Misteri delle Culture Precolombiane
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Il padre fondatore della civiltà andina era At-ach-u-chu, Il Maestro di tutte le Cose, proveniente da est, da una terra distante, arrivato sulle rive del Titicaca dopo essere sopravvissuto a un diluvio. Fratello maggiore di cinque Viracochas o “Uomini bianchi”, è ricordato come Kon-Tiki-Viracocha o “Uomo Bianco della Schiuma del Mare”.
I resoconti recano interessanti particolarità circa la descrizione di Viracocha: occhi azzurri, statura elevata, capelli e barba biondi o bianchi e una lunga tunica bianca munita di cintura all’altezza della vita. Viracocha era considerato dio dell’universo e creatore del mondo e del cielo: era l’artefice del sorgere del sole dalle acque del lago Titicaca. A Tiahuanaco, leggendaria dimora edificata dagli dèi o dai giganti in una sola notte dopo il diluvio e Tampu-Tocco, l’odierna Machu Picchu, aveva poi plasmato la terra dando vita agli esseri umani. Il culto di Viracocha o Dio dei bastoni s’intreccia con l’esistenza di numerose civiltà che popolarono le Ande molto prima degli Incas, di cui sappiamo ancora ben poco. Tra storia, mitologia, archeologia e mistero, il volume racconta non solo le vicende di queste culture, ma anche il popolamento delle Americhe e le origini di un mito che si perde nelle pieghe di un passato che continua a sfuggirci di mano.
Simone Barcelli è un divulgatore di storia antica, archeologia e mitologia. Già webmaster del portale Tracce d’eternità è stato per anni curatore dell’omonima rivista digitale in download gratuito per gli utenti. Ha collaborato con Edizioni XII nella selezione di testi inediti. Collabora con Cerchio della Luna Editore per la scelta, l’editing e la realizzazione di titoli monografici per la serie “I Quaderni di Tracce”. È stato tra i fondatori di A.S.P.I.S. (Associazione Scientifica per il Progresso Interdisciplinare delle Scienze). Ha pubblicato studi tematici sui mensili Hera, SpHera, Area di Confine, Fenix e XTimes, e sul bimestrale L’Iniziazione. In rete scrive sulle testate digitali Tutto Storia e Storia in Network. Ha già pubblicato per l’Editore Cerchio della Luna Tracce d’eternità (2009), L’enigma delle origini della razza umana (2011), Il ritorno del Serpente Piumato (2012), OOPART - gli oggetti impossibili del nostro passato (2012), Oltre i portali nel cielo (2013), La Storia che verrà (2013) e Quelli che vennero prima (2015). Per CreateSpace Independent Publishing, sulla piattaforma Amazon, ha pubblicato L’ultima specie (2014).
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Misteri delle Culture Precolombiane - Simone Barcelli
Ringraziamenti
Introduzione
Pur venendo da due disastrose spedizioni, una in Colombia e l’altra in Ecuador, dal 1531 in poi Francisco Pizarro ebbe miglior fortuna e riuscì a sbaragliare l’impero degli Inca, sfruttando soprattutto i conflitti interni degli indigeni.
All’alleato della prima ora, il sovrano inca Atahualpa, parve di riconoscere nello spagnolo, per le fattezze del viso e l’abbigliamento, un diretto discendente del dio bianco Viracocha.
È quasi certo che Pizarro, un uomo di alta statura e con una folta barba, in sella al suo cavallo e con l’armatura indosso potesse indurre i nativi a credere nel ritorno della loro divinità.
È interessante notare che il dodicesimo (e ultimo, secondo le credenze) regnante Inca Huayna Capac, in punto di morte avrebbe rivelato ai figli l’arrivo di " genti nuove e sconosciute che avrebbero sottomesso l’impero con
armi possenti e invincibili ben più delle nostre, esortando i presenti
di obbedirli e servirli come uomini a noi in tutto e per tutto superiori".
Le parole del re erano state precedute da segni nefasti, del tutto simili a quelli rammentati dagli Aztechi nella Mesoamerica: la morte di un’aquila nel giorno dedicato alle celebrazioni del Sole, l’apparizione di tre cerchi attorno alla Luna ad annunciare guerra e distruzione, oracoli che fornirono oscure e confuse risposte, idoli parlanti e l’immancabile cometa, in questo caso quella di Halley apparsa nel 1467.
