Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Fuga su Venere: Carson di Venere 4
Fuga su Venere: Carson di Venere 4
Fuga su Venere: Carson di Venere 4
E-book350 pagine5 ore

Fuga su Venere: Carson di Venere 4

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fantascienza - romanzo (283 pagine) - Il quarto romanzo del divertente e avventuroso ciclo di Venere dal creatore di Tarzan e John Carter di Marte, dove Carson Napier e la sua amata Duare devono trovare la strada per tornare a Korva


Il coraggioso terrestre Carson Napier e la sua compagna, la bellissima Duare, stanno cercando di ritrovare la strada per Korva, il paese che è diventato la loro casa nel libro precedente. L'impresa non sarà facile, ma ricco di incontri e avventure: una nazione di uomini-pesce, il culto di una strana dea, un museo macabro i cui reperti viventi sono paralizzati e poi esposti, e una battaglia di enormi navi terrestri su una grande pianura.


Edgar Rice Burroughs (1875-1950) è senza alcun dubbio uno degli scrittori d'avventura di maggior successo. Eppure la sua carriera è nata quasi per caso: senza istruzione oltre la scuola dell'obbligo, non riesce né nella carriera militare né in quella professionale, passando da un lavoro all'altro senza mai fortuna. Ormai sull'orlo del suicidio prova con la scrittura: il suo primo romanzo, Sotto le lune di Marte, pubblicato a puntate sulla rivista The All-Story, viene accolto con entusiasmo e sarà l'inizio di un ciclo – quello di John Carter di Marte – che arriverà a contare undici volumi.

Ma è nulla rispetto al successo che ottiene due anni dopo, con la pubblicazione di Tarzan delle scimmie. Una serie che diventa un clamoroso fenomeno che darà il via non solo a numerosi romanzi, ma a oltre trenta film, e fumetti, serie tv, cartoni animati. Al punto che ben due città, Tarzana in California e Tarzan in Texas, prendono il nome dal suo personaggio.

Oltre a Marte e alla giungla Burroughs visita il centro della Terra con la serie di Pellucidar, la Luna col ciclo del Popolo della Luna, e Venere col ciclo di Carson di Venere, che presentiamo in questa collana.

LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2021
ISBN9788825415278
Fuga su Venere: Carson di Venere 4
Autore

Edgar Rice Burroughs

American writer Edgar Rice Burroughs (1875 - 1950) worked many odd jobs before professionally writing. Burroughs did not start writing until he was in his late 30s while working at a pencil-sharpener wholesaler. But after following his call to writing, Burroughs created one of America's most enduring adventure heroes: Tarzan. Along with his novels about Tarzan, Burroughs wrote the notable Barsoom series, which follows the Mars adventurer John Carter.

Correlato a Fuga su Venere

Ebook correlati

Fantascienza per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Fuga su Venere

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Fuga su Venere - Edgar Rice Burroughs

    9788825415285

    Capitolo primo

    Se guardate una buona mappa di Venere, potrete verificare che la massa di terra chiamata Anlap si trova a nordovest dell’isola di Vepaja da cui Duare e io eravamo appena fuggiti. E in Anlap si trova Korva, il paese amico verso il quale avevo puntato il naso del nostro aereo.

    Naturalmente non esiste una buona mappa di Venere, o almeno io non ne ho mai vista una; questo dipende dal fatto che gli scienziati dell’emisfero meridionale del pianeta su cui il caso aveva portato il mio razzo nutrono un’erronea concezione in merito alla forma del loro mondo. Essi ritengono infatti che Amtor… così chiamano il pianeta… abbia la forma di un piatto e galleggi su un mare di roccia fusa, teoria che ai loro occhi appare più che comprovata, perché come potrebbero altrimenti i crateri dei vulcani far scaturire fiumi di lava?

    Gli Amtoriani sono anche convinti che Karbol (la regione fredda) si trovi lungo la periferia del piatto e ne segni i confini, mentre in realtà si tratta della regione antartica che circonda il polo meridionale di Venere.

