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La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa"
La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa"
La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa"
E-book426 pagine5 ore

La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa"

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Info su questo ebook

«Quello che ne La ‘Santa’ violenta era indagine, è diventato sentenza. Quello che era intuizione è diventato analisi. Quello che era rischio è spesso diventato realtà…». La ‘Santa’ violenta è stato uno dei primi testi sulla ’ndrangheta, pubblicato nel 1991, dopo la stagione dei sequestri di persona e la cosiddetta “pax mafiosa”. Ripercorre con lucidità, empatia e spunti critici, quella che è stata la trasformazione della ’ndrangheta in Santa, un’organizzazione criminale che non si accontenta più dell’accumulazione di denaro, ma vuole usare quel denaro per conquistare fette di potere, politico ed economico, in Calabria e altrove. Questa trasformazione, ci racconta Pantaleone Sergi, è stata certamente violenta. Trent’anni dopo, alla penna esperta di Pantaleone Sergi, che la storia della ’ndrangheta negli anni Settanta, Ottanta e Novanta l’ha narrata in diretta, si accompagna un’analisi critico-accademica di Anna Sergi, criminologa, docente all’Università di Essex nel Regno Unito, e affermata ricercatrice del fenomeno mafioso e ’ndranghetista in Italia e all’estero. Anna Sergi riprende l’eco della violenza mafiosa che La ‘Santa’ violenta aveva raccontato e si chiede cosa sia cambiato. La Santa ’ndrangheta è ancora violenta? Adesso «la ’ndrangheta è una mafia a cui piace piacere, non spaventare, se non quando è strettamente necessario». E se non è più violenta, cosa fa, cosa è diventata? È diventata, tra le altre cose, una Santa ‘contesa’ per quattro motivi: l’unitarietà, la violenza dei clan, la loro mobilità e l’essenza stessa della Santa, come organizzazione cerniera con politica ed economia del territorio. Queste pagine – la Santa ‘contesa’ e la Santa ‘violenta’ – lette in successione, ci ricordano quanto sia fondamentale preservare la memoria storica di certi anni per arricchire le analisi di oggi.
LinguaItaliano
Data di uscita12 lug 2021
ISBN9791220500241
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    Anteprima del libro

    La Santa 'Ndrangheta. Da "violenta" a "contesa" - Sergi Pantaleone

    Ossidiana

    Teoria cultura e vita quotidiana

    Collana diretta da Olimpia Affuso e Sonia Floriani

    14

    Comitato di Direzione:

    Teresa Grande (Università della Calabria)

    Paolo Jedlowski (Università della Calabria)

    Ercole Giap Parini (Università della Calabria)

    Giuseppina Pellegrino (Università della Calabria)

    Comitato Scientifico:

    Ilenya Camozzi (Università di Milano-Bicocca)

    Enzo Colombo (Università Statale di Milano)

    Luca Corchia (Università di Pisa)

    Mariafrancesca D’Agostino (Università della Calabria)

    Maria Grazia Gambardella (Università di Milano-Bicocca)

    Simone Giusti (Associazione L’Altra Città)

    Simona Isabella (Università della Calabria)

    Adele Valeria Messina (Università della Calabria)

    Fedele Paolo (Università della Calabria)

    Angela Perulli (Università di Firenze)

    Paola Rebughini (Università Statale di Milano)

    Rocco Sciarrone (Università di Torino)

    Attilio Scuderi (Università di Catania)

    Redazione:

    Simona Miceli

    Alberto Maria Rafele

    Nella collana Ossidiana Pellegrini Editore pubblica esclusivamente testi originali valutati e approvati dal Comitato Scientifico.

    I volumi sono sottoposti a double-blind peer review.

    ANNA SERGI - PANTALEONE SERGI

    LA SANTA ’NDRANGHETA

    Da ‘violenta’ a ‘contesa’

    Presentazione di

    Enzo Ciconte

    LPE.jpg

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore – Cosenza – Italy

    Stampato in Italia nel mese di giugno 2021

    per conto di Pellegrini Editore

    Via Camposano, 41 – 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 – Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    A Michele Porcelli
    che non c’è più e questo libro lo aspettava.
    Con l’affetto di sempre

    Presentazione

    Il libro che hai in mano è molto particolare, e la sua particolarità è data dal fatto che è originale, anzi è un vero e proprio unicum: è la prima volta che un volume contiene contemporaneamente il testo di uno scritto pubblicato nel 1991, esattamente trenta anni fa, e un testo nuovo scritto da un autore diverso. Che gli autori siano padre e figlia (lui è giornalista, lei è criminologa presso l’Università di Essex nel Regno Unito) è un dato intrigante, suscita curiosità e aggiunge un altro dettaglio alla singolarità di questo libro.

