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Forse non tutti sanno che nelle Marche...
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E-book370 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti di una regione dai mille volti

Un viaggio composto da tappe inedite attraverso una regione affascinante e unica, ancora tutta da scoprire 

Sono sempre di più i media italiani e stranieri che definiscono le Marche come la nuova destinazione di punta del Belpaese. Una terra di antichissime origini, ricca di leggende e storie per lo più rimaste nell’ombra a causa della presenza di regioni limitrofe maggiormente conosciute o famose. Eppure il suo bagaglio di aneddoti, curiosità, personaggi noti che seppero segnare le sorti dell’umanità, amori terminati in tragedia e famiglie illustri possidenti feudi, castelli e rigogliose corti non è da meno rispetto ad altri luoghi dello stivale. Questo libro intende allora riscoprire gli aspetti inediti e nascosti delle Marche che ne determinano il vero fascino e l’unicità, per incuriosire gli abitanti stessi e attrarre i visitatori, sempre più presenti dalle coste all’entroterra, ammaliati dai numerosi gioielli artistici e naturali che quest’area d’Italia è capace di offrire.

Forse non tutti sanno che nelle Marche…
…Federico da Montefeltro realizzò la più importante biblioteca del Rinascimento
...è conservato uno dei maggiori tesori al mondo: i Bronzi Dorati di Pergola
…è stato realizzato un museo unico, quello del Cinema a Pennello a Montecosaro
...esiste una cittadina antichissima, Falerone, dove è possibile degustare un ottimo vino
…si produce il formaggio preferito da Michelangelo Buonarroti: la Casciotta d’Urbino
…esiste un frutto molto particolare e gustoso: la Mela rosa dei Sibillini
Chiara Giacobelli
è nata ad Ancona nel 1983. Laureata in Scienze della Comunicazione e specializzata in Editoria, comunicazione multimediale e giornalismo, è scrittrice e giornalista. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare nelle Marche almeno una volta nella vita, 1001 monasteri e santuari in Italia da visitare almeno una volta nella vita e Forse non tutti sanno che nelle Marche... Ha firmato anche il saggio Furio Scarpelli. Il cinema viene dopo insieme ad Alessio Accardo e Federico Govoni, con la prefazione di Ettore Scola e vincitore di numerosi premi prestigiosi. Come giornalista si occupa invece di cultura, lusso e turismo per varie testate, tra cui l’«Huffington Post Italia», «Affari Italiani», «Bell’Italia» e «Luxgallery».
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2015
ISBN9788854188044
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    Anteprima del libro

    Forse non tutti sanno che nelle Marche... - Chiara Giacobelli

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    …si nascondono le più belle opere artistiche della famiglia Della Robbia

    A volte è sufficiente fermarsi a osservare uno scorcio che appare all’improvviso, imboccare una strada secondaria o fingere di perdersi per scoprire la bellezza di un borgo sconosciuto o di un’opera d’arte di cui pochi sono a conoscenza. È così che il viaggiatore curioso trova l’anima più autentica di una regione, penetrando nei segreti e nei misteri della sua storia.

    Tra i tanti tesori nascosti delle Marche – ingiustamente ignorati dagli itinerari del turismo di massa – merita di essere conosciuta e approfondita la straordinaria attività artistica dei Della Robbia, uno dei cognomi più celebrati e rappresentativi del Rinascimento italiano. Famiglia fiorentina di ceramisti e scultori, iniziarono la loro ascesa nei primi decenni del Quattrocento, fino a ben oltre la seconda metà del Cinquecento.

    Il capostipite porta il nome di Luca Della Robbia (Firenze, 1400 circa-1482) ed è famoso per aver avviato la rinomata bottega ed essere stato l’iniziatore della raffinata tecnica della terracotta policroma invetriata. Luca cominciò la sua attività come scultore presso il laboratorio di Nanni Bianco, capomastro della cattedrale di Firenze, ma fu grazie alla conoscenza di artisti quali Donatello e Brunelleschi che cominciò a maturare uno stile artistico del tutto personale, in linea con lo spirito di rinnovamento dell’epoca.

