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La strada del patriarca: La leggenda di Drizzt 16
La strada del patriarca: La leggenda di Drizzt 16
La strada del patriarca: La leggenda di Drizzt 16
E-book565 pagine7 ore

La strada del patriarca: La leggenda di Drizzt 16

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Info su questo ebook

Dopo aver aiutato Re Gareth Dragonsbane ad eliminare il potentissimo Re Stregone, Artemis Entreri e Jarlaxle si trovano ad un bivio: l’Assassino desidera scoprire il perché della sua esistenza e del suo amore per la mezzelfa Lady Calihye, mentre l’elfo scuro, per nulla desideroso di tornare a Menzoberranzan, vuole fondare il suo regno nel mezzo delle Bloodstone Lands, con il suo amico umano. Inseguiti dai seguaci dello stregone Knellict e dagli Assassini del regno, i due eroi antieroi si trovano a dover fuggire verso l’antica città natale di Entreri, Memnon.
LinguaItaliano
EditoreArmenia
Data di uscita26 lug 2019
ISBN9788834435946
La strada del patriarca: La leggenda di Drizzt 16

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    Anteprima del libro

    La strada del patriarca - R.A. Salvatore

    autorizzata.

    Preludio

    Sì, è bella, pensò Artemis Entreri mentre osservava Calihye, nuda, recarsi dal letto all’attaccapanni per recuperare pantaloni e camicia. Si muoveva con la grazia di un abile guerriero, facendo scorrere con disinvoltura una gamba davanti all’altra, posando con leggerezza i talloni morbidi e attutendo i propri passi. Era di altezza media, flessuosa ma forte, e le poche cicatrici che aveva sul corpo non sminuivano l’immagine aggraziata dei forti muscoli compatti. Era una creatura paradossale, si rese conto l’assassino osservandola, un essere di fuoco e fluidità. Poteva essere feroce o tenera, e sembrava capire come muoversi tra i due estremi per ottenere il massimo dell’effetto quando facevano l’amore.

    Indubbiamente faceva altrettanto sul campo di battaglia. Calihye non era semplicemente una combattente, era una guerriera, una pensatrice; conosceva quanto chiunque altro i propri punti di forza e le proprie debolezze, ma misurava quelli dell’avversario meglio dei più. Entreri non dubitava che la donna usasse spesso il proprio fascino femminile contro ignari antagonisti, facendo loro abbassare la guardia prima di sventrarli.

    Lui rispettava quel suo aspetto e l’immagine suscitò un sorriso sul suo volto spesso corrucciato.

    Fu un ghigno che ebbe vita breve, tuttavia, mentre l’uomo considerava la propria situazione. Su un piolo vicino all’attaccapanni accanto al quale si stava vestendo Calihye era appeso il cappello nero a falda stretta, un regalo di Jarlaxle. L’assassino aveva scoperto che il copricapo, come il suo compagno drow, era molto più di quel che sembrasse. Aveva molte utili proprietà, magiche e meccaniche, compresa l’abilità di gelare il suo corpo per aiutarlo a nascondersi meglio da occhi che percepivano il calore invece della luce; nella fascia recava inoltre inserito un filo metallico, facilmente retrattile, che gli permetteva di aderire così bene da non essere rimosso neppure da una caduta da cavallo.

    Più di quanto sembrasse, pensò Entreri. Non era forse così per tutto?

    Aveva dormito sodo dopo il suo incontro con Calihye, la notte precedente. Forse troppo? Si rese conto che la donna avrebbe potuto ucciderlo e gli guizzò nella mente il pensiero che stesse esercitando il proprio fascino su di lui. Nessuno l’aveva mai messo in una posizione di tale vulnerabilità.

    No, si rassicurò mentalmente, i suoi sentimenti nei miei confronti sono autentici; questo non è un gioco.

    Eppure, osservò, non sarebbe proprio stata la tipica strategia di Calihye fargli abbassare la guardia in modo così totale, per poi azzardarsi ad attaccarlo?

    Entreri si prese la testa tra le mani e si strofinò gli occhi annebbiati; così facendo scrollò il capo e fu lieto del fatto che le mani coprissero il suo sogghigno impotente. Avrebbe spinto se stesso alla pazzia con pensieri simili.

    «Vieni con me, allora?» chiese la donna, distraendolo da quella fantasticheria.

    L’assassino alzò il capo e la guardò di nuovo, lì in piedi accanto alla rastrelliera. Era ancora nuda, benché gli occhi dell’uomo non vagassero sul suo corpo, ma si posassero piuttosto sul volto. Secondo ogni metro di giudizio, un tempo Calihye doveva essere stata una giovane di considerevole bellezza, con sorprendenti occhi blu che talvolta evidenziavano riflessi grigi. In altre occasioni, a seconda dello sfondo, dell’illuminazione, degli abiti che indossava, quegli occhi brillavano di una squisita tonalità di azzurro e in un modo o nell’altro risultavano sempre notevoli a causa del contrasto con i capelli corvini. Aveva il volto simmetrico, la struttura ossea era impeccabile.

    Ma quella cicatrice! Le attraversava la guancia destra arrivando fino al naso, poi scendeva attraverso le labbra raggiungendo il centro del mento; si trattava di uno sfregio terribile, spesso rosso e infiammato. Entreri sapeva che lei la usava per nascondersi, quasi a voler negare la propria bellezza femminile.

