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Antichi Astronauti: Presenze aliene nel nostro passato
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E-book338 pagine4 ore

Antichi Astronauti: Presenze aliene nel nostro passato

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Info su questo ebook

Uno studio completo sul mistero
degli Antichi astronauti  e delle civilta’ scomparse
 
Nessuno mette più in dubbio le conoscenze astronomiche dei nostri antenati, un sapere tramandato per generazioni, che oggi riconosciamo nei miti e nelle leggende. Conoscenze astronomiche che continuiamo a rinvenire nelle incisioni dei templi e negli allineamenti delle costruzioni megalitiche.
L’autore si muove nell’analisi della teoria degli Antichi  Astronauti, o Paleoastronautica, che si occupa di possibili visite aliene avvenute in passato sul nostro pianeta soprattutto tra Paleolitico e Neolitico.
Nel testo sono analizzati anche i controversi OOPArt, la nascita della teoria, lo sviluppo degli studi negli ultimi trent’anni e il contributo a volte inconsapevole degli scienziati; vengono inoltre analizzate le testimonianze più confacenti, dibattuti problemi e prospettive, comprese le possibili connessioni con il  SETI, le cui attività possono incredibilmente indirizzare anche la ricerca delle prove che mancano della presenza di extraterrestri nell’antichità.
Tra macchine volanti, messaggeri divini e misteriosi libri ormai perduti, l’autore introduce anche gli ultimi studi scientifici e le più recenti scoperte archeologiche documentate, per suggerire la possibilità di un qualche intervento nel nostro remoto passato degli Antichi Astronauti.
 
LinguaItaliano
Data di uscita29 dic 2022
ISBN9788869377099
Antichi Astronauti: Presenze aliene nel nostro passato

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    Anteprima del libro

    Antichi Astronauti - Simone Barcelli

    ​Introduzione

    In un mio lavoro di qualche anno fa ( Oltre i portali nel cielo , recentemente ristampato dall’Editore con il titolo certamente più accattivante Codici nascosti delle civiltà delle origini ), mi ero concentrato sulle incredibili conoscenze astronomiche dei nostri antenati, tesi com’erano da un richiamo irrefrenabile alla volta celeste, concretizzatosi nello studio millenario delle stelle e dei pianeti, tramandato per generazioni con quei resoconti orali che oggi riconosciamo nei racconti mitologici, anche se stentiamo a comprenderne il significato. Conoscenze astronomiche che continuiamo a rinvenire nelle incisioni dei templi e negli allineamenti delle costruzioni megalitiche, oppure nei riti che conducevano all’immortalità e all’ascesa in cielo delle divinità.

    In quel testo scrivevo che «L’umanità ha sempre rivolto gli occhi al cielo, fin da tempi remoti, per scrutare il volere delle divinità. Non è eretico quindi sostenere che l’astronomia (anche nella sua veste corrotta di astrologia) è la prima scienza dell’umanità».

    Non parlavo ancora di Antichi astronauti, ma molte di quelle pagine ne erano certamente impregnate: «Le divinità che avrebbero interagito a più riprese con i nostri antenati, erano esseri soprannaturali, poi divinizzati, che formavano un coacervo di curiosi personaggi, ognuno con prerogative diverse e per questo erano associati a pianeti e stelle di questo e di altri universi».

    Già una decina d’anni fa avevo affrontato sporadicamente, in altri testi, argomenti comunque riconducibili alla teoria del Paleocontatto: se in Tracce d’eternità scrivevo di luoghi misteriosi, ne L’enigma delle origini della razza umana e ne Il ritorno del Serpente Piumato mi concentravo soprattutto sui racconti mitologici tramandati dai nostri antenati.

