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I Longobardi. Un popolo alle radici della nostra Storia
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E-book298 pagine3 ore

I Longobardi. Un popolo alle radici della nostra Storia

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La vicenda del Longobardi, per quanto durò nel complesso “solo” due secoli (568-774),ebbe un impatto decisivo sulla storia italiana. La loro influenza fu duratura nelle istituzioni politiche, negli usi e nel diritto e il loro retaggio è ancora oggi percepibile nella lingua che parliamo, nonché nei monumenti – chiese, monasteri, edifici pubblici – che costruirono, la cui importanza è stata riconosciuta con l'inserimento, nel 2011, del sito seriale “I Longobardi in Italia. I luoghi del potere (568-774 d.C.)” nella Lista del Patrimonio Mondiale dell'Unesco. La loro fu una invasione improvvisa e violenta o, piuttosto, una migrazione progressiva? Si trattava davvero di una stirpe granitica e vicina alla “barbarie primitiva”, o un popolo che seppe adattarsi e trasformarsi “sul campo”? Riuscendo nella difficile opera di sintesi tra eredità classica e nuovi apporti “barbarici”, i Longobardi risultarono decisivi come “ponte” tra Mediterraneo e nord Europa, facendosi nel contempo protagonisti dei vasti cambiamenti geopolitici che, agli albori del Medioevo, hanno costituito la base per la formazione della futura identità del Continente. Questo libro ripercorre, con un linguaggio semplice e accessibile, l'epopea longobarda alla luce delle più aggiornate acquisizioni del dibattito storiografico e dei più recenti ritrovamenti archeologici.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita3 nov 2020
ISBN9788836160532
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    Anteprima del libro

    I Longobardi. Un popolo alle radici della nostra Storia - Elena Percivaldi

    PARTE PRIMA

    LE VICENDE STORICHE

    Il mistero delle origini

    C’è un’isola nelle regioni settentrionali chiamata Scadanan, che letteralmente significa strage, in cui vivono molte genti. Tra queste ve n’era una piccola, che era chiamata stirpe dei Winnili. Tra loro v’era anche una donna di nome Gambara che aveva due figli: Ibor era il nome del primo e Aio quello del secondo. Insieme i tre avevano il comando sui Winnili. Accadde dunque che i capi dei Vandali si misero in marcia con il loro esercito e intimarono ai Winnili: «Versateci i tributi o preparatevi alla guerra e combattete contro di noi». Al che Ibor e Aio insieme alla madre Gambara risposero: «È meglio per noi prepararci a combattere piuttosto che versare dei tributi ai Vandali». Allora i capi dei Vandali pregarono Godan perché concedesse loro la vittoria sui Winnili. Godan rispose dicendo: «Concederò la vittoria ai primi che vedrò al sorgere del sole». Nello stesso tempo Gambara e i suoi due figli invocarono Frea, moglie di Godan, affinché proteggesse i Winnili. Frea consigliò loro di presentarsi al sorgere del sole, e che venissero insieme ai mariti anche le mogli con i capelli sciolti intorno al viso come se avessero la barba. Al primo albeggiare, proprio mentre il sole sorgeva sull’orizzonte, Frea girò il letto su cui dormiva il marito e lo rivolse a Oriente e poi lo svegliò. Godan, aperti gli occhi, vide i Winnili e le loro mogli con i capelli sciolti intorno al viso, e disse: «Chi sono queste lunghe barbe?» E Frea rispose: «Così come hai imposto loro un nome, concedi loro anche la vittoria». E da quel momento i Winnili presero il nome di Longobardi.

