Racconti sintetici
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Anteprima del libro
Racconti sintetici - Michele Orcesi
Francesca
Premessa
Racconti sintetici
è una raccolta di ottantotto racconti molto brevi, per ciascuno dei quali mi sono imposto come regola di non oltrepassare i quattromila caratteri, che equivalgono approssimativamente a due pagine di lunghezza di un libro in edizione economica. So che esistono altre raccolte simili, nelle quali in qualche caso gli autori si sono dati limiti ancor più ristretti: chi un certo numero di righe, chi persino un certo numero di parole.
Raccontini di questa lunghezza, almeno in Italia, vengono ancora visti come qualcosa di insolito, in quanto tra gli scrittori di casa nostra non hanno mai goduto di molto credito. Un’eccezione che mi piace ricordare è Dino Buzzati, autore di piccoli gioielli quali Una goccia
, Lo scarafaggio
e Conigli sotto la luna
.
Basta però spingersi oltre i nostri confini e si scoprono consuetudini assai diverse. Penso anzitutto alla cultura ispanica, che vanta una lunga e assai radicata tradizione di microrrelatos, talora spinti a livelli di sintesi davvero estremi. Nella letteratura tedesca, poi, il kürzestgeschichten ha avuto tra i propri cultori nientemeno che Franz Kafka.
Ma Kafka non è stato certo il solo tra i grandi scrittori ad aver dato credito a questa bizzarra forma di narrazione. Tra gli altri si possono infatti citare Jorge Luis Borges, Ernest Hemingway e Julio Cortázar.
Sembra comunque che da qualche tempo il mini e il micro racconto abbiano iniziato a diffondersi anche negli idiomi nei quali erano più trascurati, inclusa la lingua italiana, e che si stiano a poco a poco conquistando una piccola cerchia di estimatori. Persino tra i teorici della letteratura qualcuno si è finalmente accorto di loro, tanto da ammetterli, seppure un po’ come dei parenti poveri, nella nobile famiglia dei generi letterari.
La cosa mi fa senz’altro piacere anche perché, nella mia pur modesta esperienza, ho constatato che contrariamente a quel che si potrebbe pensare, sviluppare un racconto di senso compiuto in uno spazio molto breve è un compito non privo di difficoltà. In qualche caso mi è anche capitato di dover rinunciare, destinando il racconto ad una diversa raccolta nella quale la lunghezza non fosse un problema: ho così imparato mio malgrado che dire le cose con poche parole a volte può essere più complicato che farlo scrivendo decine di pagine.
La sintesi è un po’ come certi sentieri delle valli di montagna. Quando li affrontiamo capiamo in un istante quanto essi siano diversi dalla comoda strada carrozzabile alla quale siamo tanto abituati.
La strada carrozzabile infatti si snoda placida per chilometri e chilometri con la sua lunga successione di tornanti, e se è pur vero che ci costringe a camminare per ore, offre però l’indubbio vantaggio di salire dolcemente, indugiando mansueta lungo le pendici della montagna. Così facendo non richiede troppo sforzo a chi la percorre.
Invece i sentieri scoscesi portano presto in cima al crinale. Ma si inerpicano per salite ripide e accidentate. Ogni loro metro va conquistato con fatica.
Forse è proprio per questo che noi esseri umani, che per natura non siamo affatto inclini alla fatica, il più delle volte preferiamo accuratamente evitarli.
La Val d’Èmano
L’Èmano scende lento lungo la propria valle con un andamento quasi rettilineo, solo di tanto in tanto inframmezzato da qualche ansa che compare improvvisa qua e là lungo il suo corso. Né ciò deve stupire, in quanto la peculiare conformazione della vallata, notevole per ampiezza ma dal modesto dislivello, lascia che il torrente l’attraversi per la via più breve, quieto come se scorresse nel mezzo di una pianura. Così accade assai di rado che qualche ostacolo si presenti a deviarne il cammino.
Le acque dell’Èmano sono pulite e ricche di pesce, e le calde sorgenti termali che costellano numerose il territorio circostante le rendono più miti di quel che sarebbe lecito aspettarsi. È per questo che anche nei mesi autunnali può capitare di vedere nel suo alveo persone che nuotano, magari sotto lo sguardo un po’ scocciato di qualche anziano pescatore.
Sulla riva destra del torrente incombe una catena di monti, che chiamar monti è forse eccessivo, dato che non raggiungono mai altezze elevate. Son coperti da boschi di querce e di castagni, per quanto alle quote più basse lascino spesso spazio agli alberi da frutto, piantati nel tempo dagli abitanti della valle. Le ampie radure che si aprono tra i boschi, ordinatamente cintate da siepi e steccati, sono usate per il pascolo del bestiame, che vi si aggira brucando con noncuranza e intessendo misteriosi dialoghi fatti di muggiti e di belati.