    OOPArt. Gli oggetti ‘impossibili’ del nostro passato, editato nella seconda metà del 2012, conteneva invece una severa disamina sui manufatti fuori luogo e fuori tempo: quest’ultimo libro sanciva di fatto il mio allontanamento dalla Paleoastronautica, la pseudo-scienza che si occupa di possibili visite aliene avvenute sul nostro pianeta nel passato, poiché ritenevo impossibile proseguire oltre in quella direzione, nell’evidente mancanza di prove e a fronte di indizi davvero scarsi e spesso risibili.

    Da quel momento, la mia attenzione si è concentrata esclusivamente sull’altra ipotesi, molto più spendibile, afferente la possibilità che antiche e progredite civiltà si siano susseguite nel corso dei millenni, tra Paleolitico e Neolitico, senza peraltro lasciare tracce così evidenti del loro passaggio. In buona sostanza, anche questo è stato un percorso irto di ostacoli. Ne ho discusso, tirando in qualche modo le somme, anche in Tracce di civiltà scomparse, un libro uscito alla fine del 2021.

    Ancor oggi il mio principale campo d’azione divulgativo rimane quello, fondato sullo studio della storia antica, dell’archeologia e di tutte le altre discipline connesse; un terreno per me ormai molto congeniale, che mi ha certamente permesso di crescere in conoscenze e competenze.

    Ciò non toglie, e veniamo alle ragioni di questo scritto, che sia finalmente arrivato per me il momento di cimentarmi con questi benedetti Antichi astronauti, come avevo d’altronde promesso più di dieci anni fa in OOPArt. Gli oggetti ‘impossibili’ del nostro passato. In quel testo, infatti, ragionando su alcuni manufatti (la macchina di Anticitera e il disco di Festo), intravedevo un innegabile nesso con il cielo e la sua osservazione, che induceva a considerare conoscenze astronomiche notevoli che si perdono nella notte dei tempi. Un altro paio di reperti, l’ aliante di Saqqara e il jet della Colombia, potevano far intuire «anche la presenza di antichi astronauti che nel passato visitarono il nostro pianeta, dispensando quelle conoscenze narrate in tutti i resoconti mitologici. La teoria è così affascinante, con implicazioni che esulano dalla nostra comprensione e si scontrano con la razionalità, che merita un’investigazione e un approfondimento a parte. Ne riparleremo, quindi, in un altro lavoro, in cui si cercherà di raccogliere tutta la documentazione sull’argomento, per poi tirare le somme». È quindi il momento di mantenere fede a quell’impegno, forse anche, era ora finalmente, per aver acquisito in tutti questi anni di ricerca, la maturità necessaria per affrontare un simile argomento.

    In primis, scrivere di antiche civiltà perdute non esclude necessariamente l’ipotesi di uno o più paleocontatti, che potrebbero essere avvenuti, appunto, nel passato dell’umanità. Sono quindi possibilista al riguardo, anche se continuo a essere prudente, spesso anche critico, nell’analisi del materiale che ritengo meritevole per essere discusso in questa sede.

    Un’altra ragione che mi porta a scrivere questo libro è senz’altro il fatto che in rete, ma purtroppo anche nella pubblicistica di settore, continuano a essere propinate storie che hanno davvero oltrepassato il limite della decenza, per non dire delle fandonie o quelle riciclate senza nessuna fondatezza.

    Il lettore in genere non è più abituato, oppure non ha tempo né voglia, di controllare le fonti da cui sono attinte queste notizie; nemmeno si controlla più il cosiddetto pedigree degli autori.

    Quel che ho sempre fatto, e continuo a fare, è stato esaminare le notizie e operare un profondo controllo delle fonti e dell’autenticità degli autori, e per tale ragione anche in questo testo non troverete nulla di tutta la paccottiglia cui ho appena accennato.

    In compenso potrete utilizzare i risultati di questa ricerca come meglio vi pare, anche per proseguire nelle investigazioni per conto vostro, nella maniera che più vi aggrada.