    Influenzato dai nuovi maestri, abbandonò quindi la scultura per dedicarsi attivamente all’arte della ceramica e alla sperimentazione di una tecnica d’avanguardia: quella, appunto, della terracotta invetriata. Essa prevedeva l’utilizzo di un rivestimento a base di stagno che trasformava la terracotta in un materiale di stupefacente luminosità; a questo punto, mancava soltanto quello che ben presto sarebbe diventato il marchio di fabbrica della famiglia Della Robbia in tutta Italia, Marche comprese: la policromia. Significa che al bianco plastico delle figure, l’artista prese ad abbinare l’azzurro dei fondi, mentre per gli elementi decorativi utilizzò prevalentemente il giallo, l’avorio e il verde, con risultati espressivi sensazionali.

    Da allora in avanti, le decorazioni, gli angeli e i putti delle tipiche lunette targate Della Robbia raggiunsero e mantennero un successo immediato: le committenze crebbero in misura vertiginosa, mentre la bottega, complice il basso costo della terracotta insieme all’utilizzo della tecnica dello stampo, avviò le basi per una produzione di tipo industriale. È proprio a Luca Della Robbia che si debbono capolavori storici del nostro Paese come la Cantoria del duomo di Firenze, le Formelle per il campanile di Giotto, la celebre Madonna del Roseto conservata al Bargello di Firenze e il Tabernacolo nella chiesa fiorentina di Santa Maria Nuova.

    Nel 1448 Luca adottò i figli del fratello appena scomparso; tra questi, emerse la figura di Andrea Della Robbia, subito attivo nella bottega dello zio. Andrea perfezionò ulteriormente la tecnica già avviata, per arrivare poi a sviluppare uno stile molto influenzato dalla pittura dell’epoca, con particolare riferimento al Verrocchi. Fu in questo modo che riuscì a generare effetti cromatici ancora più brillanti rispetto a quelli di Luca. Approfittando della solidità del materiale, della facilità del trasporto e della possibilità di montare e smontare gli invetriati in loco, Andrea Della Robbia fu in grado di intraprendere una vera e propria produzione industriale, allargandosi anche alle regioni periferiche come le Marche e tutto l’Appennino centrale. Tra i suoi lavori più notevoli si ricordano i Putti nel Portico dello Spedale degli Innocenti a Firenze, il Ritratto di Fanciulla al museo del Bargello e, per quanto riguarda la nostra terra, il Condottiero conservato nei Musei civici di Pesaro, oltre alla Madonna col Bambino in Sacra Conversazione tra Santi nella cappella della rocca di Gradara.

    Nel frattempo, entrarono in bottega anche i figli di Andrea: Giovanni, nello specifico, ebbe il merito di diffondere ulteriormente la produzione di famiglia e di proseguire il discorso artistico avviato dal padre privilegiando un carattere policromo sgargiante e vivace, conforme ai nuovi orientamenti estetici del tempo. La produzione in serie di importanti commissioni religiose fu perciò affiancata dall’aumento di richieste in merito a eleganti vasi, stemmi policromi e arredi domestici. A sua firma nelle Marche troviamo diversi lavori, tra cui uno dei più noti è la Madonna con Bambino tra i santi Giovanni Battista e Girolamo ella collegiata di San Medardo di Arcevia.