Lungo la riva opposta si stende invece un ampio pianoro lievemente digradante, che con il suo largo nastro di campi coltivati accompagna il corso del torrente, simile a quelle coperte che un tempo tessevano le nonne unendo assieme quadrati di stoffa di vari colori. Quasi ad un tratto il pianoro si interrompe e il terreno comincia a salire dando forma a basse colline tondeggianti, anch’esse disseminate di campi e sovente di vigneti che le rivestono fino alle sommità.
È lungo le pendici di queste colline che sorgono i piccoli villaggi di sassi e mattoni cotti che si succedono regolari lungo la vallata, con le case dai muri massicci e dalle finestre minuscole, unite le une alle altre da curiosi voltini di pietra eretti per chissà quale ragione al di sopra delle strette stradine che le separano.
Accanto ad ogni villaggio gorgoglia immancabile un ruscello che scorre veloce verso il pianoro sottostante, dove si perde nell’intrico di canali che si stendono tra i campi, per poi sboccare inosservato nel torrente a fondovalle.
Nel cuore di ogni villaggio c’è una piccola piazzetta selciata ove troneggia una fontana dalle acque sulfuree e medicamentose. Ogni fontana è il vanto degli abitanti del paesello nel quale si trova, e in ciascuno di essi si sostiene per certo esser quella la fontana con l’acqua migliore di tutta quanta la valle.
Una valle come questa può apparire piuttosto singolare, perché si presenta talmente ordinata e armoniosa da dar l’impressione di essere finta, come se fosse uscita dall’alambicco di un alchimista. Non c’è nulla di strano: infatti, come avviene per gran parte di ciò che si trova nei libri, anche la Val d’Èmano esiste solo nell’immaginazione.
Eppure non credo che questo sia un buon motivo per disprezzarla. Sono proprio gli artifici della mente umana, fatti di strutture ordinate e razionali, di percorsi concepiti per giungere ad un fine, che appagano il nostro bisogno di trovare un senso nelle cose. Ecco perché un giro in Val d’Èmano vale comunque la pena di andarlo a fare.
L’alchimista
Dagoberto di Nimes era alchimista e filosofo. Ormai da anni lo scopo della sua vita era quello di esplorare i misteri della natura alla ricerca dell’anelata pietra filosofale, il segreto che avrebbe consentito agli uomini di mutare la materia in qualunque forma essi avessero voluto.
Dagoberto non era particolarmente conosciuto, in quanto se ne stava tutto il giorno chiuso nel suo laboratorio a fare esperimenti anziché andarsene in giro di corte in corte a magnificare le proprie scoperte per ottenere fama e denaro. E si sa che la gente si cura ben poco di chi si cimenta duramente in un’impresa senza far tanto clamore, preferendo piuttosto coloro che van celebrando ostentatamente i propri meriti, veri o presunti.
Ma tant’è che gli anni di studio indefesso e l’incrollabile ostinazione portarono infine il nostro alchimista alla meta tanto ambita. La sera del dì di San Michele dell’anno del Signore 1579, sul far del crepuscolo, Dagoberto di Nimes compì l’esperimento che mostrava inconfutabilmente che lui, proprio lui, aveva risolto il mistero della pietra filosofale. Che poi non era affatto una pietra e aveva anche ben poco di filosofale, ma funzionava e questo era l’importante.
Esausto ma felice, Dagoberto decise di andare alla taverna a mangiare un boccone. Immerso nei suoi studi fin dalla mattina, era infatti da un giorno intero che non toccava cibo.
Uscito di casa fu subito accolto dagli schiamazzi di alcuni monelli che giocavano lì di fronte, che come di consueto non mancarono di prenderlo in giro. Ai rimproveri del brav’uomo uno di essi replicò tirandogli un sasso. Gli altri gli fecero sberleffi.
Dagoberto non se ne curò e proseguì per la taverna. Sedutosi in un angolo, ordinò pasticcio di manzo, patate e birra scura. Ma a quel punto entrò un uomo che con fare piuttosto scontroso gli ingiunse di scansarsi, perché quello era il suo posto preferito e non gli andava a genio di trovarlo occupato dal primo furfante di passaggio. Dagoberto avrebbe voluto almeno obiettare di non essere un furfante ma, dato che l’uomo era armato e pareva assai minaccioso, decise di lasciar perdere e cambiò di posto.
Consumò il proprio pasto con passabile soddisfazione, nonostante il fastidio arrecatogli da una baruffa scoppiata in un tavolo lì appresso a seguito di una partita a dadi. Andò quindi dall’oste per saldare il conto e per poco quel malandrino non riuscì a fargli pagare più del dovuto, salvo poi scusarsi di fronte alle sue rimostranze sostenendo di essersi sbagliato.
Sulla via del ritorno dovette fare il giro largo per evitare alcuni ragazzotti sfaccendati che se ne stavano nel bel mezzo della strada con tutta l’aria di voler giocare una birbonata a qualche malcapitato passante. Fu così che si imbatté in una donna di facili costumi che cercò di adescarlo, tutta gentile e vezzosa. Dagoberto declinò l’invito, spiegando di essere stanco e di non desiderare altro che d’andare a letto a dormire. A quel punto la donna, con un repentino quanto imprevedibile cambiamento d’umore, iniziò a prenderlo a male parole, lasciandosi persino andare a malevole insinuazioni riguardo alla sua virilità.