    Una questione rilevante che ho riscontrato è l’atteggiamento fideistico della maggioranza di cultori della materia. Non credo che la tendenza possa cambiare, poiché permane, purtroppo ma anche legittimamente, il desiderio di credere in ciò che si vuole, nonostante tutte le evidenze possano essere contrarie e potrebbe, quindi, essere più saggio e conveniente tornare sui propri passi. D’altronde, come succede sovente discutendo per esempio di argomenti quali politica, sport e religione, anche in questo campo ognuno vuole tenersi la ragione e non ammette contraddittorio alcuno.

    La mancanza di dialogo e confronto delle proprie opinioni con quelle degli altri, non permette infine di proseguire proficuamente nella ricerca e gli sforzi degli autori non fanno che perdersi irrimediabilmente in un limbo. Spesso mi sono trovato in mezzo a queste diatribe e l’esperienza mi ha infine suggerito di fuggire a gambe levate da certe situazioni.

    Eppure, sempre per quel che riguarda l’argomento qui in trattazione, in questi anni ho proseguito in assoluto silenzio, e in solitaria, ad aggiornarmi e a raccogliere nuovo materiale, ora riversato in questo testo.

    È d’obbligo un’ulteriore puntualizzazione: in queste pagine, come avrete sicuramente compreso, non troverete fake news, le cosiddette notizie false. Non ho, infatti, nessuna necessità di attingere a questo genere di informazioni, inventate di sana pianta, o comunque distorte quel tanto che basta per ingannare un lettore generalmente ingenuo.

    Poiché la materia risente della totale mancanza di prove, quello di cui si può discutere, e lo farò, sono un insieme d’indizi, a volte anche probanti, ma a condizione che questi abbiano, naturalmente per il giudizio dell’autore, almeno il presupposto di essere tali.

    Ho necessariamente operato delle scelte, che giudico molto restrittive, ma valuto le tracce selezionate abbastanza confacenti per discutere con sobrietà dell’argomento.

    In questo testo, dopo aver ricostruito sommariamente, nei primi tre capitoli, la nascita e lo sviluppo della teoria degli Antichi astronauti, in modo da introdurre il lettore, torno brevemente a discutere (l’avevo già fatto nel 2020, seppur in altro contesto, nel libro Il paradiso scomparso del dio Enki) degli Oannes, vale a dire i saggi Apkallu: sono coloro che per tradizione custodivano i ‘Me’, i princìpi dominanti dell’universo, conservati nell’Apsu, il regno del dio delle acque Enki.

    Gli Oannes, messaggeri del dio ancestrale dei Sumeri, furono infatti inviati sulla Terra prima del diluvio per civilizzare il genere umano

    Mi pare una strada del tutto percorribile: infatti, come vedremo, gli astrofisici Joseph Samuilovich Sklovskij e Carl Sagan, in un testo pubblicato nel 1966 ( Intelligent Life in the Universe, tradotto in italiano nel 1980), pur critici nei confronti della teoria degli Antichi astronauti, si dimostrarono infine possibilisti, dedicando parte del libro proprio al mito di Oannes.

    Da lì sarà più semplice proseguire, alla ricerca di altre simili divinità acquatiche dispensatrici di civiltà, le cui storie i nostri antenati hanno tramandato oralmente, in forma di mito.

    Tra queste certamente quelle narrate dai Dogon, il popolo del Mali che continua a venerare il dio creatore Amma, che avrebbe dispensato la conoscenza tramite creature anfibie chiamate Nommo, originarie di Sirio, verosimilmente giunte sulla Terra da un’enigmatica ‘stella della decima luna’.

    Insomma, per dirla tutta, anche i Nommo ricordano dannatamente gli Oannes.

    Di là del contenuto e della forma, i miti andrebbero analizzati per quel che sono: ricordi distorti, sfumati, qualcosa che ha a che fare col nostro passato veramente remoto, avvenimenti importanti che grazie alla trasmissione orale hanno attraversato, in lungo e in largo decine di secoli quando la scrittura non faceva ancora parte del bagaglio culturale della civiltà.