    Non furono tuttavia da meno gli altri figli di Andrea: Luca il Giovane, Girolamo, Marco (meglio conosciuto come Fra Mattia e particolarmente attivo nelle Marche) e Francesco (Fra Ambrogio). La maggior parte delle opere della famiglia Della Robbia nel nostro territorio si devono proprio alla mano di Fra Mattia, ma purtroppo non tutte hanno il lustro e la fama che meriterebbero. Tra le tante, ne citiamo alcune poiché vale di certo la pena ammirarle: la Pala di Montecassiano all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta, nella cittadina omonima; il Crocifisso custodito nella collegiata di San Medardo ad Arcevia; l’Altare dell’Annunciazione presso Santa Maria delle Grazie sempre ad Arcevia e infine la Madonna col Bambino in gloria con quattro Santi e gli Angeli conservata al Museo civico di Jesi.

    Fra Mattia non è però l’unico Della Robbia ad aver molto operato nelle Marche. Importanti sono anche le opere di Fra Ambrogio, tra cui l’Assunta tra i santi Giorgio, Girolamo, Francesco e Antonio da Padova in esposizione al Palazzo comunale di Pergola e San Firmano Benedicente nel suggestivo contesto della cripta all’interno dell’abbazia di San Firmano a Montelupone.

    L’intero elenco sarebbe troppo lungo da stilare, ma basti sapere che, dopo la Toscana, le Marche sono la seconda regione italiana per presenza di opere robbiane. Mettersi a caccia delle bellezze dei Della Robbia nel territorio marchigiano potrebbe allora diventare una buona opportunità per conoscere antichi borghi medievali e paesaggi incantevoli, seguendo ad esempio l’itinerario della terracotta maiolicata e invetriata che si snoda tra Pesaro, Gradara, Jesi, Cupramontana, Pergola e Arcevia.

    Volendo segnalare soltanto una selezione dei lavori dei Della Robbia in questa zona, che ci sembra doveroso far conoscere al lettore, possiamo partire dal borgo di Gradara, sede di uno dei castelli meglio conservati d’Italia, al cui interno troviamo la Pala d’altare di Andrea Della Robbia. L’opera, di notevoli dimensioni, fu eseguita intorno al 1480 e presenta in altorilievo la Madonna seduta su uno sgabello di un bellissimo color azzurro; sulla destra della Vergine sono ritratti Maria Maddalena e san Girolamo, mentre a sinistra possiamo ammirare santa Caterina d’Alessandria e san Ludovico di Tolosa. In bassorilievo sono invece rappresentati san Francesco mentre riceve le stimmate, l’Annunciazione e la comunione di santa Maria egiziaca nel deserto. Infine, c’è da dire che gli ornamenti sui cornicioni spiccano di un color bianco intenso su un tradizionale fondo turchino, mentre i capitelli e gli altri fregi architettonici appaiono dorati come i panneggi.

    Da Gradara ci spostiamo quindi ad Arcevia, uno dei paesini più interessanti delle Marche, con un’emozionante veduta sulle colline circostanti. Pochi sanno che il centro e il comprensorio di Arcevia sono una delle zone più ricche di reperti archeologici nell’intera regione, dal momento che il nucleo abitato risale al periodo dell’invasione dei franchi guidati da Carlo Magno (viii-ix secolo d.C.). Nel 1201, dopo la nascita del Comune, Arcevia venne purtroppo semidistrutta a causa delle lotte di fazione interne alla cittadina stessa, dove all’epoca regnavano famiglie signorili assai potenti e si seguiva una decisa politica di conquista nei confronti dei numerosi castelli circostanti (nove ancora intatti, oggi parte integrante di un noto itinerario turistico).

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    Gradara, in un’incisione del secolo scorso.

    La presenza dei Della Robbia ad Arcevia è probabilmente la più significativa in tutta la regione, a partire dalla chiesa di San Medardo in cui si trova l’altare in maiolica invetriata della Madonna col Bambino tra i santi Giovanni e Girolamo, di Giovanni Della Robbia. L’opera, restaurata nel 2003, è un magnifico dossale di terracotta con nicchie, al cui interno sono state collocate statue bianche su sfondo azzurro. In alto fa bella mostra di sé il fregio con i cherubini ricco di frutti e motivi floreali, mentre la lunetta superiore, a forma di conchiglia, contiene il busto del Redentore. Nei tondi vediamo san Gabriele e l’Annunciata, accompagnati da sant’Antonio abate nel basamento, con il presepio e persino un raro episodio della vita del religioso Gerasimo. All’interno della stessa chiesa, nella seconda cappella a sinistra è conservato integro anche Il Crocifisso in maiolica di Fra Mattia Della Robbia.

