era compiaciuto.

    «Già, come vedi, me lo sono messo. Ti piace?»

    «Ti sta benissimo. Ma adesso me lo dici perché non te lo sei mai voluto mettere prima, facendo dannare tuo padre per quella coppola che ti ostinavi a portare?»

    «Me l’hanno sempre chiesto tutti, tante volte, solo tu in tutti questi anni me l’hai chiesto solo un’altra volta, e poi basta. Sono sempre stato in dubbio se era per rispetto della mia decisione di non dare spiegazioni o perché qualcosa avevi capito... ma stasera te lo dico, adesso dobbiamo salutare.»

    Incominciavano, infatti, già a incontrare gli invitati che si dirigevano alla Chiesa, poco lontana, e non ce ne fu uno solo che, dopo aver salutato, non si voltasse di nuovo a guardare, non lei, che pure così intolettata era splendida e avrebbe meritato più di uno sguardo, ma lui che per la prima volta vedevano col cappello.

    Don Calogero, quando si fermarono al suo atelier per le fotografie non poté trattenersi: «Don France’ che avvenimento, col cilindro...» e poi, subito dopo, per non sembrare impiccione «bellissimo».

    «È solo un mezzo cilindro, il cilindro sarebbe stato troppo importante, troppo da sera, ma con questo voglio fare la prima fotografia don Calo’.»

    «A mezzo busto?»

    «No, a figura intera.»

    «E che sfondo preferite? Un paesaggio, un giardino? O volete appoggiarvi alla colonna? Magari sopra ci mettete guanti e cappello.»

    «No, il cappello me lo tengo in testa e i guanti li tengo in mano. La colonna però mi piace, oggi inauguro la casa nuova e mi pare proprio adatta all’occasione. Mettetemela vicino, non voglio appoggiarmi però.»

    «Ma... veramente, così però sembrate un po’ rigido. Vediamo... Portate il piede sinistro un po’ avanti, come per dare un piccolo passo... ecco... così va proprio bene.»

    E il lampo di magnesio consacrò la posa.

    «Adesso con tutta la famiglia o solo con la signora?»

    «Una con tutta la famiglia e una solo con mia moglie.»

    Vittoria fu accomodata in una seggiola concava, con le stanghe scure incurvate, in stile fiorentino, con la piccola in grembo, le due bambine ai lati e il marito dietro, leggermente di lato.

    «La foto di noi due, però, la voglio a mezzo busto, perché una così non ce l’abbiamo» disse Vittoria.

    «E se così ti piace, la facciamo a mezzo busto. Dove ci dobbiamo mettere don Calo’?»

    «Se non vi dispiace, vi farei sedere su quella panchetta davanti allo sfondo col giardino. Se avvicinate un poco le teste viene benissimo.»

    «Adesso però il cappello te lo togli, France’.»

    «No. Perché, tu il tuo te lo togli?»

    «E che c’entra! Io sono una donna, se mi tolgo il cappello mi si sposta lo chignon e mi devo pettinare.»

    «Bene, ma come lo tieni tu, lo posso tenere anch’io.»

    «Ma seduti uno accanto all’altro con i cappelli in testa sembreremo in carrozza.»

    «E che male c’è ad andare in carrozza?»

    E Vittoria che lo conosceva bene e sapeva che, quando s’intestardiva, non c’era modo di fargli cambiare opinione tacque e si mise in posa per la foto alla quale, su suggerimento di don Calogero, se ne aggiunse un’altra a figura intera, in piedi l’uno quasi di fronte all’altra, come se stessero parlando tra loro. Una foto bellissima nella quale lei aveva uno sguardo divertito e birichino e lui, invece, sotto la tesa del mezzo cilindro, uno sguardo soddisfatto e tenero. La foto che ingrandita e incorniciata, troneggiò a lungo sulla consolle di uno dei salotti della loro casa, fino a quando non finì prima nei cassetti di qualche erede, poi, quando tornò di moda esporre foto e ritratti antichi, sulle pareti della casa newyorkese di un pronipote.

    Quando arrivarono in Chiesa, erano già tutti lì e la notizia che don Francesco portava il cappello era già arrivata perciò, incuriosita, la gente si sporgeva per osservare, mentre dietro di loro il brusio si propagava.