    È facile vedere come una simile concezione distorca la loro percezione delle condizioni effettive presenti sul pianeta, con il risultato che le loro mappe sono quanto meno strane. Mentre infatti i paralleli convergono in realtà verso i poli, secondo gli Amtoriani il loro punto di convergenza sarebbe l’Equatore, o il centro del piatto, e ai poli… o lungo il confine del piatto… si raggiungerebbe la distanza massima fra un parallelo e l’altro.

    Tutto questo crea una terribile confusione per chiunque desideri andare da qualche parte sulla superficie di Amtor e debba fare affidamento sulle mappe amtoriane, e può apparire decisamente ridicolo se non si prende in considerazione il fatto che questa gente non ha mai scorto il cielo a causa delle nubi che avviluppano il pianeta. Gli Amtoriani non hanno mai visto il sole né le innumerevoli stelle che brillano in cielo di notte, quindi come potrebbero sapere qualcosa di astronomia o anche soltanto intuire che vivono su un globo e non su un piatto? Prima di giudicarli degli stupidi è bene ricordare che l’uomo ha abitato la Terra per innumerevoli secoli prima che a qualcuno venisse in mente che si trattava di un globo e che in tempi storicamente abbastanza recenti uomini di pensiero sono stati assoggettati all’Inquisizione, torturati, squartati, bruciati sul rogo proprio perché sostenevano tale iniqua teoria. Ancora oggi nell’Illinois esiste una setta religiosa che sostiene che la Terra è piatta… e tutto questo sebbene a noi sia stato possibile vedere i cieli e studiarli in ogni notte limpida fin da quando il nostro più antico antenato si dondolava per la coda in qualche foresta primordiale. Che sorta di teorie astronomiche avremmo elaborato se non avessimo potuto vedere né il sole né la luna e neppure la miriade di altre stelle e pianeti e fossimo rimasti all’oscuro della loro esistenza?

    Indipendentemente dall’erroneità delle teorie su cui i cartografi si basavano per stilare le loro mappe, le mie non erano del tutto inutili sebbene fosse necessaria una notevole ginnastica mentale matematica per riuscire a tradurle in informazioni utili anche senza il ricorso alla teoria della relatività delle distanze elaborata circa tremila anni prima dal grande scienziato amtoriano Klufar, in base alla quale si dimostrava che la misurazione reale e apparente delle distanze poteva essere fatta combaciare moltiplicando ciascun dato per la radice quadrata di meno uno.

    Disponendo di una bussola, volai quindi verso nordovest con la ragionevole sicurezza di incontrare prima o poi il continente di Anlap e Korva. Come potevo però prevedere un fenomeno meteorologico catastrofico che presto ci avrebbe minacciati di estinzione immediata e ci avrebbe letteralmente scagliati in una serie di situazioni potenzialmente letali quanto quella da cui eravamo fuggiti a Vepaja?

    Duare era molto silenziosa da quando eravamo decollati e non faticavo a capire il perché: la sua gente che lei amava, suo padre che adorava non solo come padre ma come suo jong, l’avevano condannata a morte perché aveva scelto come compagno l’uomo che amava. Sebbene la deplorassero tutti, quella severa legge dinastica era un comandamento a cui neppure lo stesso jong poteva sfuggire.

    Sapevo quello che stava pensando, e posai la mia mano sulla sua in un gesto di conforto.

    – Domattina saranno tutti sollevati quando scopriranno che sei fuggita… sollevati e felici – dissi.

    – Lo so – replicò.

    – Allora non essere triste, cara.

    – Amo il mio popolo, amo il mio paese, ma non potrò mai più tornare da loro e è per questo che sono triste anche se non potrò restarlo a lungo perché ti amo più di quanto ami il mio popolo e la mia terra… possano i miei antenati perdonarmi.

    Le strinsi ancora la mano e restammo a lungo in silenzio mentre una tenue luce cominciava ad apparire a oriente lungo l’orizzonte, aralda del sorgere di un nuovo giorno su Venere. Pensai ai miei amici sulla Terra e mi chiesi cosa stessero facendo e se si ricordavano mai di me. Quarantotto milioni di chilometri sono una grande distanza, ma il pensiero l’attraversa all’istante, e mi piace immaginare che nella prossima vita vista e pensiero viaggeranno di pari passo.