    La parola ‘mito’ trae origine dal greco: ‘mithos’ in origine stava a significare narrazione di fatti, prima raccontati e poi, con la nascita della scrittura, anche trascritti. Nonostante le costanti insidie contenute in questi racconti mitologici, l’approccio è del tutto indispensabile poiché le discipline scientifiche di cui possiamo avvalerci, per esempio l’archeologia, non hanno ancora raggiunto risultati soddisfacenti per la piena comprensione del nostro passato.

    Eppure proprio l’archeologia, questa scienza da sempre considerata imperfetta, ci apre in qualche modo le porte del sito di Tiahuanaco, in Bolivia, e vedremo se lì c’era davvero un avamposto alieno nell’antichità, come sembra di intendere anche dalle ermetiche parole dell’archeologo Osvaldo Rivera, già direttore dell’ Instituto Nacional de Arqueología.

    Senza tralasciare il legame tra Tiahuanaco, ‘La dimora dei divini uomini-pesce’, e le culture mesopotamiche, suggerito tempo addietro dal giornalista Adriano Forgione, direttore della rivista Fenix.

    Anche l’astronomia, però, ci viene in soccorso, soprattutto quando le mie attenzioni saranno rivolte a quelle porzioni di cielo con i relativi asterismi, che maggiormente ricorrono in associazione alle tante divinità, fisiche o meno, che hanno riempito la vita dei nostri antenati.

    Scopriremo per esempio che i pittogrammi per indicare le parole ‘pesce’ e ‘stella’, impressi sui sigilli della civiltà Indo-Sarasvati, sono identici e potrebbero rappresentare una costellazione di stelle come le Pleiadi, o corpi celesti come Venere, Saturno e altri asterismi.

    E già che c’ero, non potevo non discutere anche del contenuto degli antichi testi indiani, che narrano dei Vimana, macchine volanti e carri aerei in grado di trasportare anche le persone: oggetti volanti piatti e di forma ovale che librandosi alla velocità del vento emettevano un suono definito melodioso. Senza per questo nulla togliere a Enrico Baccarini, che considero il miglior divulgatore in materia.

    Come proseguirà l’indagine, a quel punto, lo scoprirete solo leggendo fino all’ultimo questo testo.

    Un po’ di suspance, perbacco!

    Solo alla fine di questo intricato percorso di studio, si potranno, infatti, tirare le somme.

    Questo modo di procedere potrà non piacere: il lettore, abituato da almeno cinquant’anni di dissennata pubblicistica (ci sono passato anch’io, purtroppo, nella lettura di questi testi), perderà spesso ogni punto di riferimento e potrebbe avere difficoltà a seguire l’incedere degli eventi.

    Abbiate quindi la pazienza e soprattutto la bontà di continuare a leggere queste pagine, giudicandone la bontà solamente alla fine.

    Siate quindi possibilisti come lo sono io.

    Muovendomi in un campo letteralmente minato, non sarà affatto semplice procedere sempre con il metodo deduttivo, cioè con un procedimento razionale proprio della scienza, insomma, giungere a conclusioni attraver-so collegamenti razionali, partendo dall’universale per giungere al particolare. Occorrerà giocoforza avvalersi anche del metodo induttivo, quindi arrivare a possibili previsioni partendo dall’analisi dei singoli fatti, con tutto quello che ciò comporta in termini di precisione del risultato, anche e soprattutto perché siamo nell’impossibilità di verificare tali ipotesi per via sperimentale.

    Come ricordava il filosofo Karl Raimund Popper, il problema di ognuno di noi, di fronte a una determinata questione, è senz’altro l’assoluta mancanza d’impar-zialità, e questa è la ragione per cui generalmente la descrizione basata sul metodo induttivo è poco realistica.