    Adelina, la sorella nubile di Vittoria, che tra messe, rosari e altre funzioni passava più tempo in Chiesa che in casa, si avvicinò con la sua andatura fatta di piccoli passi velocissimi per chiedergli se era d’accordo a invitare al ricevimento il parroco che avrebbe officiato il battesimo. Così avrebbe anche benedetto la casa nuova, cosa ben più importante dello stesso ricevimento e alla quale invece nessuno, tranne lei, aveva pensato. Non si poteva certo dire di no, e poi perché? Tanto più che la richiesta di Adelina avveniva in pubblico. Ma lei aggiunse che l’invito doveva farlo il padrone di casa, e lo pregò di seguirla in sagrestia. Poi, quando stava per entrare, voltandosi gli disse sottovoce: «Sono contenta che ti sei messo il cappello, però lo potevi appoggiare sul banco: così pare che porti una corona».

    Sempre pronta a dire tutto quello che pensava, Adelina, senza mai riflettere troppo sull’opportunità di quel che diceva. C’era di buono, però, che qualunque fosse la risposta che riceveva, lei non se la prendeva mai. Se non puzzasse tanto di sagrestia sarebbe persino simpatica, soleva dire Francesco. Ma ormai erano di fronte al parroco che accettò di buon grado l’invito, assicurando che si sarebbe fatto accompagnare dai chierichetti con l’acqua santa per la benedizione.

    Finita la funzione, s’erano fermati tutti sul sagrato, per salutare e fare gli auguri, ma soprattutto per vedere Francesco con il cappello in testa.

    Il primo a parlargli fu il suocero. Gli andò incontro appoggiandosi pesantemente al bastone, che da quando era caduto e si era rotto il femore non abbandonava mai, e tenendo per mano Maria che era corsa da lui appena l’aveva visto.

    «Dunque il mio originale signor genero s’è deciso a vestirsi come la gente del suo rango e s’è ricordato d’appartenere ad una famiglia d’uomini di cappello e non di coppola, perché, come gli ripeteva la buonanima di suo padre, la coppola la porta la gente bassa. Me ne compiaccio.»

    Il sorrisetto ironico che accompagnava la frase dava all’agro, mentre impeccabile e distaccato era quello di Francesco quando gli rispose «ed io son contento di compiacervi» allontanandosi subito per salutare gli altri invitati.

    Portava alle falde due dita tenendo leggermente ripiegate le altre per salutare gli uomini, faceva il gesto, soltanto il gesto, di togliersi il cappello per salutare le signore. Poi, di nuovo sottobraccio alla moglie, si diresse verso casa, dove tutto era pronto per la festa.

    Doveva arrivare prima degli altri, non solo per fare gli onori di casa accogliendo gli ospiti, ma anche perché non voleva assolutamente perdersi l’effetto che il palazzo avrebbe fatto sugli invitati. Quando avevano posto la prima pietra forse era ancora più emozionato, ma non certo così soddisfatto; e si ricordò delle parole di sua madre quando, felice per il suo matrimonio con Vittoria, ch’era di famiglia più nobile e una volta ben più ricca della loro, gli aveva detto: «adesso, quando torni, vai a vivere a palazzo», perché così in paese chiamavano la casa del suocero. Lui le aveva risposto: «Forse, ma per poco. Io quando tornerò qui, a Calzano, costruirò la mia casa, il mio palazzo, e sarà il più bello del paese. Una casa come nella stessa Cosenza non se ne sono viste molte. Quando sarà pronto, ci verrete a vivere anche voi».

    Ora il palazzo più bello del paese era pronto, ma sua madre non sapeva che il suo proposito era stato realizzato né avrebbe potuto abitarlo, perché ormai era morta anche lei, prima ancora che lui desse inizio alla costruzione. Era stata così sfortunata sua madre!

    Ma lì sarebbero vissuti, ormai per sempre, lui e Vittoria, lì sarebbero cresciuti i suoi figli. E cominciò a far progetti per il giardino che ancora doveva essere sistemato: cominciò a pensare a quali piante e quali fiori ci dovevano essere. Avrebbe voluto almeno due palme.

    Decise di attendere il prete sul portone, in modo che nessuno entrasse prima di lui; poi si sarebbe posto al suo fianco e l’avrebbe preceduto sulle scale e nelle stanze. Così avrebbe visto entrare tutti e avrebbe potuto godersi la meraviglia, l’ammirazione e certo anche l’invidia degli invitati. Che cosa non avrebbe dato per poter sentire i loro commenti!