    Questo breve racconto leggendario apre l’Origo gentis Langobardorum (Origine del popolo longobardo), uno dei più importanti documenti storici che riguardano i Longobardi. Esso sarà ripreso nell’VIII secolo dal più eminente cronista di quest’epoca, Paolo Diacono, quando narrerà i primi passi del suo popolo nella Storia. In base ai due testi, che incontreremo molte volte nel nostro racconto, i Longobardi sarebbero dunque originari della Scandinavia e il nome che si erano imposti era Winnili, con significato probabile di combattenti. Da qui, un terzo della gens si sarebbe spostata verso sud-est in cerca di nuove terre finendo per scontrarsi con un’altra popolazione germanica, i Vandali. La vittoria fu loro concessa dal dio della guerra Godan, figura che nel pantheon nordico è assimilabile a quella di Wotan/Odino, e con essa anche il nome con cui da quel momento in poi sarebbero passati alla storia: Longobardi.

    Rimodulato da un conflitto e da un trionfo militare, il popolo delle lunghe barbe non poté che connotarsi per la grande bellicosità, una caratteristica che in effetti diverrà parte integrante della loro stessa identità tribale, e che come tale sarà percepita anche dai cronisti latini e greci quando questi li incontreranno e li descriveranno, qualche secolo dopo, per la prima volta.

    Questione di identità

    Chi erano questi Lungibarbi? È una domanda alla quale è molto difficile, e forse impossibile, dare una risposta univoca. Nonostante in questi ultimi anni le nostre conoscenze si siano arricchite grazie a molte scoperte archeologiche, i Longobardi rappresentano un’entità ancora sfuggente. Le fonti antiche che parlano di loro sono scarse e quando lo fanno si richiamano al mito e alla leggenda; d’altra parte, gli stessi ritrovamenti che li riguardano, specie i corredi funebri, pongono sul banco numerosi problemi interpretativi, tanto da aver indotto alcuni studiosi a negare con forza la possibilità di poterli utilizzare come marcatori etnici (ethnic markers) in grado di definire automaticamente e con certezza l’etnia dell’individuo che tali oggetti accompagnavano nell’Aldilà.

    Negli ultimi decenni è stata progressivamente accantonata l’idea, cara alla storiografia tradizionale, che la gens Langobardorum – ma il discorso vale anche per le altre popolazioni barbariche – fosse un gruppo etnicamente chiuso e omogeneo, chiaramente identificabile e nettamente distinguibile dagli altri. Oggi buona parte degli storici sono convinti piuttosto che le varie stirpi gravitanti nel Barbaricum – il termine, utilizzato nel IV secolo da Ammiano Marcellino e da Eutropio, indica genericamente i territori oltre il limes (confine) Reno-Danubiano – siano da interpretare come etnie aperte frutto di assorbimenti, smembramenti e ricomposizioni continue. A mantenere uniti e coesi tali agglomerati e renderli omogenei sarebbe stata la capacità dei gruppi dominanti di costruire un nucleo di leggende e tradizioni, fatte risalire a un passato ancestrale e mitico, che giustificasse e insieme legittimasse la loro leadership. Questo processo di etnogenesi, ovvero di creazione dell’identità dei popoli cosiddetti barbarici, si sarebbe compiuto solamente al momento o dopo il contatto con il mondo romano, per reazione, allo scopo di possedere una base ideologica sufficiente grazie alla quale poter competere con la sua forza.

    Di ciò sarebbe indizio, nel caso dei Longobardi, la stessa Origo gentis Langobardorum, composta sulla base di fonti orali per riaffermare il mito delle origini e le antiche storie come fattore fondante e identitario. Essa fu effettivamente messa per iscritto verso la metà del VII secolo, nel momento cioè in cui i Longobardi, ormai da oltre un secolo stanziati nella penisola, si stavano pian piano assimilando ai conquistati adottandone la religione cattolica e la lingua latina: lo scopo dell’opera poteva quindi essere quello di richiamare espressamente le leggende delle origini, nucleo fondante e identitario della gens, per evitare che fossero accantonate e dimenticate. Ulteriore prova di ciò sarebbe il fatto che in alcuni manoscritti, tutti posteriori al X secolo, l’Origo viene aggiunta a mo’ di prologo all’Editto di Rotari, la raccolta di leggi realizzata nel 643 con l’evidente intento – lo vedremo a suo tempo – di compattare il popolo longobardo alla vigilia di un’impegnativa campagna militare contro i possedimenti bizantini in Italia.

