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La pazienza della memoria
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E-book164 pagine2 ore

La pazienza della memoria

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Info su questo ebook

La storia della famiglia Strazzera, quattro generazioni che attraversano il Novecento, viene ricostruita dall'ultima discendente che raccoglie con amorevole pazienza documenti privati e pubblici, testimonianze di parenti e amici prima che vadano perdute per sempre. Le vicende dei bisnonni, Libero e Maria Pia, dei loro sette figli e dei due nipoti si dipanano all'ombra della Storia che determinerà talvolta in modo tragico i loro destini. Intorno una folla variegata di personaggi le cui vite a vario titolo si mescolano con le loro attraverso l'amicizia e la solidarietà, le piccole e grandi meschinità che costituiscono la natura ambivalente dell'essere umano. Sullo sfondo una città di mare, mai nominata ma perfettamente riconoscibile.
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2017
ISBN9788892659698
La pazienza della memoria

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    Anteprima del libro

    La pazienza della memoria - Grazia Tanzi

    UNO

    La nonna si chiamava Léontine, no non era francese, era italianissima tant'è che di cognome faceva Strazzera. Quel nome esotico lo aveva scelto e fortemente voluto sua madre, la bisnonna Maria Pia che tale era di nome e di fatto, una donna bellissima, delicata di aspetto e di salute, cattolica fervente e praticante, lettrice assidua delle vite dei santi, devotissima alla Beata Vergine che la prima parte del suo nome ricordava. Una volta al mese, lei che usciva pochissimo e solo per lo stretto necessario, si vestiva di tutto punto, metteva al braccio la sua grande sporta fatta di quadratini di pelle di vari colori e col tram andava in centro. Tornava con un paio di libri sotto il braccio - due nuove vite di santi avvolti in carta da pacchi color paglierino - e con la sporta rigonfia. In famiglia non c'erano gran lettori per cui nessuno manifestava curiosità per i suoi acquisti personali, i figli - per un po' di tempo tutti maschi - e il marito erano più interessati alle leccornie contenute nella grande sporta che lei, al suo arrivo, poneva sul tavolo lasciando che vi si accalcassero intorno spintonandosi come piccioni cui si getta il pan secco. Ciascuno era certo di trovare qualcosa solo per sé, Maria Pia conosceva bene i gusti di tutti e li accontentava nel dolce e nel salato e, in particolare per il marito, nell'alcolico.

    Mentre i piccioni frugavano nella sporta lei, senza neppure cavarsi il cappello, si precipitava nella stanzetta del cucito, rifasciava in fretta i nuovi volumi e li riponeva su uno scaffaletto dove ce n'erano diversi altri, anch'essi rifasciati con carta di recupero, ciascuno recante sul dorso un nome maschile o femminile senza nessun attributo, presumibilmente il nome del santo, vergato con l'elegante corsivo imparato alla scuola delle suore. Quei nomi erano tutti francesi. Indubbiamente la cattolica Francia aveva generato un grande stuolo di venerabili santi, ma il nostro Paese non era da meno, eppure nessun martire, nessun abate, nessun eremita, nessuna vergine, era lì a rappresentarlo. La scoperta del motivo di questa esotica predilezione avvenne molti anni dopo ed io vi ebbi un ruolo determinante, almeno nel renderlo palese all'ultimo membro della famiglia perché, come venni a sapere in seguito, qualcuno ne era venuto a conoscenza molto tempo prima di me con gran stupore e divertimento. Maria Pia si dedicava alla lettura non appena aveva un po' di tempo libero: quando i ragazzi erano a scuola o a giocare in cortile, nel pomeriggio dopo aver rigovernato la cucina, dopo cena poco prima di andare a letto.

    Il bisnonno suo marito si chiamava Libero, era un uomo grande e grosso, di belle proporzioni e bella faccia, aveva gli occhi di un azzurro intenso e brillante ed una chioma rosso rame, ribelle e incolta. Proveniva da una famiglia di miscredenti anarchici venuta al nord dalla Sicilia al seguito di Garibaldi. Era un fiero e fantasioso bestemmiatore che tuttavia rispettava la fede della moglie. La domenica mattina la accompagnava fin sulla porta della chiesa e poi se ne andava all'osteria a bere, ad imprecare contro il governo, a comporre nuove bestemmie - che declamava come versi poetici con la sua bella voce baritonale - per il divertimento degli astanti. All'ora in cui la messa stava per finire però schizzava via e si piazzava a gambe larghe sul sagrato, non senza una certa aria di sfida, porgeva il braccio alla moglie, le dava un sonoro bacio, senza curarsi del suo imbarazzo, e se ne tornava a casa compiacendosi della bella donna che aveva al fianco.