    Il volume del 1991 porta la firma di Pantaleone Sergi ed è oramai un testo classico che con il passare del tempo conferma sempre più la validità delle cose scritte. Quando fu pubblicato non c’erano molti libri sulla ’ndrangheta. Solo alcuni giornalisti, Sharo Gambino e Luigi Malafarina, s’erano cimentati con l’argomento. Il libro di Sergi aveva una profondità di sguardo e di analisi che l’hanno fatto diventare un documento prezioso per conoscere un fenomeno sottovalutato e sconosciuto in Italia e in larga parte della stessa Calabria dove prevaleva l’idea che fosse solo una questione che riguardava l’Aspromonte o la sola provincia di Reggio Calabria.

    Sembra un’epoca lontana, eppure sono trascorsi pochi decenni dai fatti raccontati, e ora Anna Sergi aggiunge cosa è successo in questi trenta anni. La riproposizione del libro del 1991 è molto utile perché fa conoscere ai giovani e a chi non s’è mai occupato di queste problematiche una realtà drammatica e molto violenta. Le quattro guerre di ’ndrangheta è il titolo di un denso capitolo del libro che spiega le differenze e le ragioni dei diversi conflitti e dei morti disseminati anno dopo anno. Già nelle prime pagine del libro c’è un giudizio netto sulla violenza di una ’ndrangheta selvaggia che ha mutato segno e s’è ancor di più inselvatichita fino al punto da non avere più rispetto neanche per i morti: «la violenza dei nuovi mafiosi si esercita anche contro chi sta in una tomba».

    L’episodio che viene raccontato è la riprova di una mutazione profonda della ’ndrangheta. Nel novembre del 1982 nel cimitero di Reggio Calabria viene trafugata la salma del boss Ciccio Canale ucciso pochi mesi prima a colpi di lupara. In una notte di novembre la bara del boss fu tolta dalla tomba di famiglia, «uno sfregio anche post-mortem per colui che era stato uno dei più potenti e temuti capimafia del Reggino». Perché don Ciccio Canale ebbe quel trattamento? Perché «negli ultimi anni di vita fu un capobastone visto come il fumo negli occhi dalle cosche emergenti, che, sempre più assimilavano lo stile di Cosa Nostra e andavano mutuando gesti e costumi del gangsterismo internazionale». Né quello fu l’unico episodio, perché qualche anno dopo nel piccolo cimitero di Limbadi, «un centro agricolo in provincia di Catanzaro che si affaccia sulla Piana di Gioia Tauro, un gruppo di persone, agendo anche qui col favore delle tenebre, dissotterrò e bruciò la bara con i resti di un maresciallo dei carabinieri, Saverio Laganà, comandante di una celebre squadra antimafia che da lui aveva preso il nome».

    All’epoca la violenza era un dato strutturale, un elemento caratterizzante di tutte le mafie (e la ’ndrangheta non era seconda a nessuno) al punto che si faceva l’equazione: mafia uguale violenza; senza violenza non c’è mafia. La violenza era uno strumento, uno dei tanti, con cui la ’ndrangheta cercava di affermare il suo potere e di esercitare un controllo sulla società.

    Oramai le nuove leve erano entrate nel business della droga che avrebbe portato nelle casse delle ’ndrine una quantità di denaro come mai s’era visto prima. Entrare nell’affare della droga rappresentava un mutamento epocale che ebbe conseguenze profondissime nel modo d’essere e di agire dei malandrini imponendo loro una rotta diversa sia sul piano organizzativo sia sul piano dell’espansione territoriale. Sono anni di grande trasformazione che spingono la ’ndrangheta a fare un salto di qualità: entrare nelle logge massoniche deviate per potere avere rapporti diretti con uomini potenti del mondo economico, delle forze dell’ordine, della magistratura. Fu talmente ampia la presenza ’ndranghetista nelle logge che si avvertì la necessità di creare un livello più elevato che raccogliesse l’élite, i capi più potenti, gli intoccabili. Questo nuovo livello fu denominato Santa. E Santa compare per la prima volta come titolo del libro di Sergi con la specificazione di violenta, La ‘Santa’ violenta. All’epoca erano davvero in pochi a capire l’esatto significato ed importanza del titolo anticipatore che faceva mostra di sé, in bella evidenza, nella copertina gialla con un bel rosso amaranto.