    Ammetto che la mancanza di obiettività, in questo caso, potrebbe essere addossata pure a me, per via della personale e limitata selezione degli indizi da analizzare rispetto ad altri che ho volutamente scartato o demolito per mancanza di minime garanzie: tra questi, quasi tutti gli OOPArt.

    Questa scelta è dettata da condizionamenti mentali cui nessuno si può ovviamente sottrarre, tanto che quel che viene osservato, e che dovrebbe condurci a un pensiero induttivo, ci porta invece già da subito a un ragionamento deduttivo, pur non avendone le carat-teristiche. Insomma, lo schema mentale si sovrappone inesorabilmente, e non dovrebbe assolutamente ac-cadere, alla realtà dei fatti.

    In ogni modo, a parte il metodo deduttivo/induttivo, procederò ove possibile utilizzando l’obiettività e il buon senso, applicando in genere, ma non sempre, la regola del Rasoio di Occam, che prevede di spiegare un fenomeno ipotizzando sempre la soluzione più semplice, invece di introdurre condizioni così difficili da provare che andrebbero solamente a complicare la questione.

    Se dovessimo seguire alla lettera questo metodo, almeno nel contesto delle scienze storiche (che come già detto non permettono sperimentazioni), tra tutte le ipotesi vagliate non potremmo davvero scegliere quella degli Antichi astronauti, poiché non ci fornirebbe la spiegazione migliore dei fatti esaminati.

    In tal caso questo libro non avrebbe visto nemmeno la luce.

    L’astrofisico Jacques Vallée ha così inquadrato simpaticamente la questione: «La teoria di una Terra sferica che ruota nell’universo con più di quattordici movimenti diversi è incredibilmente complessa se paragonata all’elegante teoria di una Terra piatta e immobile, con il Sole e gli altri corpi celesti presi per delle torce portate in giro dagli angeli. Occam doveva avere la barba. Nella ricerca ufologica, come in altri campi scientifici, si è spesso costretti a mettere da parte il rasoio di Occam e ad accettare la frustrante complessità del mondo fisico (e la realtà ancora più complessa degli esseri umani che lo abitano)».

    È pur vero che anche la scienza è una disciplina che sbaglia spesso e impara dai propri errori, quindi occorre coltivare sempre la speranza o il dubbio, pur rimanendo in un contesto ragionevole.

    Se alla fine ci fosse anche un colpo di fortuna, come succede sovente anche in campo scientifico, sarebbe sicuramente meglio.

    Dovrò inoltre necessariamente affidarmi in via esclusiva alla ricerca (studio delle fonti e letteratura saggistica/scientifica), poiché in questo terreno è impossibile procedere applicando gli altri due dettami della scienza, cioè l’osservazione diretta (non abbiamo purtroppo nulla da osservare di veramente tangibile, anche se abbiamo già formulato inizialmente un’ipotesi ben precisa) e la sperimentazione (non è assolutamente possibile creare modelli matematici di simulazione, dato che i fatti in esame non accadono nel presente).

    D’altronde, non devo e non voglio sostituirmi a chi di mestiere fa proprio questo, e lo fa anche bene. Preferisco quindi rimanere nelle vesti a me più consone, quelle del divulgatore, pur procedendo con alcuni degli strumenti che la scienza ci mette a disposizione.

    Come per fortuna rileva Kenneth L. Feder, professore di archeologia alla Central Connecticut State University, «Dobbiamo ricordare che c’è un’ipotesi, da cui deduciamo implicazioni che devono poi essere sottoposte a verifica. Un errore è possibile in uno qualsiasi di questi passaggi: le ipotesi possono essere state mal formulate; le implicazioni dedotte possono essere errate; la sperimentazione può essere condotta in modo sbagliato. Gli scienziati non sono perfetti e questa procedura può essere viziata da incertezze e prevenzioni. La certezza in campo scientifico è rara. Ci sono sempre nuove ipotesi, nuove spiegazioni alternative e nuove implicazioni deduttive da verificare. Nulla è mai veramente definito. Nulla è stabilito in concreto. Nulla mai raggiunge la Verità Assoluta».