    Restando sempre nella fiorente terra di Arcevia, altre opere della celebre famiglia fiorentina sono visibili nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, quasi di fronte a San Medardo. Nella navata sinistra, tra gli interni barocchi, si staglia L’altare dell’Annunciazione realizzato da Fra Mattia. Di esso si notino, in particolare, le folte ghirlande appese come anelli intrecciate ai cherubini con le ali al petto e i volti appuntiti.

    Lasciando finalmente Arcevia, possiamo percorrere le dolci colline della Vallesina per raggiungere Cupramontana, conosciuta in tutta Italia per essere la sede della celebre Sagra dell’uva, che avviene ogni anno nel primo fine settimana di ottobre. Il vino non è tuttavia l’unica attrattiva qui presente: dirigendosi nella chiesa di San Giacomo della Romita, troviamo infatti uno splendido altare in terracotta di tradizione robbiana tuttora molto dibattuto, poiché gli storici dell’arte sono incerti se consegnare l’opera alla mano di Giovanni oppure a quella di Mattia. Bisogna tener presente che, una volta giunti fin qua, vale la pena visitare anche le fontane della Romita e l’ex convento dei francescani nelle vicinanze.

    Il nostro itinerario si conclude quindi a Jesi, città di antichissime origini, dalle cinte murarie del xv secolo splendidamente conservate. All’interno del Museo civico sono contenute altre importanti opere dei Della Robbia, tra cui il Presepio e Annuncio dei Pastori di Girolamo e la Madonna col Bambino in Gloria dell’ormai familiare Fra Mattia.

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    …la famiglia da Varano rese grande la terra maceratese

    In un percorso storico che si snoda attraverso le Marche e va a ricercare i punti meno rischiarati dalla luce dei riflettori, trova spazio il racconto di una famiglia che non viene annoverata tra le più celebri d’Italia – come, al contrario, i Della Rovere o i Montefeltro – ma che ha svolto ugualmente un ruolo importante nel passato della regione, lasciando rilevanti tracce di sé, soprattutto nel comune di Camerino, in provincia di Macerata. La stirpe alla quale si sta alludendo è quella dei Da Varano; la sua presenza a livello regionale fu fondamentale, in quanto essa governò per circa tre secoli la città di Camerino e tutto il territorio circostante.

    Nell’intento di ricostruire la genealogia del casato, gli storici locali si trovano in discordanza tra loro in merito a chi sia il vero capostipite: alcuni ritengono infatti che si tratti di Rodolfo da Varano, mentre per altri fu il figlio Prontaguerra, abitator Camerini nel 1130. Ciò che si può affermare con certezza, invece, è la natura guelfa della dinastia che, sin dalle origini, è stata sempre tramandata. Non per niente, le vicende legate ai Da Varano si inseriscono in un susseguirsi di scontri contro i ghibellini, ricostruzioni di città a seguito di assedi e saccheggi, oltre che ingenti aiuti da parte della Chiesa per ripartire dopo pesanti sconfitte, senza considerare le strategie politiche tese a stringere alleanze con altre famiglie guelfe tramite matrimoni di convenienza.

    Tra i personaggi più illustri dei Da Varano si possono menzionare, seguendo un ordine cronologico, Gentile ii, Rodolfo ii, Giulio Cesare e Giovanni Maria. Gentile ii, fervente guelfo, fu spesso protagonista di battaglie contro i ghibellini e, cercando in tutti i modi di compiacere il papa Innocenzo vi e il cardinale Albornoz, riuscì nel 1332 a ricevere la tanto ambita nomina di vicario pontificio. Le sue conquiste riguardano per lo più gli attuali territori di Tolentino e San Ginesio nelle Marche, Gualdo Tadino in Umbria, accrescendo così il prestigio della famiglia.