    Sfogliando il libro vengono incontro i tanti sequestri di persona, il calvario di Angela Casella, soprannominata mamma coraggio per la sua ostinazione a cercare aiuto per liberare il figlio in mano alla ’ndrangheta. Sono pagine vivide, scritte con uno stile coinvolgente che danno l’idea di quello che stava succedendo giorno dopo giorno. Sono un documento prezioso, quelle pagine, per chi voglia rivivere quel periodo. I giovani scopriranno un mondo sconosciuto, i meno giovani saranno indotti a ricordare fatti, emozioni, il clima plumbeo di quegli anni.

    Ma cos’è successo alla fine di quella stagione? Come è mutata – se è mutata – la ’ndrangheta negli ultimi trent’anni? La risposta la dà Anna Sergi. E la prima risposta è questa: «Quello che ne La ‘Santa’ Violenta era indagine, è diventato sentenza. Quello che era intuizione è diventato analisi. Quello che era rischio è spesso diventato realtà». È una sintesi efficace. La prima novità che balza in piena evidenza è la scomparsa della violenza. Dei duemila morti ammazzati negli ultimi venti anni, quelli che arrivano fino al 1991 non rimaneva più nulla. Adesso «la ’ndrangheta è una mafia a cui piace piacere, non spaventare, se non quando è strettamente necessario». È un capovolgimento totale rispetto al passato che ha determinato una grande opera di mimetizzazione che avviene in Calabria e nelle sedi delocalizzate del Centro-Nord e dei paesi stranieri dove s’è impiantata senza suscitare, se non in casi eccezionali, allarme sociale e attenzioni delle forze dell’ordine e della magistratura.

    Perché avviene e, soprattutto, quando? La svolta si può collocare proprio nel 1991 quando fu ucciso il giudice di Reggio Calabria Antonino Scopelliti la cui morte era stata chiesta da Totò Riina perché temeva che potesse portare l’accusa in Cassazione quando si sarebbe trattato del maxiprocesso di Palermo, quello istruito dal pool di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta; in cambio i siciliani si impegnavano a porre fine alla guerra tra le famiglie mafiose facendo da mediatori tra i vari contendenti. Quando fu ucciso ricordo che io e Pantaleone Sergi eravamo a Catanzaro Lido a presentare proprio il suo libro. Naturalmente quella sera non conoscevamo i motivi che avevano indotto gli ’ndranghetisti ad ammazzarlo. Raggiunta la pace, la ’ndrangheta cambiò pelle e la conseguenza fu l’adozione di uno stile meno violento in conseguenza anche del fatto che dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio del 1992 lo Stato aveva scatenato una vera e propria guerra contro i mafiosi, siciliani in testa.

    Anna Sergi ripercorre tutti i più importanti fatti giudiziari, iniziando da quello più importante di «Olimpia, che portò a processo la Santa – la struttura riservata della ’ndrangheta calabrese, quella evoluta, elevata, imprenditrice, dal colletto bianco e seduta tra le fila del potere – a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila». Da lì sono scaturite indagini importanti che miravano a raggiungere due obiettivi: «primo, provare che le strutture della ’ndrangheta sono unitarie e che la ’ndrangheta è un’organizzazione criminale unitaria, coordinata e soprattutto verticistica. E secondo, che esiste una struttura riservata, fatta di ’ndranghetisti di primo piano, massoni deviati e professionisti, che gestisce il vero potere – politico, finanziario – dei clan calabresi».

    Anna Sergi prende per mano il lettore e lo guida alla ricerca delle trasformazioni della ’ndrangheta lungo un percorso obbligato che necessariamente deve abbandonare la Calabria per arrivare in zone molto lontane, segnate dall’emigrazione, antica e recente, per scoprire il carattere globale della ’ndrangheta. E arriva a una conclusione amara: «tra difficoltà analitiche, ritardi ed errori – tanto in Calabria, quanto nel resto d’Italia e ovviamente anche all’estero – quello che poteva essere chiaro molto prima è diventato forse solo un po’ più chiaro negli ultimi 5-10 anni». In Italia, certo, ma anche, e per alcuni sorprendentemente, in Australia, in Canada, in Germania, in Svizzera, in Spagna, in Francia e negli Stati Uniti. Anna Sergi non si limita a descrivere, ma analizza e problematizza quanto vede scorrere sotto i suoi occhi. E parla di varie «contese», come le definisce, che sono ancora aperte a partire da quella che a me pare la più importante, quella «sull’unitarietà della ’ndrangheta» (che l’indagine Crimine ha definitivamente acquisito) e sul «grado di influenza che le strutture di coordinamento hanno sui clan» in Calabria e fuori di essa.