    Quando Calihye faceva scintillare il proprio sorriso, tuttavia, così malizioso e pericoloso, l’assassino notava a malapena lo strappo sulle labbra. Per lui quella donna rimaneva bella e, a parte considerare le motivazioni che la spingevano a tenere la cicatrice e il significato più profondo che sembrava rivestire per lei, l’uomo la notava a malapena. Non lo distoglieva affatto, tanto era perduto nei misteri che covavano nei suoi occhi. La giovane scrollò il capo e i folti capelli le si rovesciarono sulle spalle, tanto che Entreri desiderò balzare da lei ad affondare il volto in quelle chiome morbide e calde.

    «Eravamo d’accordo di mangiare», gli ricordò Calihye, sospirando e iniziando a infilarsi la camicia. «Avrei pensato che ti fosse venuta una fame da lupo».

    Uscendo con la testa dal colletto, la donna posò gli occhi sull’amante e il sorriso svanì.

    Quel cipiglio improvviso diede a Entreri un indizio della propria espressione. Si era incupito e non sapeva perché. Non aveva in mente un singolo pensiero che in quel preciso istante potesse motivare uno sguardo torvo sul suo volto. La donna non poteva suscitargli una simile preoccupazione, dopo tutto, perché la considerava un punto luminoso nella sua miserabile vita. Ma lui era accigliato davvero, come rivelava l’espressione riflessiva e aggrondata della ragazza.

    Negli ultimi tempi Artemis aveva spesso quell’espressione tetra, anche se forse era sempre stato così, e di solito senza alcun motivo evidente, a parte quello, naturalmente, di essere spesso arrabbiato, al tempo stesso per tutto e per niente.

    «Non dobbiamo necessariamente mangiare», disse la mezzelfa.

    «No, no, certo che dovremmo andare a cercare qualcosa da mettere sotto i denti, è già mattina inoltrata».

    «Che cosa ti inquieta?».

    «Nulla».

    «Non ti sono piaciuta, stanotte?».

    Entreri fu quasi sul punto di sbuffare con forza a quell’assurdità, e non poté fare a meno di reprimere un sorriso, considerando Calihye e rendendosi conto che lo stava semplicemente spronando a farle un complimento.

    «Mi sei piaciuta per molte notti, enormemente, e l’ultima è stata tra quelle», rispose, lieto di vedere il sollievo evidente della giovane.

    «Allora che cosa ti inquieta?».

    «Ti ho detto che non sono inquieto». L’uomo si protese a raccogliere i pantaloni e iniziò a infilarseli; si fermò quando sentì la mano di Calihye sulla spalla e alzò lo sguardo su di lei, che lo fissava con aria preoccupata.

    «Le tue parole non corrispondono all’espressione del volto», lo incalzò la mezzelfa. «Dimmelo. Non riesci a fidarti di me? Che cosa turba l’umore di Artemis Entreri? Che cosa ti è preso? Che cosa ti è successo, per accendere questo fuoco interiore?».

    «Parli per sciocchi enigmi frutto della tua stessa immaginazione». L’assassino tornò a chinarsi per infilarsi i pantaloni, ma la donna lo afferrò più stretto, costringendolo a riportare lo sguardo su di lei.

    «Che cosa c’è?» insistette. «Come viene creato un guerriero perfetto come Artemis Entreri? Di quale storia sei frutto?».

    L’uomo distolse lo sguardo dall’amante e lo abbassò sui propri piedi, senza tuttavia vederli davvero. Con l’immaginazione tornò ragazzo, appena poco più di un bambino, nelle strade polverose di una deserta città portuale, piena dell’odore della salamoia o colma di sabbia pungente, a seconda della direzione del vento.

    I carri scricchiolavano benché non fossero in movimento, mentre la brezza sabbiosa sfrigolava contro i loro fianchi di legno. Un paio di cavalli nitrirono a disagio e uno si impennò addirittura per quanto glielo permise il finimento stretto e pesante. Il conducente, un uomo slanciato e forte dagli aspri lineamenti spigolosi, che ricordava al ragazzo suo padre, non perse tempo e iniziò a frustare selvaggiamente la creatura spaventata.

    Sì, proprio come suo padre.

    Il grasso commerciante di spezie seduto su uno dei carri lo fissò a lungo. Quegli occhi dalle palpebre pesanti sembravano invitarlo a sonnecchiare, ipnotici come un serpente ondeggiante. Lui sapeva che c’era qualcosa, qualche magia dietro a quello sguardo, qualche metodo di controllo che aveva consentito a quella bestia patetica e trasandata di raggiungere una posizione di spicco all’interno della compagnia raccolta per aggregarsi alla carovana stagionale che avrebbe lasciato Memnon. Benché non fosse che un ragazzo e sapesse poco del mondo o della gerarchia della classe mercantile, notava la deferenza di tutti nei suoi confronti.

    Ma quello era il capo, certamente, e il ragazzo arrossì, lusingato per il fatto che il leader di così tante persone fosse disposto a trascorrere del tempo con lui e con sua madre. Quel fiero rossore divenne uno sguardo fisso d’incredulità, a bocca aperta e a occhi spalancati, quando l’uomo grasso porse monete… monete d’oro! Monete d’oro! Il fanciullo ne aveva sentito parlare, sapeva che esistevano, ma non ne aveva mai viste. Una volta aveva scorto uno sconosciuto darne alcune d’argento a suo padre, Belrigger, prima di andare dietro alla tenda con sua madre.

    Ma mai d’oro. Sua madre aveva in mano dell’oro!