    Anche Rodolfo ii si dimostrò un signore assai coraggioso per Camerino: gli fu affidata la carica di gonfaloniere della Santa Romana Chiesa e oggi viene ricordato come il più celebre condottiero dei Da Varano. Giulio Cesare fu ugualmente un grande guerriero al servizio del papa, ma, quando nel 1502 Cesare Borgia conquistò la città, successe l’irreparabile: Michelotto Corella, condottiero dei Borgia, lo catturò e lo imprigionò nella fortezza di Pergola, dove venne ucciso senza nessuna pietà. Non ancora soddisfatto, si scagliò con ferocia contro i suoi figli: Annibale, Venanzio e Pirro. Li rinchiuse questa volta nella fortezza di Cattolica, strangolò Annibale e Venanzio, mentre Pirro venne ammazzato a Pesaro davanti alla chiesa di San Francesco.

    Dopo questi fatti drammatici, che segnarono profondamente la fiducia e la serenità dei Da Varano, Camerino fu riconsegnata dal papa Giulio ii a Giovanni Maria, il quale morì tuttavia nel 1527 senza lasciare figli maschi. Gli succedette allora nel titolo la sua unica erede, Giulia, la quale andò in sposa al duca di Urbino Guidobaldo ii Della Rovere quando la madre Caterina Cybo, messa alle strette davanti a un forte attacco nei confronti della sua Camerino, la promise al duca in cambio del suo aiuto per difendere la città. Nel 1535, però, papa Paolo iii si mostrò contrario all’unione tra i due, tanto da arrivare a scomunicarli entrambi, confiscando loro persino il territorio di Camerino, che venne reintegrato – ma solo formalmente – tra i beni della Chiesa.

    Sempre più in difficoltà, Caterina Cybo decise allora di trasferirsi a Firenze nel palazzo dei Pazzi, dove, grazie alle sue doti di gentilezza, cultura e savoir-faire, riscosse molto successo tra i letterati, alcuni dei quali la corteggiarono dedicandole le loro opere più celebri (tanto per dirne uno, Francesco Berni scrisse per lei un noto elogio contenuto nell’Orlando innamorato). Nel frattempo, nel 1539 Giulia e Guidobaldo, per poter vedere annullata la scomunica inflitta loro da Paolo iii, furono costretti a cedere Camerino al nipote Ottavio Farnese in cambio di settantottomila ducati. La storia tra i due coniugi si concluse tristemente nel 1547 quando, a seguito di una malattia, la ragazza morì all’età di soli ventiquattro anni.

    Volendo curiosare tra le figure più affascinanti dei Da Varano, incontriamo quella di Camilla, figlia di Giulio Cesare, signore di Camerino. Anche se nacque al di fuori del matrimonio del potente condottiero e mecenate con Giovanna Malatesta – quindi di fatto figlia illegittima della coppia – venne comunque educata all’interno dell’ambiente di corte. Ciò le permise di studiare il latino e di leggere i classici, di imparare a dipingere, suonare, ballare e andare a cavallo, nonché di lasciar libero di esprimersi il suo carattere vivace, esuberante, schietto e amante della bellezza. Anche per lei era previsto un matrimonio finalizzato a creare alleanze utili ma, affascinata dall’ordine dei Frati Minori dell’Osservanza, neppure l’opposizione di Giulio Cesare poté impedirle, appena ventitreenne, di entrare nel monastero delle monache clarisse di Urbino. Il padre fece allora fondare un ordine di clarisse anche a Camerino, cosicché nel 1484 suor Battista – questo il nome che le venne affidato – fece ritorno nella sua città natale portando sulle spalle una croce di legno che il convento conserva ancora con cura all’interno di una cripta.