    Si arriva, così, a toccare questioni cruciali che impegnano da lunghi decenni magistrati, studiosi, intellettuali, giornalisti i quali si sono sempre chiesti se il modello di struttura verticistica di cosa nostra potesse, e in che misura, essere replicato in Calabria oppure se la ’ndrangheta fosse del tutto refrattaria a un comando verticistico. Non è mai stato facile rispondere a questa domanda perché l’accertamento avviene sempre, non bisogna mai dimenticarlo, su una organizzazione segreta che non rilascia informazioni o documentazioni ufficiali. Le informazioni dipendono in buona parte dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che, seppure aumentati di numero negli ultimi anni, non hanno visto ancora la collaborazione di capi importanti, come accadde in cosa nostra, in grado di descrivere il funzionamento della struttura e il rapporto con i vari locali sparsi un po’ dappertutto.

    La ’ndrangheta è uno strano soggetto criminale ancora tutto da scoprire, e le informazioni che si possono ricavare dalle carte giudiziarie sono a volte ambivalenti e non del tutto esaustive. Anna Sergi ha le sue convinzioni e le esprime con la chiarezza e la precisione di una giovane studiosa che, per la sua esperienza personale di studi e di percorso formativo, ha uno sguardo locale e globale, esattamente come è l’oggetto del suo scritto: la ’ndrangheta glocale, l’ultima trasformazione di questa mafia antica e moderna, dai tratti ancestrali e selvaggi, con cui, purtroppo, ancora i conti – e gli studi! – non sono chiusi.

    E questo libro è un buon lasciapassare per intraprendere questo viaggio che, è bene saperlo, è ancora lungo.

    Enzo Ciconte

    2021 - Parte prima

    Anna Sergi

    Dalla ‘Santa’ violenta

    alla ‘Santa’ contesa

    1. Della ‘Santa’ violenta

    «La ‘Santa’ violenta» non è stato il primo libro che ho letto sulla ’ndrangheta. Nonostante lo abbia scritto mio padre. Nel 1991, l’anno della sua pubblicazione, avevo solo 6 anni. Ricordo chiaramente la copertina gialla del volume nella libreria del salone di casa, per tutta la mia infanzia e adolescenza, ma non lo presi in mano per leggerlo quel libro fino ai miei vent’anni. Forse, crescendo in Calabria negli anni Novanta, si diventa in qualche modo reticenti a certa conoscenza, la si rifiuta, convinti che ci appartenga già per la sola ragione di essere li, in Calabria. Come un rumore di sottofondo, la ’ndrangheta, per chi è cresciuto nella regione, e nella provincia di Cosenza, negli anni Novanta. Per molti, un rumore impercettibile. Una sorta di segreto non segreto che appartiene ad altri. Qualcosa di sinistro che appartiene alla terra a cui appartengo io, ma non proprio, per me. Crescere tra Cosenza e l’Aspromonte, con intramezzi nel Vibonese, è stata la normalità della mia infanzia e adolescenza. E il lavoro di mio padre, anche quello, in sottofondo. Non come un rumore, ma come una «cosa da grandi», di quelle cose che non ti è permesso vedere, perché non le capiresti; quelle cose da cui vieni protetto, perché sono brutte, cattive e spaventano i bambini.

    Eppure, si sa, i bambini sono spugne, e da assorbire ce n’era. C’erano i lunghi viaggi di papà, c’erano le sue apparizioni al telegiornale regionale o in qualche altro canale tv nazionale, c’erano sicuramente le sue giornate passate a scrivere, e quelle in cui il giornale chiamava, nel mezzo di una vacanza, o di una domenica, o di una festa comandata e tutto si bloccava perché era successo chissà cosa e papà doveva scrivere o doveva partire. E poi c’era l’Aspromonte, la bellissima montagna che per noi era casa dei nonni. Dove succedevano «cose», ma non sempre le capivo, dove ho trascorso estati bellissime e annoiate, senza la minima percezione di quello che intorno stava accadendo. Se non in certe domande nervose di mia madre al telefono la sera o negli sguardi inquisitori di mia nonna se rientravamo tardi.