    Fu davvero eccitante, ma soltanto per un breve attimo, perché poi Shanali, la mamma, lo afferrò rudemente per la spalla spingendolo nella stretta bramosa dell’uomo grasso. Lui si dimenò, cercando di divincolarsi; tentò di sottrarsi a quelle braccia sudate, per lo meno al fine di ottenere qualche risposta dalla madre.

    Ma quando infine riuscì a volgersi verso di lei, la donna si era già girata, avviandosi lontano.

    Il ragazzo la chiamò, l’implorò, chiedendole che cosa significasse tutto ciò.

    «Dove vai?

    «Perché sono ancora qui?

    «Perché mi stringe?

    «Mamma!».

    E la donna si girò a guardare, in un’occasione soltanto e appena per un attimo. Quel tanto che gli bastò a vedere per l’ultima volta su di sé gli occhi tristi e infossati di Shanali.

    «Artemis?».

    L’assassino si scrollò di dosso i ricordi e guardò Calihye, che sembrava al tempo stesso divertita e preoccupata, in modo strano.

    «Intendi startene lì seduto con un flauto tra le mani e i pantaloni intorno alle caviglie per tutta la mattina?».

    La domanda lo scosse e soltanto allora Entreri si rese conto di avere effettivamente in mano il flauto di Idalia, lo strumento magico che gli avevano donato le sorelle drago. E in realtà, come aveva osservato Calihye, aveva ancora i pantaloni calati. Posò lo strumento sul letto accanto a sé, o fu sul punto di farlo, ma in quel preciso istante si rese conto di non poterlo proprio lasciare. Insieme a quella presa di coscienza gli giunse una forza improvvisa, che lo spinse a lasciare cadere il flauto, ad alzarsi rapidamente in piedi e a tirarsi su i pantaloni.

    «Allora, di che cosa si tratta?» chiese la mezzelfa, e l’uomo la guardò con curiosità. «Che cosa crea un guerriero perfetto come Artemis Entreri?» chiarì la giovane.

    La mente dell’assassino ritornò di nuovo in un lampo a Memnon; gli balenò davanti un’immagine di Belrigger ed ebbe uno scatto.

    Si rese conto di tenere di nuovo in mano il flauto.

    Gli guizzò davanti il ghigno con un dente solo di Tosso-pash e gettò il flauto sul letto.

    «Addestramento? Disciplina?» domandò la donna.

    Entreri prese la camicia dalla sedia e le passò accanto, andando oltre.

    «Rabbia», disse, con un tono in grado di scoraggiare ulteriori domande.

    Era uno dei tanti rettangoli d’argilla in un mare di case simili, una struttura per nulla degna di nota di circa tre metri e mezzo di larghezza e uno e ottanta di profondità. Come tutte le altre era dotata di una tettoia, rivolta alla brezza marina, che di solito offriva l’unica possibilità di sollievo dal caldo implacabile di Memnon. Non c’erano pareti a dividere l’abitazione; un’unica tenda logora ripartiva la zona notte, dove dormivano sua madre e suo padre, Shanali e Belrigger, oppure Shanali e qualcun altro che aveva pagato Belrigger. Per il ragazzo c’era soltanto il pavimento della sala. Una volta, quando troppi insetti gli erano strisciati intorno, il bambino era salito a dormire sul tavolo, ma Belrigger l’aveva scoperto, picchiandolo duramente per la trasgressione.

    La maggior parte delle botte che aveva preso si erano fuse tra loro nella caligine del tempo che passava, ma quella bastonata in particolare, Artemis la ricordava con chiarezza. Più ubriaco del solito, Belrigger si era avventato contro la sua schiena e il suo posteriore con una vecchia tavola marcia, lasciandogli varie schegge nel sedere, che si erano infettate e avevano stillato pus bianco e verdastro per giorni.

    Shanali lo aveva raggiunto con un panno umido per pulire le ferite, quello lo ricordava. Gli aveva strofinato il fondoschiena delicatamente, con amore materno, e pur pronunciando alcune parole di rimprovero, dandogli dello sciocco per non aver ricordato le regole del padre, anche quelle erano state tinte di solidarietà.

    Era stata quella l’ultima volta che Shanali l’aveva trattato con gentilezza? Era quello l’ultimo ricordo piacevole che aveva di sua madre?

    La donna che l’aveva consegnato alla carovana di mercanti qualche mese più tardi non sembrava più la stessa creatura, era perfino cambiata fisicamente prima di quel giorno fatale dal mercante, era ormai pallida e incavata e non riusciva a formulare una frase intera senza fermarsi a riprendere fiato.

    La mente di Artemis rifuggì dal ricordo di quell’esperienza, tornando precipitosamente a Belrigger e a Tosso-pash, l’idiota sdentato e dal volto irsuto che trascorreva più tempo sotto il riparo di Belrigger di quanto non facesse lo stesso padrone di casa.

    L’immagine di Tosso-pash gli giunse a flash, mentre l’uomo lo sbirciava con occhi cupidi, sempre proteso su di lui, sempre che tentava di afferrarlo. Anche le parole del vagabondo balenavano in frasi che il ragazzo aveva udito fin troppe volte.

    «Sono il fratello del tuo papà.

    «Chiamami zio Tosso.

    «Posso farti star bene, ragazzo».

    La mente di Entreri si ritrasse da quelle immagini, da quelle parole, ancor più che dall’ultimo ricordo di sua madre.