    Seguendo questa interpretazione, anche lo scontro tra barbari e romani sarebbe stato assai meno violento ed epocale di quanto non si sia ritenuto, essendo il dialogo tra le due entità cominciato già lungo il limes attraverso reciproche contaminazioni: mentre le élite barbariche assimilavano le ideologie del potere e le iconografie tipiche del mondo romano-bizantino, l’impero adottava alcuni aspetti relativi alle loro tecniche di combattimento e al loro abbigliamento. Più che un subitaneo e drammatico scontro di civiltà, riassunto nella visione apocalittica dell’impero travolto dalle orde barbariche diffusasi dalla fine del Settecento con l’opera di Edward Gibbon, quella consumatasi tra Tardoantico e Alto Medioevo sarebbe in realtà una grande e progressiva trasformazione in cui le istituzioni imperiali, nel segno della continuità e non della rottura, sarebbero soltanto mutate in misura variabile a seconda dei contesti, dando vita a uno scenario storico nuovo.

    Tutte queste teorie, va detto, non sono accettate in toto dall’intera comunità scientifica e anzi non hanno mancato di generare un ampio e appassionato dibattito, tuttora in corso. Molti studiosi, infatti, rifiutano la possibilità di ridurre i rapporti tra i due mondi a un mero calcolo politico da parte delle rispettive élite, rimarcando come invece i barbari possedessero un’autocoscienza collettiva condivisa ben prima del momento in cui entrarono in contatto con il mondo romano-bizantino e che essi percepissero – e ostentassero anche con un certo orgoglio – il fatto di sentirsi diversi. Per quanto riguarda i Longobardi, una prova di ciò starebbe nel fatto che gli stessi scrittori antichi – Strabone, Tacito, Velleio Patercolo: siamo a cavallo dell’era cristiana – li definissero già con il loro nome caratterizzante, Longobardi.

    Pur essendo sicuramente un popolo permeabile a incontri, scontri e contaminazioni con genti diverse e modificatosi nel corso dei secoli, i Longobardi esistevano come popolo ed erano riconoscibili come tali (avendolo presente essi stessi) sin da un’epoca ben più remota. Anche i loro corredi funebri, di conseguenza, assumerebbero un valore caratterizzante, in quanto distintivo di un gruppo barbarico (o di più gruppi aperti). Un gruppo che, proprio in quanto allogeno, voleva autorappresentarsi in maniera chiara come peculiare e diverso rispetto al modello romano-bizantino. Infine, sempre in base a questa interpretazione delle dinamiche storiche, gli stessi concetti di transizione e trasformazione nel segno della sostanziale continuità tra mondo antico e Medioevo sarebbero fortemente da ridimensionare in quanto dettati dalla preponderante attenzione riservata, da parte del filone di studio continuista, agli aspetti politico-istituzionali e religiosi a scapito delle testimonianze relative agli insediamenti e alla cultura materiale. Proprio questi ultimi, invece, dimostrerebbero la frattura evidente che si consumò con l’ingresso dei barbari nell’impero.

    Sintetizzando con Franco Cardini,

    dinanzi a noi si squaderna un mondo, quello grosso modo tra V e VIII-IX secolo, in cui la produzione seriale di oggetti di buona qualità, destinati a una società caratterizzata da un’alta qualità della vita, cede alla rozzezza e alla povertà; un mondo nel quale si perdono le capacità costruttive e gli edifici, anche i più importanti, divengono piccoli e maldestramente costruiti, quasi rifugi tirati su con pietre di riporto; un mondo nel quale le città si contraggono e tendono a scomparire e la gente si abitua a vivere tra i ruderi, mentre la violenza e l’insicurezza trionfano al punto che proprio da esse nascerà la nuova civiltà feudo-vassallatica fondata, più che sul vivere, sul sopravvivere. Ci vorranno ancora molte generazioni, un deciso miglioramento climatico e un forte contatto con il mondo orientale prima che questa lunga crisi di civiltà dia l’avvio a una nuova sintesi.