    Era tutto antico e calmo in Aspromonte, in quegli anni per me. E d’inverno Cosenza era lontana dal rumore della ’ndrangheta. Che invece, forse, assordava qualcuno giù a Reggio, proprio laggiù in Aspromonte.

    Ero bambina, si, durante gli ultimi anni dei sequestri. Cesare Casella e sua madre Angela, Mamma Coraggio, me li ricordo come un sogno alla tv. Ma me li ricordo. Quando finalmente presi in mano «La ‘Santa’ violenta» e lessi il reportage che mio padre fece di quel periodo, e di Mamma Casella, piansi. Me lo ricordo bene, ero in aeroporto per rientrare all’Università. Sarà stato il 2005 o 2006. Piansi non solo per la forza delle parole, ma anche perché quelle parole facevano da ponte alle mie memorie sparse, a quello che avevo assorbito da bambina e non avevo ovviamente capito; spolveravano ricordi incompleti e sensazioni a pelle, di quegli anni, la fine degli anni Ottanta, in cui la ’ndrangheta, mafia, santa, cresceva nel Sud della Calabria. E io, di appena 5 o 6 anni, che da qualche parte nella mia testa, sentivo, sapevo, intuivo già che cos’era.

    No, «La ‘Santa’ violenta» non è stato il primo libro che ho letto sulla ’ndrangheta. Il primo fu «La Mafia in Calabria» di Sharo Gambino[1]. A cui seguirono gli scritti di Corrado Alvaro, e solo molto dopo, quindi, «La ‘Santa’ violenta». Reticenza, forse, e forse per la consapevolezza che lì dentro c’era una parte della mia storia, della mia famiglia, mio padre e le sue esperienze sul campo, quelle che allora appunto non capivo, ma c’erano, nei suoi occhi e sulla sua pelle, più di quanto ci facesse vedere.

    Sono passati 30 anni dalla pubblicazione de «La ‘Santa’ violenta». Dal 1991 sono cambiate tante cose. È cambiata la Calabria, certamente. Ed è cambiata la ’ndrangheta. Un intervallo di circa 15 anni tra la prima volta e la seconda volta che ho riletto tutto il libro da capo. Negli anni, a volte l’ho sfogliato, cercando riferimenti a questo o a quello. Negli anni, non appena la ricerca accademica è diventata la mia scelta professionale a tempo pieno, sono tornata su qualche pagina del libro, consapevole che dietro a qualsiasi studio del fenomeno mafia, o ’ndrangheta che sia, stanno le storie di uomini e donne che hanno vissuto la storia in diretta.

    Quando nel 2019 ho ripreso in mano il testo per rileggerlo da capo, stavo preparandomi alla stesura di un altro libro, un testo più personale dei miei studi accademici. Un testo radicato nella memoria, individuale e collettiva, della Calabria e della ’ndrangheta. Un testo che racconta anche i viaggi, che io, come altri tanti calabresi, alcuni anche ’ndranghetisti, abbiamo intrapreso.

    Nell’affrontare il peso e il significato di memorie e viaggi non potevo esimermi dall’affrontare anche questioni più complesse: la storia del territorio, l’identità delle comunità che lo abitano, la narrazione degli eventi ancora vicini sebbene passati. E su questo percorso è riemerso l’interesse di rileggere «La ‘Santa’ violenta». Che è un libro denso, e ricco di fatti, eventi, storie. «Storie di ’ndrangheta e di ferocia, di faide, di sequestri, di vittime innocenti», come dice il sottotitolo. Storie di fine anni Ottanta, il cui tono però le rende fruibili in un eterno presente dove si fanno ancora domande scomode e dove di risposte ce ne sono sempre poche.

    La Calabria di queste pagine, e la ’ndrangheta di queste pagine, sono sicuramente cambiate. Quello che ne «La Santa Violenta» era indagine, è diventato sentenza. Quello che era intuizione è diventato analisi. Quello che era rischio è spesso diventato realtà. La natura della ’ndrangheta, i suoi riti, le sue trasformazioni, da un lato. La società, la politica, l’economia calabrese dall’altro. Le connessioni, le zone grigie, l’informalità dei rapporti semi-legali e semi-illegali, al centro. Sembra cambiato tanto eppure non sembra essere cambiato molto in 30 anni. Se non, forse, solo un elemento, distinguibile allora per tutti, più complesso da decifrare oggi: la violenza.