    Per lo meno Belrigger quello non l’aveva mai fatto, non l’aveva mai inseguito in giro per i vicoli finché le gambe non gli dolevano per lo sforzo, non si era mai disteso accanto a lui quando cercava di dormire, non aveva mai cercato di baciarlo o di toccarlo. Belrigger si rendeva a malapena conto della sua esistenza, a parte quando si trattava di somministrargli l’ennesima bastonata o di investirlo con una sequela di insulti e maledizioni.

    Poteva soltanto immaginare di essere stato una grande delusione per suo padre. Che cos’altro poteva suscitare in quell’uomo una simile rabbia contro di lui? Belrigger era in imbarazzo a causa del fragile Artemis, provava vergogna e rabbia per il fatto di dover nutrire il ragazzo, anche se al figlio dava soltanto la crosta rinsecchita del suo pane o altri bocconi avanzati al termine del proprio pasto.

    E perfino sua madre gli aveva voltato le spalle, aveva preso l’oro…

    Le braccia flaccide del grasso mercante non fornivano calore, né conforto.

    Entreri si svegliò nell’oscurità, sentì il sudore freddo sull’intero corpo nudo; le coperte gli aderivano umide alla pelle.

    Il momento del panico si placò in qualche modo quando udì la respirazione regolare di Calihye accanto a sé. Fece per alzarsi, per mettersi a sedere e lo sorprese scoprire di avere posato di traverso sulla vita il flauto magico di Idalia.

    L’uomo lo prese e se lo portò davanti agli occhi, benché riuscisse a malapena a vederlo nella fioca luce stellare che penetrava attraverso l’unica finestra della stanza. Dalla sensazione che gli dava, sia fisicamente nelle mani, sia attraverso il legame emotivo che aveva raggiunto nella propria mente con lo strumento, era sicuro che si trattasse dello stesso flauto magico.

    Si fermò un attimo a riflettere su dove avesse posato lo strumento prima di andare a letto, e ricordò di averlo messo sul bordo di legno accanto a sé, a portata di mano.

    Dunque, a quanto pareva, l’aveva preso nel sonno ed esso gli aveva portato di nuovo quei ricordi.

    Entreri non poté fare a meno di chiedersi se si trattasse davvero di memorie. Le immagini che gli balenavano con tale chiarezza nella mente erano un resoconto preciso dei giorni della sua fanciullezza a Memnon? Oppure si trattava di qualche infernale manipolazione da parte del flauto che non finiva mai di sorprenderlo?

    Tuttavia ricordava chiaramente quel giorno con la carovana e sapeva che le immagini enfatizzate che ne dava il flauto erano davvero corrette. Il ricordo di Memnon, il tradimento finale e assoluto da parte di sua madre avevano seguito Artemis Entreri per trent’anni.

    «Stai bene?» chiese sommessamente Calihye, mettendosi a sedere sul bordo del letto. La udì spostarsi dietro di sé, poi la sentì contro la propria schiena, che si appoggiava a lui, cingendolo con le braccia per strofinargli il petto e tenerlo stretto.

    «Stai bene?» tornò a chiedere la donna.

    Mentre muoveva le dita lungo le curve lisce del flauto di Idalia, Entreri non era sicuro della risposta.

    «Sei teso», osservò la mezzelfa, e lo baciò sul lato del collo.

    Il movimento istintivo dell’uomo le rivelò tuttavia che non era dell’umore adatto per quel genere di cose.

    «Si tratta della tua rabbia?» lo sollecitò la donna. «Ci stai ancora pensando, alla rabbia che ha creato Artemis Entreri?».

    «Tu non sai nulla», le garantì l’assassino, lanciandole uno sguardo che perfino nell’oscurità la giovane percepì come un avvertimento: era entrata in un terreno in cui non era stata invitata.

    «Rabbia contro chi?» chiese comunque lei. «Contro che cosa?».

    «No, non si tratta di rabbia», la corresse l’assassino, parlando tra sé più che con lei. «È disgusto».

    «Contro?».

    «Sì», rispose l’assassino, staccandosi e alzandosi in piedi.

    Si volse verso Calihye. La giovane scrollò il capo e scivolò lentamente giù dal letto, portandosi a fianco dell’uomo; gli passò delicatamente il braccio dietro il collo e si strinse a lui.

    «Ti disgusto?» gli sussurrò all’orecchio.

    Non ancora, pensò Entreri, ma non lo disse. Tuttavia, se mai lo farai, ti trafiggerò il cuore con una spada.

    Allontanò a forza quell’idea dai propri pensieri e posò la mano su quella della mezzelfa, poi le rivolse un’occhiata in tralice, offrendole un sorriso confortante.

    Parte 1

    La corda del funambolo

    Sono ancora insieme, camminano fianco a fianco, con le mani sempre vicino all’elsa delle proprie armi, per difendersi l’uno dall’altro, immagino, oltre che da nemici diversi.

    Penso a loro molte volte, ad Artemis Entreri e a Jarlaxle. Anche con l’avvento di Re Obould e delle sue orde di orchi, anche nel bel mezzo della guerra e della minaccia per Mithral Hall, scopro che i miei pensieri vagano spesso attraverso le miglia della distanza e del tempo per trovare nella mia immaginazione un riscontro a quella improbabile coppia.

    Perché m’importa?