Quando fu di nuovo a casa e passò dinnanzi alla porta del laboratorio, Dagoberto fu assalito da un dubbio: era proprio il caso di mettere a disposizione degli uomini i frutti della sua prodigiosa scoperta? Dopo qualche istante di riflessione concluse che, ben conoscendo le debolezze dell’animo umano, dare agli uomini quel potere avrebbe di sicuro finito col cagionare qualche terribile sventura. Decise dunque di bruciare tutti i propri appunti.
Ciò fatto, Dagoberto di Nimes se ne andò al piano di sopra a dormire sereno.
L’ufficio al piano di sopra
Alla periferia di una grande città si trova un moderno e rumoroso quartiere industriale. In una delle centinaia di aziende che lo popolano operai indaffarati si avvicendano nei laboratori, nelle officine e nei magazzini. Solo al piano di sopra c’è un ufficio il cui occupante, da anni, non cambia mai. Quest’uomo è colui che prende tutte le decisioni importanti. Sebbene sia ormai anziano non vuol saperne di andare in pensione: se lasciasse il proprio posto, mancando la sua esperienza, il suo senso degli affari e la sua capacità di risolvere i problemi, l’azienda di certo non potrebbe andare avanti. Ecco perché rimane lì, nonostante gli acciacchi, nonostante il peso degli anni. Non ne può fare a meno. Lui è indispensabile.
L’azienda è cliente di una grande banca. Anche al vertice della grande banca c’è un uomo indispensabile. È lì da poco, ma è del tutto evidente che lui solo ha le capacità per poter cambiare le cose, per guidare quel colosso attraverso il mare tempestoso delle crisi finanziarie, per gestire gli intrighi e i giochi di potere nei quali si trova invischiato. Ecco perché vuole sempre essere informato, vuole sempre essere lui a prendere ogni decisione. Anche quando è in ferie, persino quando dorme. È necessario in quanto lui è un uomo assolutamente indispensabile.
Ma la grande banca è oggetto dello sguardo indagatore della giustizia. È in corso un’importante inchiesta che ha lo scopo di scoprire alcuni terribili misfatti che essa pare abbia commesso e che non si possono lasciare impuniti. A dirigere le indagini c’è un abile magistrato. Stiamo parlando di un uomo indispensabile. L’unico che ha il coraggio di far luce su quei torbidi giochi di potere, l’unico capace di esporsi pur di garantire il rispetto di un principio. Se non fosse per lui la faccenda verrebbe senz’altro insabbiata e la giustizia subirebbe un colpo dal quale non si potrebbe più riprendere. Ecco perché non si fida di nessuno, ecco perché tiene segrete tutte le informazioni rilevanti. Lui solo deve sapere, lui solo al momento più opportuno potrà scoperchiare il vaso di Pandora. È del tutto evidente come egli sia proprio indispensabile.
A governare quella nazione, su, in alto, dove si prendono le decisioni che contano, c’è un primo ministro. Ovviamente è un uomo indispensabile. E come potrebbe non esserlo, con le responsabilità che ha, con le scelte che deve fare, con le informazioni riservate che a lui solo è dato conoscere. È fondamentale che tutti lo votino alle prossime elezioni, in modo che la spinta epocale verso il progresso che lui sta imprimendo alla nazione non si interrompa, perché lui solo è in grado di tirare le fila delle innumerevoli trame delle quali è intessuta la vita dell’intero Paese, lui solo è in grado di capire quale sia veramente il bene comune. Lui è l’Indispensabile.
Il tempo passa, come sempre. Pare che il tempo non sia capace di fare altro. Così è accaduto che sia morto il capo dell’azienda laboriosa, che il presidente della grande banca sia stato sostituito, che il coraggioso magistrato sia stato trasferito altrove e persino che il primo ministro non sia stato più rieletto.
Ma per fortuna l’azienda laboriosa non è fallita, e nemmeno la grande banca. Così come non si è fermata la giustizia e neppure la nazione. Dicono che da migliaia di anni una miracolosa legge di natura faccia in modo che ogni volta che sparisce un uomo indispensabile, bene o male, si trovi sempre qualcuno che prende il suo posto. Per quanto possa sembrare incredibile pare proprio che il mondo possa fare a meno di chiunque, persino degli uomini indispensabili.
La finta felicità
Nasciamo con l’obbligo di essere felici. E viviamo con la paura di non poterlo essere mai, pervasi dal senso fastidioso della nostra imperfezione. Della nostra inadeguatezza di esistere.
Pervasi dal vuoto che portiamo dentro e dal quale non riusciamo ad allontanarci. Perché è come un’ombra che non ci abbandona e che tiene al buio la nostra anima. Cerchiamo di sfuggire a noi stessi e ogni volta vogliamo illuderci che per essere felici basterebbe