Il boato di un cannone poteva essere interpretato come quello del tuono, da sempre associato col fulmine alle manifestazioni divine.
L’abbaglio durò poco perché l’emissario inviato da Atahualpa, il guerriero Cinquinchara, dopo aver trascorso un po’ di tempo con gli spagnoli, convinse il sovrano a non fidarsi di loro perché si comportavano alla stessa maniera degli umani e non avevano proprio niente di sovrannaturale.
Il regnante inca, in ogni modo, fece la stessa fine di Montezuma, maltrattato e tenuto in ostaggio. Inscenando un processo nei suoi confronti e ritenendolo ovviamente colpevole, gli fu chiesto se volesse morire come un eretico (bruciato vivo) o come un cristiano (strangolato): Atahualpa scelse quest’ultima e prima di morire fu battezzato col nome di Juan de Atahualpa, in onore di San Giovanni Battista.
Alla storia passerà per l’inca convertito al cattolicesimo.
La morte di Atahualpa ha poi generato il mito di Inkarri, ancor oggi tramandato oralmente: il sovrano inca avrebbe promesso di tornare per vendicare la propria morte. La leggenda recita che gli spagnoli smembrarono il suo corpo e lo seppellirono in vari luoghi del regno: la testa sotto il palazzo presidenziale di Lima, le braccia sotto al Waqaypata (Quadrato di lacrime) di Cuzco e le gambe ad Ayacucho. Al suo risveglio il monarca dovrebbe ristabilire l’armoniosa relazione tra la madre terra Pachamama e i suoi figli.
In un precedente lavoro (" Il ritorno del Serpente Piumato", 2012), abbiamo visto come Toltechi, Mixtechi e Aztechi chiamassero Quetzalcoatl questa divinità barbuta, ma è curioso costatare che il dio è conosciuto, pur con altri appellativi, in tutta l’America centrale e meridionale.
I Maya lo identificavano in Kukulcan (Signore del Respiro) così come i Crrek, i Chortan e i Seminole in America settentrionale.
Itzamna (Signore dei Cieli) è invece una variante in uso al primo ceppo Maya che lo considerava anche fondatore di Mayapan ( Casa Iguana poiché anche questo rettile era a lui associato) e Chichén Itzà ( Grande casa). Quest’appellativo andò poi a individuare la popolazione maya degli Itzà o Ah-Ahuab ( Stranieri di questa terra ma letteralmente Uomini bianchi), la cui descrizione fisica è stata eternata nella Stele 27 di Yaxchilan, nella Stele 11 di Piedras Negras e nel Tempio dei Guerrieri di Chichen Itzà; gli attributi sono quelli che già conosciamo, soprattutto la barba e il naso lungo e affusolato. Le tradizioni narrano di come gli Halach-Unicob provenissero da Tutulxiu ( Terra dell’abbondanza o Dove sorge il Sole). Stando ai racconti degli indigeni, ripresi dai cronisti spagnoli, gli antenati asserivano di venire da questa terra abitata da una razza proveniente da est, che il creatore aveva lì condotto aprendo dodici sentieri sul mare.
In altre incisioni di matrice olmeca, per intenderci quelle di Monte Alban, questi uomini si caratterizzavano per l’alta statura e potevano avere la barba.
Il prototipo era un dio molto alto, sicuramente sopra la media, come il re Pacal di Palenque, adornato con una barba posticcia al pari dei faraoni d’Egitto.
Queste immagini di divinità (o di uomini divinizzati) con la barba ricorrono in un rilievo olmeco a La Venta, in un’urna funeraria a Copan, nel Tempio di Kukulcàn a Chichen Itzà, a Tepatlaxco e a Tula.
Il rinvenimento del ritratto in pietra di un uomo con caratteristiche indoeuropee, munito di un copricapo conico e di una barba a punta, avvenuto nel sito archeologico di Cuicuilco negli atti Settanta del secolo scorso, non fa altro che suggellare una realtà incontestabile.