    Per Jarlaxle c’è l’idea onnipresente che un tempo conosceva mio padre, che in passato percorreva le vie di Menzoberranzan accanto a Zaknafein, forse più o meno come ora vaga per le strade del Mondo Superiore accanto ad Artemis Entreri. Ho sempre saputo che in questa strana creatura c’era una complessità che sfidava le facili aspettative che si potevano avere nei confronti di un drow, e anche quelle di un drow nei confronti di un suo simile. Trovo conforto nella complessità di Jarlaxle, perché serve da promemoria per l’individualismo. Dato il mio retaggio oscuro, spesso credere nell’individualismo è l’unica cosa che mi consente di conservare l’equilibrio mentale. Non sono intrappolato dal mio patrimonio, dai miei orecchi d’elfo e dalla mia pelle color carbone. Benché mi senta spesso vittima delle aspettative altrui, gli altri non possono definirmi, limitarmi o controllarmi finché capisco che non c’è una verità propria della razza, che le loro percezioni di chi io debba essere sono irrilevanti rispetto alla realtà di chi io sono.

    Jarlaxle rafforza quell’idea, è il ricordo più schietto che ci possa mai essere del fatto che in ciascuno di noi risiede una personalità che sfida i limiti esterni. Lui è unico, certamente, e io credo che questo sia un bene, perché il mondo non potrebbe sopravvivere a troppi individui del suo stampo.

    Sarei davvero un bugiardo se fingessi che il mio interesse per Entreri fosse limitato al suo legame con quel personaggio assertivo che è Jarlaxle. Anche se quest’ultimo fosse ritornato nel Buio Profondo, abbandonando l’assassino alla sua esistenza solitaria, ammetto che rivolgerei regolarmente i miei pensieri ad Artemis. Non lo commisero e non sarei disposto a soccorrerlo; non mi aspetto la sua redenzione o la sua salvezza, né il pentimento o l’alterazione dell’estremo egoismo che ne definisce l’esistenza. In passato ho ritenuto che Jarlaxle avrebbe influito su di lui in modo positivo, per lo meno nella misura in cui con ogni probabilità avrebbe mostrato a Entreri il vuoto della sua esistenza.

    Ma non è quella la spinta dei miei pensieri nei confronti dell’assassino. Non è in preda alla speranza, ma al terrore, che gli rivolgo così spesso le mie riflessioni.

    Non temo che venga a cercarmi per combattere un’altra volta. Accadrà? Forse, ma non si tratta di un’eventualità che mi faccia paura, da cui rifugga o di cui mi preoccupi. Se mi cercherà, se mi troverà, se sguainerà un’arma contro di me, ebbene che così sia. Si tratterà di un altro scontro in una vita di battaglie, per entrambi, a quanto pare.

    Ma no, il motivo per cui Artemis Entreri è diventato un chiodo fisso nei miei pensieri, e con terrore, è che mi ricorda chi sarei potuto essere. Nell’oscurità di Menzoberranzan ho camminato lungo un filo, su una corda da funambolo di ottimismo e disperazione, lungo un percorso che rasentava la speranza e al tempo stesso confinava con il nichilismo. Avessi finito per soccombere a quest’ultimo, fossi diventato l’ennesima vittima impotente della schiacciante società drow, avrei scatenato le mie lame in preda alla furia, invece che per la causa dell’onestà, perché tale spero e prego sia davvero lo scopo della mia lotta. In quei momenti di enorme stress, come quando ho creduto di aver perduto i miei amici, trovo quella rabbia piena di disperazione, abbandono il mio cuore, perdo la mia anima.

    Artemis Entreri abbandonò il proprio cuore molti anni fa. È evidente che soccombette alla disperazione. Non posso fare a meno di chiedermi quanto si differenzi da Zaknafein, benché farlo sia certamente doloroso. Mi sembra quasi di mancare di rispetto al mio amato padre, presentando un simile paragone. Sia Entreri che Zaknafein scatenano la furia delle loro lame senza rimorso, perché credono entrambi di essere circondati da un mondo indegno della loro misericordia. Dimostro la fondatezza di questa tesi differenziando tra i due e dicendo che la ripugnanza di Zaknafein era fondata, laddove Entreri è cieco ad aspetti del suo mondo meritevoli di empatia e indegni del giudizio aspro e definitivo dell’acciaio.

    Ma Artemis non fa differenze. Vede il mondo che lo circonda come Zaknafein considerava Menzoberranzan, con lo stesso amaro disgusto, il medesimo senso di disperazione e perciò un’identica mancanza di rimorso nel muovere guerra contro di esso.

    Si sbaglia, lo so, ma non mi riesce difficile riconoscere la fonte del suo atteggiamento spietato; l’ho già vista in precedenza, e in un uomo che considero con la massima stima, e a cui, a dire il vero, devo la mia stessa vita.

    Siamo tutte creature ambiziose, anche se quell’ambizione è volta a liberarci dalla responsabilità. Il desiderio di sfuggirvi è, in sé e per sé, ambizione, e perciò tale elemento è una verità inevitabile dell’esistenza razionale.

    Come Zaknafein, Artemis Entreri ha interiorizzato i propri obiettivi, mira al miglioramento di sé, cerca la perfezione del corpo e l’eccellenza nelle arti marziali, non mosso dal desiderio di indirizzare quella perfezione verso un obiettivo più grande, ma piuttosto per usarla al fine della sopravvivenza. Cerca di nuotare al di sopra del lerciume e del fango, per poter mantenere pulito il proprio afflato.