    Quando lo riterrò necessario, spiegherò anche le ragioni che mi hanno condotto all’esclusione da quest’analisi di una molteplicità d’indizi, poiché considerati di natura incidentale.

    L’indagine, perché di questo si tratta, fornirà infine quelle risultanze che, sulla scorta degli indizi probanti o ritenuti tali emersi dall’obiettiva disamina del materiale preso in esame, possano effettivamente suggerire un qualche intervento, nel nostro remoto passato, di Antichi astronauti, o come li si voglia chiamare.

    Le testimonianze, come vedremo, non sono poi così evidenti come voleva farci intendere quella nutrita schiera di saggisti che, nella seconda metà del secolo scorso, ha prodotto così tanti libri da occupare quasi interamente le librerie di casa nostra.

    Le affermazioni di questi autori non sono, infatti, quasi mai supportate da prove evidenti.

    Eppure questi lavori hanno certamente segnato, in qualche modo, anche il percorso di ricerca del senso della vita e del ‘da dove veniamo’ di ciascuno di noi, accendendo inevitabilmente la scintilla della fascinazione. Per tale ragione tutti questi autori andrebbero perlomeno ringraziati, poiché hanno permesso a diverse generazioni, compresa la mia, di continuare a sognare a occhi aperti, immaginando magari un passato, un presente e un futuro diverso e migliore.

    Naturalmente, l’ipotesi degli Antichi astronauti, per tutte le riflessioni qui accennate, non potrà mai rivelarsi efficace e accurata. Di questo dobbiamo, purtroppo, farcene una ragione.

    Come già sostenevo nel 2013 (ne La storia che verrà), muoversi con equilibrio tra queste sponde - l’incertezza che rende molto prudenti gli specialisti e oltremodo temerari chi invece percorre le strade della ricerca non convenzionale -, mantenendo l’obiettività ma anche un pizzico di sana incoscienza, significa intraprendere il cammino in una terra di mezzo in cui si rischia a volte di rimanere imprigionati, senza che la nostra voce possa risuonare come dovrebbe.

    Questa continua a essere la via che ho seguito in questi ultimi anni, sempre nella speranza di avere al mio fianco, prima o poi, qualche altro viaggiatore che voglia unirsi in questo tipo di divulgazione, conscio di incontrare più frustrazioni che riconoscimenti.

    L’autore

    PARTE PRIMA

    Uno scienziato alle origini della paleoastronautica

    Il 20 settembre 2005 moriva, ormai novantenne, il matematico ed etnologo russo Matest Agrest Mendelevitch, conosciuto per il suo contributo alla teoria delle funzioni cilindriche incomplete e ancor più per l'ipotesi di paleocontatto espressa in tempi davvero non sospetti.

    Un vero e proprio visionario, le cui idee furono largamente riprese da una nutrita schiera di scrittori

    Lo scienziato rabbino

    Agrest deve essere ricordato per essere stato tra i primi scienziati a divulgare la tanto discussa teoria degli antichi astronauti. Insomma, almeno un decennio prima che identiche ipotesi fossero poi riprese, sviluppate e sfruttate anche da scrittori senza scrupoli.

    Qualcuno di voi ricorderà che il nome di questo sconosciuto Agrest compariva qua e là nei lavori di Peter Kolosimo ma non tutti conoscono la vita dell’accademico. Vale la pena porre rimedio, anche se in forte ritardo.