    Uscendo dalla sfera dei personaggi ed entrando in quella dell’architettura, numerose sono le strutture ammirevoli legate ai Da Varano nelle Marche: elencarle tutte richiederebbe troppo spazio, ma possiamo citare quantomeno le principali.

    La più famosa in assoluto è senza ombra di dubbio la rocca Varano, splendido edificio che intorno al xiii secolo fu eretto su uno sperone roccioso a sette chilometri dalla città di Camerino, tra la fiorente valle del Chienti e del Rio San Luca. In principio venne sfruttata esclusivamente come residenza, ma dal 1300 – a causa dei continui attacchi che la famiglia doveva affrontare – assunse il compito di fortezza difensiva vera e propria. La posizione si rivelò assai strategica sotto molti punti di vista: risultava in primo luogo pressoché inespugnabile per il modo in cui era stata costruita secoli addietro, aspetto, questo, che garantì la sicurezza della città e dell’intero territorio camerte per un lungo periodo; inoltre, permetteva di imporre a mercanti e pellegrini provenienti o diretti verso l’Appennino, in viaggio tra le Marche e l’Umbria, tasse che portarono ai Da Varano prosperità, autorità e prestigio.

    Parzialmente restaurata, nel 1997 l’antica rocca è stata data in gestione all’associazione per l’artigianato artistico Arti e Mestieri, che oggi offre la possibilità di farvi visite guidate, risultando così un’ideale meta turistica per gli appassionati della storia medievale e non solo. È inoltre utilizzata come sede per mostre, convegni e manifestazioni culturali. Da notare il dettaglio che per accedere all’interno occorre attraversare una parte in legno riprodotta suggestivamente sulle fattezze del vecchio ponte levatoio.

    Un’altra realtà di grande interesse e attrazione culturale si trova poi a Pievebovigliana ed è il castello di Beldiletto. Giulio Cesare lo fece arricchire con decorazioni e dipinti ispirandosi allo stile delle ville dei Medici e trasformandolo di fatto in una sede per la villeggiatura estiva destinata al puro ozio. Il salone principale del primo piano appare tanto sfarzoso quanto coinvolgente agli occhi del visitatore: sulle ampie pareti sono raffigurati sessanta uomini a cavallo di grandezza quasi naturale; i soffitti, invece, si presentano trabeati e un camminamento è ornato di affreschi, tra cui uno interamente dedicato a un albero di pere. Quest’ultimo originale elemento pare trovi la sua motivazione nella curiosità segreta che in quegli anni Giulio Cesare provasse una forte passione amorosa per una donna della famiglia Perozzi.

    Fu proprio durante questo periodo che i Da Varano cominciarono anche un’opera generale di ammodernamento di Palazzo Varano, nella piazza principale di Camerino, con una spinta di tipo umanistico data dai rapporti culturali sempre più frequenti con Firenze e la corte dei Medici. Il fatto è testimoniato dai molti contratti stilati con artisti toscani, poi rinvenuti tra gli archivi storici.

    Un’ulteriore opera architettonica che tocca molto da vicino la figura di Giulio Cesare e il suo spirito sensibile all’arte è quindi il castello di Lanciano, situato nel comune di Castelraimondo, sempre in provincia di Macerata. Esso fu un dono che il sovrano fece alla moglie Giovanna di Malatesta, la quale intorno al 1489 lo volle restaurare in tipico stile rinascimentale. Nel comune di Tolentino, invece, lungo la via lauretana – nello specifico sulla pianura alla sinistra del fiume Chienti – si erge il noto castello della Rancia. Fu costruito intorno all’xi secolo come fattoria fortificata dotata di strutture adibite alla difesa delle derrate agricole. In seguito, Rodolfo ii Da Varano lo volle ampliare senza tuttavia privarlo della sua funzione originaria, utilizzandolo quindi sia come fortezza difensiva che come dimora signorile. L’edificio presenta una forma quadrangolare con tre torri, una delle quali si innalza proprio in corrispondenza dell’ingresso principale, in origine protetto da un ponte levatoio; infine il mastio si erge su ben quattro piani per un totale di venticinque metri di altezza. Attualmente il castello appartiene al comune di Tolentino e, dal 2000, è sede del Museo civico archeologico Aristide Gentiloni Silverj.