    Va in ogni caso sottolineato che tale decadenza e impoverimento iniziò certamente con le invasioni barbariche, ma non a causa di esse, giacché quando i barbari fecero il loro ingresso nell’impero il processo di destrutturazione della civiltà romano-occidentale, avviato nel III secolo con la crisi economica e poi demografica, era già giunto a un punto di non ritorno.

    Primi passi nella nebbia

    Una cosa è certa: le leggende a proposito dell’origine scandinava dei Longobardi non trovano, almeno fino ad ora, adeguati riscontri archeologici. E anche i primi passi della loro migrazione continuano ad essere incerti e oscuri, in quanto per nulla o quasi documentati dalle testimonianze scritte. Assumendo di identificare Scadanan con la regione della Scania (Scandinavia meridionale), si può supporre che i Winnili sbarcarono nella dirimpettaia isola di Rügen (paese degli scogli: la Scoringa di Paolo Diacono) e qui si scontrarono, siamo intorno al I secolo a. C., con i Vandali, assumendo il nome di Longobardi e cambiando il loro assetto tribale attraverso l’assunzione del culto odinico, di matrice guerriera.

    Da Scoringa, sempre seguendo il resoconto di Paolo, i Longobardi riuscirono a oltrepassare lo sbarramento imposto da un altro popolo, gli Assipitti, facendo loro credere di poter contare sull’apporto dei terribili cinocefali, spietati guerrieri con la testa di cane (una questione che analizzeremo più avanti) per entrare in Mauringa, la terra delle paludi, da identificare presumibilmente con la regione dei laghi del Meclemburgo occidentale. Il ricorso ai cinocefali, così come era avvenuto per le donne barbute, evidenzia la scarsità di numero dei Longobardi, che dovettero quindi provvedere, nel corso dei loro spostamenti, a rimpinguare il proprio organico ricorrendo a vari espedienti: dalla liberazione degli schiavi, che comportava l’acquisizione del diritto di portare le armi, all’aggregazione e integrazione di elementi esterni rispetto al gruppo, provenienti da altre tribù e dai nemici sconfitti, secondo una prassi adottata anche dalle altre stirpi barbariche durante l’età delle migrazioni. A garantire un’identità unitaria nonostante i mutamenti era, come abbiamo anticipato, la condivisione di alcuni valori caratterizzanti a cominciare dalla saga, la storia della stirpe, custoditi – per citare Claudio Azzara – «nel cosiddetto nucleo della tradizione, depositario dei principi identitari del gruppo».

    Dopo un breve stanziamento in Mauringa, i Longobardi si trasferiscono in Golanda, con molta probabilità la Bassa Sassonia, zona di Lüneburg (regione di Bardengau), lungo l’Elba. E qui finalmente la loro permanenza è attestata da vari ritrovamenti archeologici, che mostrano come i Longobardi abbiano iniziato a praticare, accanto alle razzie, anche l’agricoltura e l’allevamento, la lavorazione dei metalli e la produzione di ceramica. Sempre in tale contesto, e sempre per la prima volta, vengono anche menzionati dalle fonti antiche: Tacito, Tolomeo e Velleio Patercolo. Quest’ultimo in particolare ricorda come, nel 5 d. C., Tiberio li ricacciò oltre la riva destra dell’Elba, e nel descriverli ne parla come di una «gens germana feritate ferocior», un popolo più feroce della ferocia germanica, mettendone in luce i tratti giudicati rozzi e barbarici. Questo appunto è forse dovuto al fatto che, tra le tante stirpi allogene con cui Roma si era rapportata, i Longobardi erano tra quelle che, a causa della loro lontananza dal limes, avevano avuto meno contatti in assoluto con l’impero. A ogni buon conto, le dure parole di Velleio Patercolo stabiliranno una specie di cliché destinato, come vedremo, a ritornare altre volte nelle vicende dei Longobardi, sia prima che dopo la conquista dell’Italia.