    Libero considerava la fede della moglie un innocuo passatempo, quasi un gioco da bambini, e i suoi libri per lui erano fiabe che di quel gioco facevano parte. Talvolta però - tornando per qualche necessità dal suo laboratorio di falegname situato nei fondi del palazzo - gli capitava di trovare la moglie seduta nella poltrona vicino alla finestra, bianca in viso e con gli occhi arrovesciati come Santa Teresa in estasi, tremante in preda alle convulsioni, le mani aggrappate al libro, mentre mormorava ansimando il nome del santo di turno alternandolo a brani di preghiere e a giaculatorie. Il pover'uomo, sapendo che la salute della moglie era delicata, si preoccupava e pensava che quelle troppo intense invocazioni ai santi potessero nuocerle. Allora le si inginocchiava accanto, la accarezzava piano piano e lei dopo qualche sussulto e gemito si calmava, riprendeva colore, lo abbracciava e lo baciava castamente sulle guance. Lui la rimproverava con dolcezza: « Non devi leggere troppo il pomeriggio, questi santi fanno cose tremende nel nome del Signore, resti tutta sconvolta! Ti senti male! ». Lei sorrideva, guardava nel vuoto e sospirava profondamente. Era davvero una donna devota e sensibile oltre che bellissima pensava il marito. Il quale peraltro aveva scoperto che la lettura serale aveva invece un effetto benefico su di lei, intanto era più breve, infatti scorse poche pagine Maria Pia si alzava, riponeva il suo libro e diceva al marito con tono leggermente perentorio: « Andiamo a letto!» e Libero scattava come una molla. I ragazzi più piccoli dormivano già, solo Giovanni il maggiore, un ragazzone già ben conformato come il padre, indugiava. « Hai sentito tua madre, a letto! » tuonava Libero e lui filava, ma poco dopo si accostava alla porta della camera dei genitori e sogghignava ascoltando sospiri, mugolii e il ritmico cigolio delle reti del letto. Due grida roche e soffocate, a breve distanza l'una dall'altra, erano il segnale che la quiete stava per tornare, allora Giovanni tornava nella sua stanza impegnandosi prima però a far cigolare anche lui le molle della rete per un po', dopo di che si addormentava soddisfatto.

    Nel letto accanto al suo dormiva il secondogenito Arcangelo, un adolescente biondo e ricciuto, di complessione delicata, occhi azzurri trasparenti - come il mare calmo diceva sua madre – sensibile e intelligente. L'aneddotica familiare riporta che la madre appena lo vide, biondo, ricciuto e occhiceruleo, esclamasse: « È bello come un angelo, no di più un arcangelo! » e così fu deciso il suo nome. Giovanni malignamente sosteneva che il fratello alla nascita era completamente calvo e portava a testimonianza una fotografia scattata al ricevimento del battesimo da una compagna di collegio della mamma. Bravissimo a scuola, Arcangelo veniva continuamente lodato dal severo e devoto maestro Adelmo Pinzocchi che ne apprezzava la prontezza nell'apprendere e la sensibilità religiosa e gli impartiva, con grande soddisfazione, i precetti del catechismo e le prime nozioni di teologia.

    Arcangelo fingeva di dormire, ma sapeva benissimo quello che il fratello faceva quasi ogni sera, e allora pregava silenziosamente invocando presso il Signore la salvezza dell'anima del suo congiunto peccatore. Il detto peccatore, non solo possedeva nozioni ampie e dettagliate sui piaceri della carne - tutte apprese dai compagni nell'officina meccanica in cui lavorava come apprendista - ma si stava dimostrando anche un buon allievo del padre. Si applicava con profitto nell'arte della blasfemia, nella quale sembrava particolarmente versato, facendo intendere che ben presto avrebbe superato il maestro, il quale peraltro riusciva qualche domenica ogni tanto, fra le accorate proteste della madre, a portarselo all'osteria per qualche corso di aggiornamento. I due fratelli tuttavia, a dispetto della loro diversità, erano legati da un profondo affetto. Giovanni prendeva sempre le difese di Arcangelo, spesso dileggiato dai compagni di scuola o dai ragazzacci in cortile; Arcangelo a sua volta aiutava Giovanni nello studio. In un'altra camera, comunicante con quella dei fratelli più grandi, dormivano i tre piccoli: i gemelli Pietro e Paolo, e Mario, l'ultimo nato, destinato di lì a poco a salire nella graduatoria di ben due posti.

    Quando Maria Pia seppe di essere nuovamente incinta, sapendo che avrebbe dovuto passare molto tempo a riposo in poltrona, provvedette a rifornirsi in gran copia dei suoi libri prediletti e attese serenamente il trascorrere dei nove mesi. Quale fu la sua gioia quando le fu annunciato che il nuovo frutto del suo grembo era una femmina! Prontamente comunicò alla famiglia riunita intorno al suo letto il nome che aveva scelto: Léontine, in onore di una sua santa prediletta. Al padre piacque molto, oscuramente sentiva in quel nome un che di provocatorio che un carattere come il suo non poteva che apprezzare. « Un nome forte, c'è il leone dentro! » esclamò. « È una santa che non conosco » disse Arcangelo. La mamma spiegò allora che era francese e poco nota, ma era una grande santa. « Ricordate tutti – raccomandò infine - si scrive con la e dopo la enne, ma si pronuncia Léontin. ». Scrisse il nome corretto su un foglio di carta, non dimenticando di segnare l'accento acuto sulla prima e, e aggiunse: «Niente diminutivi, per favore!». Nessuno ebbe nulla da obiettare, Maria Pia non era una madre autoritaria, ma sapeva farsi obbedire per virtù naturale. Il giorno dopo Libero, col vestito della festa si recò all'anagrafe a denunciare la nuova cittadina e quanto vagamente presagiva si realizzò.