    Nato da famiglia ebraica il 20 luglio 1915 a Mogilev, nel villaggio di Knyazhitsy, in Bielorussia, nel 1929 divenne rabbino e, mentre lavorava in fabbrica, riuscì a frequentare la scuola secondaria, diplomandosi cinque anni dopo. S’iscrisse poi alla facoltà di matematica e meccanica dell’Università di Leningrado. Laureatosi, entrò nella Graduate School of Astronomical Institute di Mosca, dipartimento di meccanica celeste. Qui incontrò e face amicizia con l’astrofisico Joseph Samuilovich Sklovskij, membro dell'Accademia delle Scienze. In questo frangente Agrest studiò le caratteristiche meccaniche del movimento degli anelli di Saturno.

    Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, egli si ritrovò mobilitato e di stanza a Gorky al comando di un plotone di sbarramento. Durante un temporale un fulmine colpì la mongolfiera ove si trovava e, a causa dell’incendio, Agrest rimase ferito: questo imprevisto gli permise, se non altro, di completare gli studi universitari.

    Lavorò quindi presso l’Istituto di Chimica e Fisica aggregato al progetto atomico del gruppo Zel’dovich, ove fu incaricato di eseguire i calcoli dei processi esplosivi.

    Dal 1948 Agrest cominciò a lavorare al KB-11, nel villaggio che in seguito divenne noto come Arzamas-16. Si trattava di un’installazione segreta nei pressi dell’attuale villaggio di Sarov, il cui laboratorio di ricerca e progettazione, in cui dal 1946 i russi stavano sviluppando il progetto della fissione nucleare per una bomba termonucleare, era diretto dal fisico Yuly Borisovich Khariton. Tre anni dopo, convocato dai superiori, Agrest fu licenziato. Lo scienziato non volle mai parlare dei motivi dell’allontanamento, avvenuto probabilmente per l’educazione religiosa ricevuta.

    All’epoca, avendo una famiglia numerosa e versando in precarie condizioni economiche, gli vennero in soccorso alcuni colleghi che avevano lavorato con lui al progetto dell’atomica, tra cui Andrei Sacharov, che gli permise di occupare il suo appartamento a Mosca per circa sei mesi. Mentre la famiglia si trasferiva in Abkhazia, Agrest lavorò (fino al 1960) presso l’istituto fisico/tecnologico di Sukhumi (SFTI), in un sobborgo di Sinup, all’interno di un laboratorio ove un’equipe di scienziati russi e tedeschi, praticamente segregati, portavano avanti le sperimentazioni connesse all’utiliz-zo militare dell’energia atomica.

    Egli balzò alle cronache nel 1959 quando sostenne che i terrazzamenti di pietra del sito archeologico di Baalbek potevano essere stati utilizzati per il lancio di navicelle spaziali.

    Baalbek, di cui ho già scritto nel 2009 in Tracce d’eternità, è un’area archeologica distante circa settanta chilometri da Beirut, nelle immediate vicinanze della pianura della Beqa’a in Libano.

    Si ritiene risalga approssimativamente al 3000 a.C.; tracce dei primi insediamenti sono databili al 1800 a.c., anche se la presenza dell’uomo risulta già mille anni prima.

    I terrazzamenti cui si riferiva Agrest fanno parte di una piana artificiale rialzata di nove metri rispetto al terreno circostante. I blocchi sono lunghi nove metri circa, con una larghezza e uno spessore di due. Il peso di ciascun blocco è di almeno cinquecento tonnellate. Stime recenti ci dicono che il materiale utilizzato è superiore a quello impiegato per la Grande Piramide d’Egitto.

    Questi blocchi sono stati estratti e lavorati in un paio di cave situate a pochi chilometri di distanza, in una delle quali è ancora posta quella che è chiamata Hajar el Gouble, comunemente indicata come La pietra del Sud, a forma di parallelepipedo, ancora attaccata alla vena. Questo blocco è immenso, con una lunghezza di ventuno metri, dieci d’altezza e più di quattro di spes-sore. Il suo peso stimabile è di milleduecento tonnellate.