    L’ambizione di Jarlaxle è decisamente l’opposto, come lo è la mia, benché i nostri scopi, temo, non siano dello stesso genere. Jarlaxle non cerca di controllare se stesso, ma l’ambiente che lo circonda. Laddove Entreri può impiegare ore a costruire la memoria di una singola sequenza, il drow impiega il proprio tempo a forzare e a manipolare chi gli sta intorno, per creare un ambiente circostante che risponda alle sue esigenze. Non fingo di capire quelle necessità per quanto riguarda l’elfo scuro; credo siano ambizioni interne, che non hanno nulla a che fare con le maggiori necessità della società o con il minimo senso del bene comune. Se dovessi avanzare un’ipotesi basata sulla mia esperienza limitata con quell’individuo alquanto inusuale, direi che Jarlaxle crea tensione e conflitto allo scopo di divertirsi, deriva un vantaggio personale dalle proprie macchinazioni. Indubbiamente nell’orchestrazione del combattimento tra me e Artemis Entreri nella replica di Crenshinibon si celava una manovra volta ad attirare in modo più totale all’interno del proprio gregge un elemento prezioso come l’assassino. Credo tuttavia che il drow causerebbe problemi anche senza la lusinga di un tesoro o di un vantaggio personale.

    Forse è annoiato da troppi secoli d’esistenza e ciò che è terreno è diventato per lui rappresentativo della morte. Crea eccitazione fine a se stessa. Il fatto che agisca con insensibilità e indifferenza per coloro che diventano elementi involontari del suo gioco spesso mortale è testimonianza del medesimo genere di rassegnazione negativa che molto tempo fa contagiò Artemis Entreri e Zaknafein. Quando penso a Jarlaxle e a Zaknafein fianco a fianco a Menzoberranzan, devo chiedermi se non siano piombati per le strade con l’effetto di un terribile monsone, lasciando una scia di distruzione insieme a una moltitudine di elfi scuri confusi, a grattarsi la testa di fronte alla risata della folle coppia in allontanamento.

    Forse in Entreri Jarlaxle ha trovato un altro compagno nella sua tempesta privata.

    Ma Artemis, malgrado tutte le similitudini che li caratterizzano, non è Zaknafein.

    Mi aspetto che la differenza di metodo e, fatto più importante, di obiettivo tra i due, si tradurrà in una dura lotta costante tra loro, se non ha già finito per allontanarli l’uno dall’altro, o se non ha già lasciato uno dei due, o entrambi, morti nel rigagnolo di una strada.

    Zaknafein, come Entreri, poteva aver trovato la disperazione, ma non perse mai la propria anima al suo interno, non vi si arrese mai.

    Artemis Entreri alzò invece molto tempo fa quella bandiera bianca, e si tratta di un vessillo che non è facile strappare.

    Drizzt Do’Urden

    1

    La solita vita?

    Non era un granché come porta, a dire il vero, semplicemente qualche tavola messa insieme e legata con corda logora, vecchi stracci e tralci di rampicanti, così quando il feroce nano si lanciò alla carica investendola in pieno, essa esplose disintegrandosi. Legno, corda e viticci volarono all’interno della piccola grotta, trascinandosi dietro brandelli di stoffa.

    Nessuna furia evocata dai Nove Inferni avrebbe potuto provocare maggiore tumulto e caos negli istanti che seguirono. Il nano, con i folti capelli neri che svolazzavano follemente, la barba lunga separata nel mezzo in due lunghe trecce che gli rimbalzavano sul petto e sulle spalle, si scagliò contro i poveri goblin, facendo vorticare con precisione micidiale le stelle del mattino gemelle.

    Il terribile piccoletto s’indirizzò verso il gruppo di mostri più numeroso, costituito da quattro creature, si lanciò di gran carriera in mezzo a loro senza curarsi delle rozze armi che brandivano, facendosi strada a forza di colpi, annientandone le difese, tirando calci, calpestando e distruggendo con le devastanti stelle del mattino, le cui teste di metallo irte di punte sferzavano all’estremità di catene di adamantio. Colpì un goblin in pieno petto, schiacciandogli i polmoni e facendogli fare un volo di tre metri. Volgendosi e chinandosi evitò una lancia che gli veniva scagliata contro e che non era altro che un bastone appuntito, e mentre rotolava su se stesso, alzò trasversalmente il braccio non impegnato, agganciando quello del goblin e scagliandolo di lato. Si raddrizzò poi davanti all’avversario, e facendo oscillare un paio di volte le proprie armi al di sopra del capo, gli mandò in frantumi la spalla e il cranio. Sferrò un forte calcio sotto al mento della creatura, mentre questa piombava giù sulla pietra, e ne fece a pezzi la mandibola, benché essa fosse già talmente lontana dalla vita da non urlare neppure.

    Le trecce del nano sferzarono mentre lui balzava, volgendosi ad affrontare i due goblin restanti, che non potevano eguagliare tanta ferocia, non sembravano neppure capirne il significato, ed esitarono per un attimo appena.

    Un istante più di quanto servisse al loro aggressore.

    Corse avanti, colpendo i mostri con entrambe le braccia; uno lo prese in pieno, l’altro con un colpo di rimbalzo, ma anche il secondo inciampò sotto il peso dell’assalto, e il nano gli rotolò sopra, spingendolo giù con calci e colpi. Corse oltre e si lanciò verso la porta, balzando in una piroetta laterale e uscendone con una doppia sventola che colse un goblin alla schiena, mentre cercava di battere in ritirata attraverso la porta, per ritornare sui pendii montuosi. A dire il vero la creatura riuscì a varcare la soglia e molto più in fretta di quanto avrebbe mai potuto credere possibile se ci avesse pensato.

    La spina dorsale devastata del goblin ebbe la precedenza, tuttavia, e mentre si accasciava sulla pietra e nella polvere sentì… non sentì nulla.