    Nel III secolo l’Historia Augusta menziona i Longobardi tra le tribù che nel 166 sfondarono il limes danubiano e che Marco Aurelio dovette affrontare e ricacciare indietro con la forza. Verso la fine del IV secolo, però, una parte di loro iniziò a muoversi verso sud-est seguendo il corso dell’Elba, lasciando il resto della gens nel Bardengau. Alla base dello spostamento c’era senz’altro l’espansione dei Sassoni, che mise i Longobardi nell’urgenza di cercare nuove terre, ma soprattutto c’era la possibilità concreta di fare bottino: nel 378, infatti, l’esercito imperiale aveva subito una disastrosa sconfitta ad Adrianopoli a opera dei Goti, i quali avevano sfondato il limes orientale indebolendone gravemente le difese.

    Il nuovo viaggio portò i Longobardi, secondo Paolo Diacono, a toccare in tre successive tappe territori che egli chiama Anthaib, Bainaib e Burgundaib. L’esatta individuazione di questi luoghi è assai difficile. Se, come sembra, -aib sta per distretto, la maggior parte degli studiosi, anche tenendo conto dei ritrovamenti archeologici, tende a identificarli rispettivamente con l’Hannover orientale – è però dubbio se il nome derivi dall’antico alto tedesco anti, confine, o da quello della popolazione degli Anti, che però sembrerebbe attestata troppo ad est rispetto al percorso indicato da Paolo –, la Boemia orientale – distretto dei Bani – e il Brandeburgo e la Lusazia – distretto dei Burgundi. Infine, intorno al 488, guidati dal loro re Godeoc, i Longobardi giunsero a occupare il Rugiland, le terre dei Rugi, appena annientati da quell’Odoacre che, nel frattempo (476), aveva assunto il potere in Italia detronizzando il giovane Romolo Augustolo e inviando a Costantinopoli le insegne imperiali.

    Poco tempo dopo, il nuovo re Tatone li conduce nel Feld (Marchfeld, a est di Vienna): qui vengono dapprima resi tributari dagli Eruli ma poi, ribellatisi al loro controllo, li annientano quasi completamente in battaglia uccidendone il re Rodolfo e rimanendo in tal modo padroni del medio corso del Danubio. L’ascesa dei Longobardi ormai pare inarrestabile. Nei successivi decenni, dominati dalla figura di re Vacone, sottometteranno gli Svevi, stanziati nei territori delle ex province Valeria e Pannonia Prima – odierna Ungheria – e riusciranno a imporre la loro egemonia sulle altre popolazioni locali grazie all’intelligente politica di alleanze matrimoniali perpetrata dallo stesso sovrano. Lo stesso Vacone impalmerà nell’ordine le figlie del re dei Turingi, dei Gepidi e degli Eruli, garantendosi la protezione dei confini del regno e potendo contare sull’apporto di nuovi gruppi di guerrieri per rimpinguare il proprio esercito, mentre concederà in spose le due figlie ai Franchi, alleandosi con una popolazione in forte ascesa sullo scacchiere europeo occidentale.

    Una serie di accordi stipulati con l’impero bizantino andranno a completare il quadro di un’entità, quella longobarda, che nel V secolo appare ormai in grado di controllare una compagine territoriale estesa dall’area boema alla Pannonia, affermatasi in maniera decisa e ineludibile sullo scenario geopolitico del tempo.

    Il crogiolo pannonico

    La presenza dei Longobardi nell’Europa centro-orientale si consolidò ulteriormente durante il regno di Audoino (547-560), quando l’imperatore Giustiniano assegnò loro in qualità di foederati (alleati) altri territori nelle province della Pannonia Savia (o Ripensis) e del Norico, corrispondenti a parte della Croazia, alla Carinzia e a parte della Slovenia. È questo il momento in cui iniziano ad occuparsi di loro le fonti di area bizantina, come Jordanes e Procopio di Cesarea, riportando il momento in cui i Longobardi entrarono per la prima volta in contatto, in maniera apprezzabile, con il mondo mediterraneo. L’ulteriore allargamento dei domini longobardi, però, finì per turbare il faticoso equilibrio raggiunto con le altre popolazioni stanziate verso l’area balcanica, e in particolare con i Gepidi, che iniziarono a sentirsi minacciati.