    La Santa, la ’ndrangheta, non sembra più violenta. Le storie di ’ndrangheta e di ferocia, di faide e di sequestri e di vittime innocenti, sembrano essere storie di un tempo passato. Ma se la Santa non è più violenta, negli ultimi trent’anni, cosa è diventata? È diventata, tra le altre cose, una Santa contesa.

    Ecco perché a distanza di 30 anni, ho ritenuto non solo opportuno ma necessario ripubblicare il testo integrale de «La ‘Santa’ violenta». Le informazioni, la cronaca e l’analisi su questo fenomeno non hanno mai smesso di popolare i giornali, i libri, e la curiosità di molti. Ma la storia scritta in diretta, come quella di molte pagine in questo libro, è un’altra cosa. La cronaca diventa ricerca sociale ne «La ‘Santa’ violenta». Un’etnografia forse involontaria e sicuramente non strutturata in quegli anni, a cui l’autore ha poi dato una cornice analitica – quella che guarda alla violenza del fenomeno mafioso calabrese – che è servita a tanti – inclusa chi scrive – per approcciare il fenomeno ’ndrangheta e le successive analisi. In queste pagine c’è storia e c’è ricerca sociale, ci sono pezzi di società e di umanità calabrese. Un archivio di esperienze che 30 anni dopo dovrebbero rappresentare uno dei pilastri, delle fondamenta, di ogni discussione su mafia e Calabria. Queste pagine – ché a leggerle davvero sembra che poco sia cambiato in Calabria e nella ’ndrangheta 30 anni dopo – sono testo, contesto e storia.

    [1] Sharo Gambino, La Mafia in Calabria, Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1971.

    2. La ’Ndrangheta con la lettera maiuscola

    … e quella con la lettera minuscola. La contesa inizia qui. Nella disputa su come si scrive il nome, o sui fatti che portano a definire il percorso di una mafia, la ’ndrangheta, che di strada ne ha fatta tanta negli ultimi 30 anni. Il nome ’ndrangheta, che si è trasformato in ’Ndrangheta con la lettera maiuscola grazie alla penna disattenta di giornalisti, e a quella un po’ superficiale di qualche politico e magistrato, è un nome che risuona e risuona parecchio. Ci si è abituati a questo nome che non suona né italiano né calabrese, nei media e nel linguaggio degli addetti ai lavori su tutta la penisola. Fuori dall’Italia, invece, chiunque io abbia incontrato fatica a pronunciarlo, lo considera dialetto calabrese, si chiede che ci stia a fare quell’apostrofo, o se è un’apocope, un troncamento, di che vocale si tratta? Molti appunto la chiamano andrangheta, perché si pronuncia meglio. La modalità più diffusa all’estero è ’ndranghéta, con l’accento sulla e.

    Può sembrare pedanteria l’attaccarsi a una maiuscola o a una minuscola. A prescindere dal fatto che, essendoci un’apocope, si presume che la prima lettera – la maiuscola – fosse la A, caduta. Va molto oltre la questione puramente grammaticale. La contesa tra maiuscola e minuscola, in fondo, anche quando non lo si realizza pienamente, ha a che fare con il dibattito sull’unitarietà della mafia calabrese. Che il fenomeno ’ndranghestico abbia una sua identità unitaria è innegabile: il metodo mafioso dei clan calabresi è fatto di intimidazione, sfruttamento dell’omertà e soggiogazione della popolazione alla reputazione del gruppo, il tutto per il conseguimento di profitti illeciti o di altri favori politici o economici. L’identità collettiva dei clan di ’ndrangheta è anche ulteriormente confermata dalla perseveranza di molti rituali, che mantengono l’attaccamento alla tradizione e alla dimensione esoterica che da sempre ha caratterizzato questa mafia[1]. Tutto questo è sicuramente ’ndrangheta, ma può rimanere con la lettera minuscola, un fenomeno associativo di tipo criminale, di stampo mafioso, che ormai è conosciuto da decenni.