    Le costruzioni a Baalbek non furono mai completate e i lavori bruscamente interrotti, come dimostra La pietra del Sud, abbandonata all’interno della cava.

    Sembrerebbe quindi che la piattaforma non sia mai stata terminata dai suoi costruttori, che abbandonarono il progetto originale.

    Un’attenta osservazione del sito permette di notare che il muro che sorge a sud est è costituito da nove blocchi che hanno dimensioni molto ridotte (anche se hanno un peso di circa trecento tonnellate ciascuno) rispetto alle altre pietre. Inoltre, questi nove blocchi non sono accoppiati perfettamente come gli altri e il loro taglio dimostra una minor perfezione rispetto alle pietre adiacenti.

    L’ipotesi plausibile è che si sia tentato di portare a termine l’opera interrotta da qualcun altro, utilizzando pietre più piccole. Lo strato superiore della superficie della Grande Corte presenta un livello di pietra vetrificata, come se fosse rimasta esposta a una gran fonte di calore.

    Baalbek è considerata ancora oggi un centro religioso, così la pensavano anche i Fenici, i Romani e i Greci che, gli uni dopo gli altri, edificarono sulle rovine precedenti, sopra la piattaforma, i loro templi dedicati agli dei (a dir la verità la divinità principale era sempre lo stessa poiché Giove è assimilabile a Zeus e a Baal).

    Qua veniva in pellegrinaggio gente proveniente dalla Mesopotamia e dall’Egitto. Secondo le credenze che ci vengono da antiche fonti di lingua araba, la piattaforma sarebbe opera del gran re Nemrod (ne parla anche il Genesi) che, subito dopo il diluvio, avrebbe inviato sulla terra dei giganti per costruire una fortezza in onore a Baal, Dio del Sole, e di Astarte. A dirla tutta, le versioni sono assai discordanti tra loro se è vero che questo Nemrod avrebbe edificato anche la Torre di Babele perché in contrasto con il suo dio e Abramo, e prima di eclissarsi in cielo su un cavallo di fuoco avrebbe incenerito i sacerdoti di Baalbek.

    Altre fonti, quelle per esempio riconducibili al geografo Al Idrisi (XI secolo d.C.), riferiscono che il Grande Tempio fu costruito da re Salomone, probabilmente per la figlia del Faraone.

    Stando a questi resoconti, Baalbek potrebbe essere l’antica Baalath di cui parla anche la Bibbia nel Libro dei Re mentre l’Antico Testamento non ne fa menzione. Al-Qazwini Zakariya Ibn Muhammad, nella sua Cosmologia, oltre a parlare di Salomone, afferma che Baalbek ha a che fare anche con Balkis, la leggendaria regina di Saba. Se il nome di Salomone è in qualche modo connesso a Baalbek, allora sarebbero stati i suoi numi tutelari, i Djinn, a cimentarsi nella costruzione dei monoliti.

    Tornando a noi, Agrest andò oltre, aggiungendo che la distruzione delle bibliche città di Sodoma e Gomorra era da attribuirsi a un’esplosione atomica provocata intenzionalmente da esseri provenienti da un altro pianeta. Stando al contenuto dell’Antico Testamento, sarebbero stati gli angeli chiamati Malachim, messaggeri della suprema divinità e con compiti d’intermediazione tra questa e gli umani, ad avvertire Lot che Yahweh avrebbe distrutto Sodoma e Gomorra, poiché assieme ad Adma, Zoar e Zeboim, tutte cittadine di pianura a nord del Mar Morto, avevano abbandonato il cosiddetto ‘patto dell’Eterno’ siglato dopo la fuoriuscita dall’Egitto.

    Il Libro del Genesi, in alcuni versetti del capitolo 19, nel testo reso disponibile dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), narra di questi avvenimenti, culminati con l’azione di Yahweh, cioè l’incenerimento completo di queste cittadine con una pioggia di fuoco e zolfo. Agrest scrisse che «prima di

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