    Le tensioni sfociarono in aperto conflitto quando i bizantini, applicando il classico principio del «divide et impera», decisero dopo vari abboccamenti e ambascerie di sostenere i Longobardi. Nello scontro che ne seguì, combattuto nel 551 probabilmente nei pressi di Sirmio, Audoino riuscì infine ad avere la meglio quando Turismondo, figlio del re dei Gepidi Turisindo, venne ucciso sul campo da Alboino, figlio dello stesso Audoino. L’episodio, riportato da Paolo Diacono, fornisce alcuni dettagli interessanti. Il cronista racconta infatti che i Longobardi chiesero ad Audoino di festeggiare la vittoria ammettendo Alboino alla sua tavola, ma egli rispose che ciò non era possibile in quanto «non è consuetudine presso di noi che il figlio del re mangi con il padre, se prima non ha ricevuto le armi dal re di una nazione straniera». Al che Alboino, radunati quaranta dei suoi, si recò da Turisindo il quale, ricevutolo a banchetto, dopo aver stemperato un difficile momento di tensione «si alzò, prese le armi del figlio Turismondo, le consegnò ad Alboino e lo rimandò incolume e in pace nel regno del padre», conferendo in tal modo ad Alboino la possibilità di essere ammesso al desco paterno.

    Questo episodio, i cui significati profondi ormai sfuggivano a Paolo nel momento in cui scriveva, denota chiaramente come in quest’epoca fosse ormai avviato il processo di costruzione della monarchia, un’istituzione che per i Longobardi delle origini e per gran parte dell’epoca delle migrazioni era rimasta alquanto sfuggente. Per le popolazioni germaniche di stampo tribale, infatti, il sovrano non costituiva una presenza abituale ma veniva eletto dal gairethinx, l’assemblea del popolo-esercito di uomini liberi armati, soltanto in caso di pericolo e di necessità, come in occasioni di spostamenti di massa o campagne militari.

    Verso l’Italia

    Il patto stipulato tra Audoino e Giustiniano prevedeva, come d’abitudine, che in cambio delle terre i federati fornissero all’impero bizantino prestazioni militari in caso di guerre. Per ottemperare a tale obbligo, ma anche per ricambiare il sostegno ricevuto nel contenzioso con i Gepidi, i Longobardi combatterono come alleati al fianco di Costantinopoli in Persia contro i Sasanidi e in Italia nelle fasi finali della guerra mossa da Giustiniano contro il regno ostrogoto d’Italia (535-553), dando un apporto decisivo nello scontro di Tagina – nei pressi di Gualdo Tadino, in Umbria – che nel 552 mise l’ipoteca sulla riconquista della penisola da parte del generale Narsete. Il comandante bizantino cercò poi di trattenere almeno una parte dei guerrieri longobardi, potenzialmente utili in caso di ulteriori interventi, dirottandoli verso il Mezzogiorno, mentre la componente giudicata più irrequieta e pericolosa – Procopio la definisce «indisciplinata, violenta e dai costumi indegni»: ecco di nuovo il cliché sulla ferocia dei Longobardi – fu allontanata e probabilmente ricacciata oltre confine orientale, dove raggiunse il resto della gens.

    Alla morte di Audoino, però, la situazione iniziò rapidamente a deteriorarsi a causa dei rapporti tesi che andarono creandosi tra il suo successore sul trono dei Longobardi, il figlio Alboino, e il nuovo re dei Gepidi Cunimondo, di cui pure – dopo la morte della prima moglie Clodosvinta, figlia del re franco Clotario I – Alboino aveva sposato la figlia Rosmunda. Tali tensioni furono sicuramente favorite dalla scomparsa di Giustiniano, artefice fino a quel momento di una politica volta al mantenimento degli equilibri con e tra le popolazioni dell’area danubiana. Ma è anche possibile che la morte di

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