    Ma dalla fine degli anni Novanta in poi, dal processo Olimpia soprattutto, dimostrare davanti a una corte di giustizia che la ’ndrangheta è un’organizzazione unitaria, ’Ndrangheta con la lettera maiuscola, è stato l’obiettivo di inquirenti e magistrati. Perché? Perché serve ai fini processuali, per l’utilizzo snello del 416-bis, e perché permette di alzare il livello di guardia. Il Processo Olimpia, che portò a processo la Santa – la struttura riservata della ’ndrangheta calabrese, quella evoluta, elevata, imprenditrice, dal colletto bianco e seduta tra le fila del potere – a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, ha dato una sferzata importante a quella che era (dai primi anni Ottanta) e sarebbe continuata (fino ai giorni nostri) come una serie di indagini che negli anni hanno tentato di raggiungere due obiettivi. Primo, provare che le strutture della ’ndrangheta sono unitarie e che la ’ndrangheta (’Ndrangheta) è un’organizzazione criminale unitaria, coordinata e soprattutto verticistica. E secondo, che esiste una struttura riservata, fatta di ’ndranghetisti di primo piano, massoni deviati e professionisti, che gestisce il vero potere – politico, finanziario – dei clan calabresi.

    Il Processo Crimine, dagli arresti del 2008 alla sentenza passata in giudicato del 2016, è riuscito nel primo intento. Il processo Gotha, tutt’ora in corso nel 2021 a Reggio Calabria, sta tentando di realizzare il secondo obiettivo, come vedremo più in là in questo scritto. Varie altre sentenze e molti processi hanno ovviamente contribuito a questi passaggi, che non sono mai né improvvisi né improvvisati. In una delle sentenze per Olimpia, leggiamo:

    «Sin dai primi anni settanta l’organizzazione criminale denominata ’ndrangheta è una realtà giuridica ben definita e sanzionata quale organizzazione criminale. (…) Associazione qualificatasi, al pari di quella denominata mafia e delle consorelle camorra e sacra corona unita per l’uso strumentale dell’assoggettamento di intere aree territoriali e delle relative popolazioni a una condizione d’intimidazione costante per la realizzazione di un potere indiscriminato ed alternativo a quello statale… (…) Sentenze come la 4.1.1979 del Tribunale di Reggio Calabria hanno confermato l’esistenza dell’organizzazione criminale denominata ’ndrangheta costituente una realtà giudiziariamente assodata. Ne sono state individuate l’origine, i riti, i sistemi operativi, le strategie criminali, la dislocazione su tutto il territorio regionale con punte di alta densità e capo crimine nella provincia di Reggio Calabria nonché collegamenti nazionali e internazionali. Altre decisioni immediatamente successive, fra le quali quella della Corte di Assise di Palmi del 21.7.1981, hanno confermato la conquista giudiziaria che ha definitivamente riconosciuto l’organizzazione denominata ’ndrangheta come organizzazione criminale di cui fanno parte le numerose organizzazioni locali denominate cosche, territorialmente dislocate, che riconoscono, attraverso l’adesione a conformi regole di comportamento e precise ritualità, la comune appartenenza alla struttura unitaria, con una suddivisione del territorio calabrese secondo una mappa consolidata e da tutti i componenti riconosciuta come imperante, con colonizzazione di territori anche esterni a quello calabrese mediante creazioni di locali (circoscrizioni territoriali) facenti capo a quelli calabresi di cui sono filiazione»[2].

    Nel 2012, dieci anni dopo, il Gup nel Processo Crimine conferma e aggiunge:

    «L’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata ’Ndrangheta, storicamente nata e sviluppatasi in varie parti della provincia di Reggio Calabria (e principalmente nella fascia jonica e tirrenica, oltreché nella zona urbana del capoluogo) ha assunto via via nel tempo ed in un contesto di trasformazione ancora non concluso, una strutturazione unitaria, tendente a superare il tradizionale frazionamento ed isolamento tra le varie ’ndrine: sicché, come significativamente emerso anche nella parallela indagine milanese c.d. Infinito, la ’Ndrangheta non può più essere vista in maniera parcellizzata come un insieme di cosche locali, di fatto scoordinate, i cui vertici si riuniscono saltuariamente (pur se a volte periodicamente), ma come un arcipelago che ha una sua organizzazione coordinata ed organi di vertice dotati di una certa stabilità e di specifiche regole.

    La predetta unitarietà, a differenza di quanto è stato giudizialmente accertato per la mafia siciliana (con la cupola o commissione di Cosa nostra) fa pienamente salva la persistente autonomia criminale delle diverse strutture territoriali (ivi comprese quelle operanti nel Nord Italia, in primis la c.d. Lombardia: v. conclusioni dell’indagine c.d. Infinito), tradizionalmente fondate soprattutto su vincoli di sangue, in quanto non è emerso che essa influisca su ordinarie attività delinquenziali specifiche (i c.d. reati-fine) e, quindi, su profili operativi per così dire esterni (salvo casi eccezionali)»[3].