    Chiunque volesse approfondire il tema della famiglia Da Varano e dei molti luoghi delle Marche a essa legati può farlo consultando il libro Il Sistema di difesa dello Stato di Camerino – segno distintivo di un territorio di Massimo Costantini.

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    …Federico da Montefeltro realizzò la più importante biblioteca del Rinascimento

    Era l’estate del 1422 quando, nel castello di Petroia a Gubbio, tra le dolci colline dell’Umbria, nacque Federico da Montefeltro. Viene allora naturale chiedersi: cosa lega questo personaggio alle Marche?

    Come tutti sapranno, egli fu un abile condottiero e capitano di ventura, conte di Montefeltro, di Casteldurante e ovviamente di Urbino. Dopo anni spesi a dimostrare il suo valore, nel 1474 gli fu finalmente conferita la nomina di duca d’Urbino che, da allora, ricoprirà per il resto della sua vita.

    Non è del tutto chiaro, invece, chi fossero i suoi genitori naturali. Secondo recenti studi pare fosse figlio del duca Bernardino Ubaldini della Carda, tuttavia una bolla del papa Martino v lo legittimò come figlio di Guidantonio da Montefeltro e tale si considerò sempre anche lui stesso. Pierantonio Paltroni, segretario e biografo ufficiale, scrisse di lui: «Qual ch’el fusse et figliolo de Bernardino et de casa degli Ubaldini, per omni modo è manifesto el decto conte Federigo esser nato da preclarissima stirpe».

    Nonostante ciò, Federico passò la maggior parte del suo tempo da bambino al di fuori dell’ambiente urbinate e in particolar modo lontano dalla corte, dove venne introdotto soltanto nel 1424, per esserne però di nuovo allontanato tre anni dopo, a seguito della nascita di Oddantonio, figlio legittimo del conte con Caterina Colonna. La storia ci racconta che una parte della sua infanzia la trascorse nel monastero benedettino di Gaifa e che in seguito, per volontà del padre, venne introdotto nella corte di Giovanna Alidosi. Fu spostato poi a Mantova, dove non gli mancarono di certo le lodi e le accortezze: qui fu infatti istruito dall’umanista Vittorio da Feltre e nel 1433 l’imperatore Sigismondo gli consegnò le armi nominandolo subito cavaliere.

    La prima cosa che fece quando, dopo lungo tempo, ritornò finalmente a Urbino fu di unirsi in matrimonio con Gentile Brancaleoni: attenzione, non lasciatevi ingannare dal nome! Sebbene possa sembrare da uomo, Gentile era (ed è tuttora) un nome sia maschile che femminile; nel caso di Federico colei con cui si sposò era chiaramente una donna. Senza perdere troppo tempo, già nel 1443 Federico diventava conte di alcuni castelli ubicati nelle terre di Mercatello sul Metauro, in provincia di Pesaro e Urbino.

    Nel 1438, intanto, era riuscito ad assumere il comando della cosiddetta Feltria, importante compagnia militare protetta e finanziata sia da Guidantonio da Montefeltro che da Bernardino Ubaldini dalla Carda. Nel frattempo, entrò anche nell’esercito guidato da Niccolò Piccinino come militante, dimostrando sempre più un ovvio interesse per il mondo della guerra e delle armi.