    Il nano atterrò davanti alla porta, solidamente, con i piedi ben divaricati; si acquattò in posizione difensiva, con gli occhi folli, le trecce che rimbalzavano, e le braccia aperte sui fianchi, con le teste delle stelle del mattino penzolanti.

    C’erano almeno dieci creature nella grotta, ne era sicuro, ma, con cinque abbattute, ne trovò soltanto due ad affrontarlo.

    Be’, almeno una era rivolta verso di lui, l’altra sbatteva freneticamente contro una seconda porta sul fondo della grotta, un uscio più solido, di legno massiccio, fasciato di metallo.

    Il secondo goblin indietreggiò contro il compagno, senza azzardarsi a distogliere lo sguardo dall’intruso furioso.

    «Ah, vi siete ricavati una stanza più sicura», osservò il nano, facendo un passo avanti.

    Il mostro indietreggiò, mentre piccoli suoni patetici gli sfuggivano dai denti che sbattevano. L’altro prese a pestare più furiosamente.

    «Forza, dunque», lo rimproverò il nano, «prendi un bastone e combatti. Non togliere tutto il divertimento alla cosa!». Il mostro si raddrizzò appena un po’, ma il veterano furioso aveva visto innumerevoli combattimenti e ne capì le intenzioni. Vorticò su se stesso, scagliando un alto colpo rovesciato, che non si avvicinò minimamente a colpire lo spregevole goblin, il quale sgusciò all’interno della porta distrutta dietro di lui. Non era tuttavia sua intenzione colpire la creatura, naturalmente, voleva soltanto distrarla.

    Così fu e mentre il nano avanzava deciso, facendo partire un secondo colpo oscillante, trovò una netta apertura. Il volto del goblin si fracassò sotto il peso della stella del mattino e la creatura sarebbe volata davvero lontano, se lo stipite della porta non l’avesse bloccata.

    Quando il feroce individuo tornò a volgersi, entrambi i mostri stavano pestando la porta inflessibile con furia disperata.

    Il nano sospirò e si rilassò, scrollando il capo deluso. Attraversò la stanza e uno, due, sfondò la parte posteriore del cranio delle creature.

    Raccolse le stelle del mattino in una mano e afferrò uno dei mostri caduti, prendendolo per la collottola con l’altra. Con la forza di un gigante, scagliò da parte quel goblin, lanciandolo con facilità tre metri più in là, contro la parete laterale; il secondo seguì il compagno in un volo analogo.

    Il guerriero si sistemò la grossa cintura di cuoio incantato che gli conferiva tutta quella forza, incrementando ulteriormente quella di cui era di per sé dotata la sua struttura possente.

    «Bel lavoro», osservò, studiando la maestria con cui era stato realizzato il portale.

    Non si trattava dell’opera di goblin, con ogni probabilità le creature l’avevano depredata dalle rovine di qualche castello nelle paludi di Vaasa. A onor del merito, tuttavia, doveva riconoscere che i mostri avevano adattato piuttosto bene l’uscio alla parete.

    Il nano bussò e chiamò usando la lingua dei goblin, che parlava con una certa scioltezza: «Ehilà razza di palle di moccio ambulanti con la testa piatta. Non vorrete che rovini una così bella porta, vero? Apritela dunque e facilitatemi le cose. Potrei perfino lasciarvi in vita, benché di certo intenda prelevarvi gli orecchi».

    Mentre terminava, appoggiò l’orecchio alla porta e udì un gemito sommesso, seguito da uno «Sttt!» più forte.

    Sospirò e bussò di nuovo. «Forza, dunque; è la vostra ultima possibilità».

    Mentre parlava fece un passo indietro e chiuse le dita intorno alle impugnature rivestite di cuoio delle stelle del mattino gemelle, evocandone a sé la magia. Dalle punte di ciascuna sfera stillò del liquido, trasparente e oleoso dalla destra, rossastro e gessoso dall’altra. Il veterano valutò le dimensioni della porta, riconoscendo la croce centrale di fasce metalliche perpendicolari come il punto strutturale più importante.

    Contò fino a tre, perché in fondo doveva fornire ai goblin un’onesta possibilità, poi si produsse in un balzo feroce e in una torsione, lasciandosi portare dalle stelle dal mattino ed entrando in contatto precisamente nel punto di congiungimento delle due fasce di ferro cruciali. Il nano continuò a saltare, a volgersi e ad acquistare slancio con l’arma di destra, pur picchiando la porta un paio di volte con la sinistra, intaccando legno e metallo e lasciandovi sopra il residuo rossastro.

    Si trattava dell’icore di un mostro della ruggine, una creatura diabolica che poteva danneggiare ogni cavaliere in lucente armatura, e nel giro di pochi attimi quelle solide fasce di ferro iniziarono ad assumere lo stesso colore del liquido, arrugginendosi.

    Quando fu convinto che l’integrità delle bande d’acciaio fosse ormai pienamente compromessa, il nano effettuò il suo balzo più incredibile in assoluto, volgendosi in volo in modo da concentrare tutto il proprio peso e la propria forza, scaricando infine la stella del mattino destra nello stesso punto esatto. Con ogni probabilità la sua grande possanza e la forma impeccabile avrebbero abbattuto comunque quell’uscio, ma ogni dubbio fu fugato quando il liquido su quella seconda testa, chiamato olio d’impatto, esplose al contatto.

    Spaccate in due, sia la porta che la barra di chiusura posizionata dietro di essa, il portale si aprì crollando; precipitò per metà verso l’interno, alla destra del nano, ma quella parte restò ancora appesa precariamente a un cardine, mentre la metà sinistra piombava al suolo.