Per i Quiche la divinità barbuta era Gukumatz oppure Votan. In Brasile diventava Tupi o Sumè, in Colombia Bochica o Zuhe; gli Zoque del Guatemala lo chiamavano Condoy mentre i Cuna Tsuma. Se in Argentina e Paraguay ci si rivolgeva a lui come Tamandare, in Perù era conosciuto come Viracocha, che a questo punto merita un discorso più approfondito.
Il padre fondatore della civiltà andina era At-ach-u-chu, Il Maestro di tutte le Cose (alto con barba e capelli forse rossi, pelle chiara), proveniente da est, da una terra distante, arrivato sulle rive del Titicaca dopo essere sopravvissuto a un diluvio. Fratello maggiore di cinque Viracochas o Uomini bianchi
, è ricordato come Kon-Tiki-Viracocha o Uomo Bianco della Schiuma del Mare
. Per avere un’idea delle sembianze dei Viracochas è possibile ammirare le ceramiche dei Moche che li ritraggono, a bordo di zattere, come uomini barbuti con elmi quadrati.
Qualche altro particolare sulle fattezze lo fornisce il cronista Cieze de Leon, sulla scorta delle testimonianze di prima mano fornitegli dagli indigeni, quando racconta che il centro cerimoniale Kalasasaya, a Tiahuanaco, sarebbe stato costruito da gente con barba e pelle chiara, giunta in questi luoghi ancor prima degli Inca.
Altri resoconti raccolti a margine della conquista aggiungono ulteriori interessanti particolarità circa la descrizione di Viracocha: occhi azzurri, statura elevata, capelli e barba biondi o bianchi e una lunga tunica bianca munita di cintura all’altezza della vita.
Viracocha era quindi considerato dio dell’universo e creatore del mondo e del cielo: era l’artefice del sorgere del sole dalle acque del lago Titicaca (il mito deve necessariamente intersecarsi con quello della donna-pesce Orejona, di cui faremo cenno); a Tiahuanaco, leggendaria dimora edificata in una sola notte dopo il diluvio (dagli dèi o dai giganti) e Tampu-Tocco, l’odierna Machu Picchu, aveva poi plasmato la terra dando vita agli esseri umani.
Per qualche altro dettaglio, dobbiamo ancora far leva sulla mitologia. A Machu Picchu il dio fu aiutato dai fratelli Ayar, inviati dagli dèi: uno di loro fu rinchiuso dagli altri in una grotta che fungeva da prigione e fu trasformato in pietra; tre dei quattro germani si affacciarono ad altrettante finestre e cominciarono il grandioso progetto. Uno di questi era destinato a essere ricordato come l’iniziatore della civiltà, millenni prima degli Incas.
Appare scontato il raffronto dei fratelli Ayar con i personaggi biblici Cam, Sem e Jafet.
Viracocha, per certi versi come Quetzalcoatl, voleva abolire la nefandezza dei sacrifici umani ma alcuni suoi seguaci, con l’appoggio dei sacerdoti, si rivoltarono con violenza tanto da costringerlo alla fuga: ecco perché Viracocha trasformò il mantello in un’imbarcazione e salpò per l’oceano Pacifico.
La figura dell’eroe civilizzatore è presente, seppur con leggere sfumature, in una pluralità di miti. A parte Quetzalcoatl e Viracocha, di cui abbiamo finora fatto cenno, il più conosciuto è certamente Prometeo, senza tralasciare Osiride in Egitto e Oannes in Mesopotamia. Queste mitiche figure sono ricordate come veri e propri benefattori per l’umanità.
Il mito del titano Prometeo appartiene alla tradizione greca e narra della decisione presa da Zeus di distruggere la razza umana dell’Età del bronzo poiché considerava pericolosi i doni che aveva concesso loro Prometeo. Il titano avvertì dunque il figlio Deucalione (l’equivalente Noè biblico) dell’imminente diluvio che si sarebbe abbattuto sulla Terra, in modo che potesse salvarsi con un’arca. Pur essendo noto per i suoi molteplici insegnamenti al genere umano (si deve a lui l’introduzione dell’agricoltura, della pastorizia e dell’osservazione dei cieli), questo eroe civilizzatore sarà ricordato soprattutto per aver rubato a Zeus il fuoco divino dell’Olimpo, gelosamente custodito dagli dèi, per donarlo di nuovo agli uomini.