    C’erano voluti anni per costruire quel palazzo e non c’era stato giorno che lui non fosse andato lì almeno una volta per controllare i lavori, per sollecitare gli operai. Avrebbe voluto inaugurarlo con l’inizio del secolo, nel 1900; pensava che sarebbe stato un ottimo auspicio cominciare il nuovo secolo andando ad abitare nella nuova casa, ma non era stato possibile finire in tempo, c’era voluto quasi un anno in più del previsto.

    Ora, però, era fatta. Ora si sarebbe goduto i frutti di quelle fatiche e di quelle, molto più grandi, che c’erano volute per mettere insieme tutti quei soldi. Anni duri quelli, specie i primi. Aveva solo sedici anni nel 1876, quando era andato a raggiungere il fratello, in Brasile. Il distacco era stato penoso e difficile era stato abituarsi al nuovo lavoro e ambientarsi in un mondo così diverso, dove non c’erano ancora tanti italiani, quanti poi ce ne sarebbero stati negli anni successivi. Né subito era arrivata la ricchezza, che per fortuna, però, era arrivata.

    Ma ormai gli ospiti erano giunti. Erano tanti: non mancava proprio nessuno perché tutti quelli che erano stati invitati erano venuti, curiosi di vedere anche all’interno l’edificio che ormai, da circa un anno, era stato completato all’esterno e indubbiamente si presentava come il più bel palazzo del paese, con il suo alto zoccolo bugnato, i balconi con le colonnine panciute, le alte finestre con lesene e timpani decorati.

    Anche l’androne, con la bella scala, la ringhiera e gli archi che giravano tutt’intorno al primo piano, era già stato visto, perché quasi tutti passando erano entrati, curiosi, ad ammirarlo. Perciò quel che contava era vedere che effetto faceva l’interno. «Si dice che abbiate arredato la vostra casa in modo principesco», gli disse qualcuno, e lui ne fu contento. In effetti, pavimenti, accessori e mobili erano venuti da Napoli e non aveva badato a spese, ma a nessuno, fino ad allora, era stato permesso di vedere qualcosa. Aveva ripetuto a tutti, più volte, anche agli intimi, che solo quando il palazzo fosse stato completato sarebbero stati invitati a vederlo. Ed ecco: ora era giunto il momento.

    A quella benedizione davvero non aveva mai pensato. Lui non era un libero pensatore come suo cognato Benedetto, ma certo non era uomo di Chiesa, dove metteva piede al massimo due volte l’anno. Del resto se non era stato lui a volere il rito, forse lo voleva lo stesso Padreterno. Un’investitura? Per un attimo si sentì ridicolo, poi pensò che evidentemente le cose dovevano andare così: forse il Padreterno aveva voluto fargli capire che i suoi travagli erano finiti. Conclusa la stagione della semina, ora poteva raccogliere i frutti.

    Poi, mentre saliva lo scalone, velocemente, per porsi all’ingresso del primo salotto prima degli altri, pronto ad accoglierli, cominciò a chiedersi se i camerieri avevano acceso lumi e candele, com’era stato loro ordinato, anche se ancora era giorno, per non disturbare dopo, quando sarebbe sceso il crepuscolo.

    Ma era tutto a posto, e sul viso di chi entrava la curiosità lasciava subito il posto all’ammirazione, più o meno evidente, mentre un senso di lieta soddisfazione lo riempiva. Quello che gli dicevano non contava, ovviamente, perché chi per non dispiacergli, chi per adularlo, avrebbero tutti fatto dei complimenti. L’espressione del loro viso, al momento dell’impatto visivo con l’appartamento, invece, non poteva mentire e lui era soddisfatto, veramente soddisfatto. Ora poteva dirigersi verso le sale.

    Due signore che non si erano accorte d’averlo alle spalle stavano intanto commentando: «Questo coi soldi s’è montato la testa, avete visto che casa? Manco fosse un principe». «Ma si può fare la casa che vuole, mercante era e mercante rimane.»

    Quell’appellativo lo ferì come uno schiaffo. Lui lo sapeva che in paese, quel paese dove non c’era nessuno che potesse sfuggire ad uno se non a più soprannomi, lo chiamavano il mercante, ma chi sa perché quell’espressione che pure a riflettere bene non era un’ingiuria, gli dava un enorme fastidio. Era come se lo volessero bollare, marchiandolo a fuoco e costringendolo ad essere per sempre quello che, pure, una volta era stato. Non sapeva perché, ma sentirsi chiamare così lo irritava profondamente. Sì, aveva fatto il mercante e per farlo aveva affrontato disagi e umiliazioni. Ma aveva avuto successo, aveva reagito alle avversità alle quali loro, gli inetti, non avevano saputo

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