    Dall’altro lato c’era un trio di goblin che indossava armature inadatte, frutto di saccheggi; uno era arrivato al punto di mettersi un elmo di metallo aperto sul volto e tutti brandivano armi: una daga il primo, uno spadone il secondo e un’azza il terzo. Naturalmente un simile spettacolo avrebbe potuto scoraggiare avventurieri più giovani, ma il nano aveva trascorso quattro secoli a combattere contro nemici ben peggiori e un semplice sguardo gli rivelò che nessuno dei tre sapeva gestire le lame che impugnava.

    «Bene, se volete darmi gli orecchi vi lascerò uscire di qui con le vostre gambe», disse in lingua goblin caratterizzata da un forte accento. «Non me ne importa il moccio di un orco dalla testa piatta che restiate in vita o andiate all’altro mondo, ma quel che è certo è che vi prenderò gli orecchi». Terminando la frase estrasse un coltellino e lo fece vorticare piantandolo in terra davanti ai piedi dell’elemento centrale del trio. «Mi date ciascuno l’orecchio destro, mi restituite il coltello e io vi lascio andare per la vostra strada. Se non lo farete li prenderò dai vostri cadaveri. A voi la scelta».

    Il goblin alla destra del nano levò in alto lo spadone, ululò e si lanciò alla carica.

    Proprio la risposta che Athrogate sperava di ricevere.

    Artemis Entreri scivolò dietro un paravento quando udì il nano entrare spingendo la porta. Considerato che non era mai stato un ammiratore di Athrogate e non si era mai fidato davvero di lui, l’assassino fu lieto dell’opportunità di origliare.

    «Ah, eccoti qui, ossuta pretendente elfa al mio trono», sbraitò il feroce piccoletto, facendosi largo nella stanza di Calihye.

    La donna lo guardò con un’occhiata in tralice, apparentemente tranquilla; Entreri sapeva che gran parte di quella sicurezza derivava dal fatto che lui si trovava a distanza di tiro.

    «Dunque pensi di esserti procurata un titolo, non è così?».

    «Di che cosa parli?».

    «Lady Calihye, in testa alla lavagna», spiegò Athrogate, e a quel punto i due amanti annuirono, capendo finalmente a che cosa si stesse riferendo.

    A Vaasan Gate si teneva una sorta di gara a cui partecipavano i molti avventurieri che si inoltravano nelle regioni selvagge. Era stata posta una taglia sugli orecchi dei vari mostri che vagavano per quella landa desolata, e per incrementare il divertimento i comandanti della roccaforte avevano appeso a un chiodo una lavagna in cui si elencavano i piazzamenti dei cacciatori di taglie. Fin dall’inizio, il nome di Athrogate era stato in cima a quella lista, posizione che aveva mantenuto fino a pochi mesi prima, quando Calihye aveva rivendicato il titolo. La sua compagna di combattimento, Parissus, era ad appena qualche uccisione di distanza dal nano.

    «Pensi che me ne importi?» chiese Athrogate.

    «Più di quanto importi a me, evidentemente», rispose la mezzelfa.

    Dietro al paravento, Entreri annuì di nuovo, soddisfatto della risposta della guerriera che gli era diventata così cara.

    Il nano si schiarì la voce, sbuffò e ruggì: «Be’, non sei destinata a mantenere quella posizione!».

    L’uomo prestò accuratamente attenzione al suo tono; il piccoletto stava forse minacciando Calihye?

    Le mani dell’assassino andarono d’istinto alla sua arma e si azzardò a spostarsi un po’ più in là dietro allo schermo, in modo da poter sbirciare dietro al bordo più vicino alla porta l’angolazione d’attacco che l’avrebbe portato a fianco del potente nano, se si fosse giunti a tanto.

    Si rilassò quando Athrogate tese una mano che reggeva un sacchetto rigonfio, ben sapendo che cosa poteva contenere.

    «Mangerai di nuovo la mia polvere, mezzelfa», osservò il nano, dando una scrollata alla borsa. «Quattordici goblin, un paio di stupidi orchi e per giunta un ogre».

    Calihye alzò le spalle come se non le importasse.

    «Farai meglio ad andare a caccia in inverno, se hai abbastanza nano in te», disse il veterano. «Da parte mia me ne andrò a sud a bere finché non sarà trascorso il periodo delle nevi, perciò con un po’ di fortuna potresti ritornare in cima… non che tu possa restarci per più di qualche giorno, una volta giunto il disgelo».

    A quel punto Athrogate fece una pausa e un sorriso beffardo si evidenziò tra i peli neri e cespugliosi della barba. «Naturalmente non hai più la tua compagna di caccia ora, non è così? A meno che tu non convinca quell’ignobile individuo a uscire con te, anche se non mi pare proprio tipo da sentieri innevati!».

    Entreri era troppo distratto per offendersi a quell’ultima osservazione, per quanto onesta, perché il sussulto di Calihye non era stato lieve quando il nano aveva fatto riferimento a Parissus. Sapeva che la ferita era ancora aperta. Le due donne avevano combattuto fianco a fianco per anni, e Parissus era morta, uccisa sulla strada per Palishchuk dopo essere caduta dal carro che Entreri guidava nel tentativo di sfuggire a un’orda di mostri alati simili a serpenti.

    «Nutro scarso desiderio di uscire a caccia di goblin, buon nano», disse la mezzelfa, con voce

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