Il controllo delle fiamme è considerato un fattore decisivo nell’evoluzione umana poiché, come rileva il paleoantropologo Lawrence Straus, col fuoco è possibile la cottura di cibi anche più energetici, che permettono un minor dispendio di forze a tutto vantaggio del pensiero.
Osiride, dio egizio della morte e dell’oltretomba, è ricordato anche come divinità dell’agricoltura. Lui e la consorte Iside (sorella e sposa di Osiride, dea dell’universo e regina dei cieli che, al pari della Vergine Maria, era rappresentata seduta, con in braccio un bambino che allattava) civilizzarono l’umanità, riscuotendo in breve tempo larghi consensi. Questo provocò la reazione del fratello Seth che con l’inganno riuscì a chiudere Osiride in una bara, poi gettata nelle acque del Nilo.
L’annegamento di Osiride, secondo gli studiosi, potrebbe simboleggiare l’inondazione annuale del Nilo.
Iside riuscì magicamente a riportare in vita il dio ma Seth lo uccise una seconda volta, smembrandone il corpo. L’infaticabile compagna riuscì a ricomporre i resti di Osiride (con l’aiuto di Anubi, il dio imbalsamatore che fungeva da guida delle anime dei defunti), che da quel momento divenne " il signore del limite estremo" poiché nel mondo degli inferi fu incaricato di giudicare le anime dei morti. Il dio del Cielo Horus, figlio di Osiride e Iside, si fece carico di vendicare il genitore e, dopo acerrimi duelli, gli dèi legittimarono la sua sovranità quale erede di Osiride sulle terre del Basso Egitto; Seth sarà invece cacciato nel deserto, la parte meridionale del paese, assumendo le sembianze del dio del tuono e delle tempeste.
Uana-Adapa, l’uomo-pesce dei Sumeri poi ricordato come Oannes, raggiunse la terra con una enorme perla luccicante
per infondere la conoscenza agli uomini. Oannes, in siriano antico, significa straniero
. Dalle frammentarie notizie
che abbiamo, comparve in maniera simultanea nell’area del Golfo Persico e del Mar Rosso.
Queste creature dovevano essere veramente disgustose alla vista, tanto che lo storico Beroso narra di come fossero soprannominate annedotoi, cioè ripugnanti
. Oannes, per come lo racconta Beroso nel 275 a.C., era uno dei sette saggi Apkallu che insegnò le arti al genere umano prima del diluvio universale. Aveva due teste e quella con fattezza umana era posta sotto quella di pesce; sotto la coda anfibia dipartivano due piedi d’uomo e le parole che pronunciava erano quelle di un essere umano. Di giorno insegnava la civiltà ai terrestri ma poi trascorreva la notte in mare.
Anche i Dogon del Mali sostengono di aver ricevono la conoscenza da Nommo, una divinità acquatica scesa dalle stelle, per certi versi simile a Osiride e Gesù, se è vero che la leggenda racconta che questo dio divise il proprio corpo fra gli uomini per nutrirli e finì crocefisso su un albero per poi risuscitare.
Oannes e Nommo hanno molto in comune con la donna-pesce Orejona, scesa dal cielo (con un’imbarcazione luccicante come l’oro) sul lago Titicaca per fornire la sapienza ai popoli andini. Considerata la madre del genere umano, questa dea, ancor oggi effigiata sulla Porta del Sole di Tiahuanaco, pare si accoppiò con un tapiro per dare alla luce le prime settanta creature della specie terrestre. La dea anfibia, oltre che bellissima, nei miti è stata descritta con la testa conica, grandi orecchie (da qui l’appellativo) e dita palmate ai piedi e alle mani. Proveniente dal pianeta Venere, lì tornò quando decise di andarsene.
Ancora oggi, il 3 novembre, gli Aymarà si ritrovano sulle rive del lago per attendere il ritorno, nell’Isola del Sole, di questa dea della fertilità chiamata Mama Ocllo, figlia di Inti e madre di Manco Capac. A lei si attribuisce anche