    Dopo l’atroce assassinio del fratellastro Oddantonio nel 1444, ad appena un anno dalla sua venuta nelle Marche, Federico divenne, ancora giovane, acclamato signore di Urbino, prendendo così il controllo su tutti i domini ereditati dagli avi. Ovviamente, il delitto gli procurò non poche dicerie sul fatto che egli stesso fosse coinvolto nell’organizzazione dell’omicidio o, addirittura, che ne fosse stato il promotore; di motivi, d’altronde, ne aveva a bizzeffe.

    Gli eventi a suo sfavore non terminarono tuttavia con la morte del fratello. Come la maggior parte dei grandi personaggi storici di potere, anche Federico non si fece mancare una scomunica da parte del papa quando, nel 1445, prese il comando della signoria di Fossimbrione senza chiedere l’autorizzazione della Chiesa. Per sua fortuna, dopo due anni papa Nicolò v decise di revocargliela, autorizzandolo di fatto anche a controllare la terra precedentemente persa.

    Da allora in avanti, la sua vita non fu mai semplice, sebbene per diversi aspetti piacevole. L’anno dopo, ad esempio, riuscì all’ultimo momento a bloccare un complotto – la nota congiura di Carnevale – organizzato contro di lui dalle forze della Chiesa e fomentato da Sigismondo Pandolfo Malatesta. L’episodio si concluse con una triste serie di decapitazioni, tra cui quelle di Antonio di Nicolò da Montefeltro, Francesco di Vico e Giovanni di San Marino, i quali secondo lui erano tutti coinvolti nel tradimento.

    Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore di Rimini, fu per Federico un eterno rivale, contro il quale dovette indirizzare la maggior parte della sua azione politico-militare. L’antipatia naturale tra i due andò infatti a sommarsi agli antichi contrasti tra le casate dovuti a ragioni economiche e di potere, già noti dalla metà del Duecento. Questa infinita contesa si risolse soltanto nel 1462 con la celebre battaglia di Cassano, quando Sigismondo fu costretto alla ritirata e, nel giro di pochi mesi, perse tutti i suoi territori a eccezione di Rimini. Federico, al contrario, si arricchì con questa strategica mossa di guerra – ambito in cui era ormai diventato astuto ed esperto – di importanti e ampie aree nel Montefeltro.

    Fu tuttavia nel 1474 che egli raggiunse la vetta del successo e del prestigio attraverso la nomina da parte di papa Sisto iv della Rovere a duca d’Urbino, con tanto di annessa concessione dell’Ordine equestre di San Pietro. In quello stesso fortunato anno, il re Ferdinando i di Napoli lo aggregò all’Ordine dell’Ermellino, mentre il re Edoardo iv d’Inghilterra lo fece entrare nell’Ordine della Giarrettiera.

    Di certo Federico fu un uomo che seppe conquistare terre e successo con impressionante facilità, spesso non facendosi scrupolo di uccidere o mancare alla parola data per raggiungere i propri scopi. Gli studi più recenti lo vedono, oltretutto, tra gli artefici principali della congiura dei Pazzi, avvenuta il 26 aprile 1478 all’interno del duomo di Firenze con l’intenzione di eliminare Lorenzo il Magnifico e suo fratello Giuliano, strappando così l’egemonia della città alla famiglia dei Medici. È stata persino trovata una lettera dove sembra che il duca Federico affermi che, una volta terminata la strage, avrebbe marciato con le proprie truppe su Firenze: dunque, una prova ineludibile del suo coinvolgimento nel terribile avvenimento che causò la morte di molti fiorentini e anche marchigiani.

    Se questi furono gran parte dei fatti che si svolsero sotto l’egida di Federico da Montefeltro, ma non bisogna dimenticare che egli fu anche uno dei principali promotori delle arti in pieno Rinascimento, tanto da essere infine ricordato prima di tutto come mecenate, e solo in seconda istanza come condottiero militare. Durante gli anni del suo dominio, il ducato di Urbino si arricchì di assoluta raffinatezza, diventando uno tra i più importanti centri culturali di tutta Italia; basti pensare che contava oltre settemila abitanti e tra

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