    La differenza tra la prima e la seconda posizione non è solo semantica. È un cambiamento paradigmatico. Non si è mai messo in discussione, dalla fine degli anni Settanta in poi, che la ’ndrangheta sia un’associazione criminale. E nemmeno si è mai messo in discussione che tra le cosche ci sia coordinamento, di tipo territoriale – l’esistenza dei locali – o di tipo strutturale – l’esistenza di un capo società o di un capo crimine sui locali e sulle ’ndrine. Ma se nei primi anni 2000 si faceva fatica a dimostrare che l’esistenza di un’organizzazione criminale non negasse l’autonomia dei clan – perché il modello di cosa nostra, allora dominante, era quello di una mafia verticistica e coordinata – durante il processo Crimine si fece finalmente un passo avanti nel separare le due cose. La ’ndrangheta, in Crimine, è sì organizzazione criminale, ma ciò non toglie che i clan rimangano autonomi nelle loro attività, in netto contrasto con quello che ci aveva insegnato la storia di cosa nostra. Per poter però affermare che la ’ndrangheta è organizzazione anche se i clan restano autonomi, si è dovuto provare che comunque tale organizzazione è unitaria e coordinata. E l’unitarietà si è dimostrata con la prova dell’esistenza di verticismo in alcuni organi propri della struttura ’ndranghetista sul territorio – per esempio nella ’ndrina, la sua struttura primaria, e nel rapporto tra i locali, le società e i mandamenti, e nell’esistenza della Provincia. In questo passaggio, quasi impercettibilmente, la ’ndrangheta è diventata ’Ndrangheta, come spesso accade a fenomeni che arrivano ad identificarsi interamente in una loro manifestazione[4]. È stato questo il caso di Cosa nostra, che è diventata sinonimo di mafia in Sicilia, anche se di gruppi criminali di stampo mafioso in Sicilia ce ne sono stati altri. Ed è questo il caso della parola Mafia (sempre in maiuscolo) che all’estero è diventato sinonimo di tutto il crimine organizzato di origine italiana, anche quando operante fuori dai confini italiani[5]. In questo caso, il fenomeno ’ndrangheta – la cui origine rimane ancorata nel Reggino, e la cui unitarietà viene provata in quanto esistono delle strutture verticistiche e di collegamento tra i vari clan – diventa un fenomeno dotato di una propria agency – una capacità di agire – appunto, unitaria. La ’Ndrangheta ha strategia. ’Ndrangheta ha potere. La ’Ndrangheta colonizza. La ’Ndrangheta corrompe. La ’Ndrangheta va alla conquista. Come se si trattasse sempre della stessa ’ndrangheta sempre unita, cosa che non è, e come se si trattasse sempre di una scelta, o di un’azione strategica o, appunto, unitaria, di tutto ciò che è ’ndrangheta.

    Questo processo è in linea con altri processi di cosiddetta securitisation[6] – securitizzazione – che hanno investito quei fenomeni complessi, come crimine organizzato, terrorismo, anche migrazione. In virtù di tale processo il fenomeno in questione viene semplificato, ridotto a uno, sfrondato della sua complessità per identificare un nemico chiaro e subito riconoscibile. L’Isis, Al Qaeda, la Migrazione, la Mafia, la ’Ndrangheta. In questo processo, oltre a politici e legislatori, hanno sicuramente un ruolo anche alcuni media, che spesso – e comprensibilmente – prediligono la semplicità alla complessità, soprattutto quando scrivono all’estero. Dei media esteri torneremo a parlare dopo, perché gli effetti negativi della dichiarazione di unitarietà della ’ndrangheta si vedono principalmente fuori dall’Italia. Per ora ritorniamo alla questione dell’unitarietà in Calabria e in Italia.

    Nel Processo Aemilia, la cui prima sentenza nel 2015 (oltre a quelle successive) ha confermato gli interessi del clan Grande-Aracri di Cutro, in provincia di Crotone, a Reggio Emilia, si vede chiaramente l’artifizio di inquirenti e giudicanti nel definire l’operato di questo clan all’interno della ’ndrangheta, come definita nel processo Crimine:

    «È emersa la fisionomia di una struttura criminale moderna, che affianca le

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