    L'impiegato comunale, Olivaro Erberto, non Alberto, come era solito presentarsi, era un ometto grigio e insignificante, calvo e con l'alito cattivo, che da oltre trent'anni lavorava all'anagrafe costringendo tutti quelli che che si presentavano allo sportello a tenersi a distanza di sicurezza. Era ben conosciuto da Libero, abitava nel suo stesso caseggiato, un piano più sotto, con la moglie Irene piccola e grassa - esperta ed apprezzata studiosa dei fatti di tutto il quartiere - e con la figlia Carlotta, una spilungona attempatella con pretese di eleganza, cultura e bon ton. I tre erano un bell'esempio di famigliola cristiana, partecipavano attivamente a tutte le iniziative della parrocchia e il marito era fabbriciere per giunta, incarico di cui era oltremodo fiero e che non mancava mai di aggiungere alla presentazione di cui si è detto sopra. Vedendo arrivare Libero, Olivaro-Erberto-non-Alberto-fabbriciere ebbe un non troppo dissimulato moto di stizza. Inutile dire che fra i due non correva buon sangue. Libero, quando lo incontrava per le scale, lo stuzzicava col suo umorismo sferzante e grossier. Alludeva con finta complicità alle sue prestazioni sessuali, si compiaceva per l'instancabile attività dalla sua signora e per finire non mancava di descrivere e magnificare con linguaggio osceno le bellezze, inesistenti, della di lui figlia Carlotta. Erberto reagiva a quelle provocazioni con un secco buongiorno e affrettava il passo rodendosi il fegato: era troppo vile per reagire, data la mole di Libero e la sua volgare sì, ma implacabile eloquenza.

    Dunque Libero si presentò allo sportello senza rispettare la distanza di sicurezza, considerata la sua notevole statura gli bastava appena piegare la testa per non subire danni e la sua bella voce sonora assicurava l'invio del messaggio forte e chiaro. Erberto pensò che nel suo ruolo di pubblico ufficiale poteva prendersi qualche vendetta. Con aria compunta sfogliando un faldone di circolari esplicative illustrò - citando leggi, articoli, commi - i motivi per cui non poteva dare alla figlia quel nome, la legge non ammetteva nomi stranieri, e pronunciò con aria schifata Leontin omettendo l'accento acuto accentuando però la finale tronca. « Macché nome straniero! - replicò Libero - non sai leggere? » E gli mostrò il pezzo di carta sul quale la moglie aveva vergato con la sua bella grafia il nome della piccola. « Le-on-ti-ne » compitò Libero dimenticando anche lui l'accento acuto sulla prima e, ma calcando bene la voce sull'ultima. « Ah, - sibilò Erberto – volevi dire Leontina, allora va bene. ». Almeno questo, chissà chi era questa Léontine, una baldracca della Rivoluzione Francese, la puttana di qualche libero pensatore, pensò il pubblico ufficiale (altro incarico di cui si compiaceva) usando il linguaggio scurrile che si concedeva quando nessuno lo sentiva e nell'intimità delle sue cogitazioni. « I nomi femminili terminano per a! ».

    « Verissimo! - fece pronto Libero - e la tua signora Irenaaa come sta? E quell'altra che vai a trovare ogni due giovedì in quella casa in Piazza della Stazione, la signorina Agnesaaa fa sempre...». E qui si fermò perché con lui c'era quell'anima candida di Arcangelo e mai avrebbe voluto turbare la sua innocenza, però con studiata lentezza fece cadere il suo pugno poderoso sul bancone facendo sobbalzare tutta la cancelleria che vi si trovava e rovesciando per buona misura il calamaio il cui contenuto scuro si allargò rapidamente imbrattando moduli e circolari esplicative. A questo punto al povero Olivaro-eccetera-eccetera non restò che arrendersi, con quel demonio proprio non la si poteva spuntare! Prese un modulo immacolato e lo porse come se niente fosse a Libero accompagnandolo da un ineccepibile: prego signore! E si dette a pulire il suo tavolo da lavoro masticando fiele.

    Libero si rimboccò le maniche e cominciò a compilare il modulo sotto lo sguardo attento di Arcangelo verso il quale ogni tanto lanciava occhiate interrogative, il ragazzo assentiva o dissentiva secondo il caso scuotendo i riccioli biondi, ma sempre tenendo un fazzoletto su naso e bocca poiché, non avendo la statura del padre, era pericolosamente esposto ai miasmi mortali provenienti dal respiro dell'Olivaro. Detto per inciso pure in chiesa il posto accanto a lui era sempre vuoto perché anche la carità cristiana ha un limite. Così la nonna Léontine sia pure involontariamente, a un solo giorno di vita, aveva causato la sua prima zuffa. Nel corso degli anni altre ne sarebbero seguite, in momenti cruciali della sua esistenza, direttamente

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