    – Cosa stai pensando? – mi chiese Duare, e quando glielo ebbi spiegato osservò: – A volte ti devi sentire molto solo, così lontano dal tuo mondo e dai tuoi amici.

    – Al contrario – le garantii. – Qui ho te e ho molti buoni amici in Korva, oltre a una posizione sicura.

    – Se Mephis dovesse metterti le mani addosso avrai una posizione sicura in quel tuo paradiso di cui mi hai parlato – replicò Duare.

    – Dimenticavo che tu non sai ancora niente di tutto quello che è successo in Korva.

    – Non mi hai detto nulla, ma dopo tutto non siamo insieme da molto tempo e…

    – E soltanto essere insieme sembra abbastanza, vero? – la interruppi.

    – Sì, ma adesso racconta.

    – Dunque, Mephis è morto e adesso Taman è jong di Korva – esordii, poi le esposi tutta la storia nei dettagli, compreso come Taman mi avesse adottato in segno di gratitudine per aver salvato la sua unica figlia, la Principessa Nna.

    – Allora adesso sei il tanjong di Korva – commentò lei – e se Taman dovesse morire sarai jong, visto che non ha figli maschi. Hai fatto strada, Terrestre.

    – E intendo fare anche di meglio.

    – Davvero? E cosa?

    – Questo – ribattei, traendola a me e baciandola. – Ho baciato la sacrosanta figlia di un jong amtoriano.

    – Ma lo hai fatto un migliaio di volte. I Terrestri sono tutti così sciocchi?

    – Lo sarebbero tutti, se potessero.

    Adesso Duare aveva superato la sua malinconia e continuammo a ridere e a scherzare mentre sorvolavamo il vasto oceano amtoriano alla volta di Korva, alternandoci ai comandi perché ormai Duare era un pilota abile quanto me. Spesso volammo basso per osservare le strane e selvagge forme di vita marine che di tanto in tanto salivano in superficie… enormi mostri del profondo le cui dimensioni erano talvolta pari a quelle di un incrociatore oceanico. Vedemmo milioni di creature più piccole fuggire davanti a quei mostruosi colossi… l’antichissima lotta per la sopravvivenza che esiste su ogni pianeta dell’universo su cui ci sia vita e che forse costituisce il motivo per cui ci saranno sempre guerre fra le nazioni… un cosmico sine qua non dell’esistenza.

    Era ormai metà pomeriggio quando quella cosa che era destinata a cambiare la nostra vita cominciò ad annunciarsi, e il primo accenno che avemmo del suo approssimarsi fu un improvviso rischiararsi del cielo davanti a noi, cosa di cui ci accorgemmo contemporaneamente.

    – Cos’è? – chiese Duare.

    – Sembra che il sole stia cercando di attraversare le nuvole che avvolgono Amtor – replicai. – Prega il cielo che non succeda.

    – È successo nel passato – replicò Duare – anche se naturalmente la nostra gente non sapeva nulla del sole di cui tu mi hai parlato e ha pensato che si trattasse del fuoco eterno che si levava dalla massa di roccia fusa su cui si suppone che Amtor galleggi. Ogni volta che c’è stata una penetrazione attraverso le nuvole le fiamme hanno colpito distruggendo ogni cosa vivente sotto la lacerazione nelle nubi.

    In quel momento avevo io i comandi e cabrai bruscamente, puntando verso nord.

    – Intendo allontanarmi da quel fenomeno laggiù – spiegai. – Il sole ha già trapassato l’involucro esterno delle nubi e potrebbe attraversare anche quello interno.

    Capitolo secondo

    Sotto il nostro sguardo preoccupato, la luce sulla sinistra andò aumentando d’intensità illuminando tutto il cielo e l’oceano ma concentrandosi più intensa in un punto. Per il momento essa somigliava soltanto alla vivida luce solare a cui siamo abituati sulla Terra, ma all’improvviso si trasformò in un bagliore accecante, segno che c’era stata una frattura contemporanea in entrambe le coltri di nubi.

    Quasi all’istante l’oceano prese a ribollire, un fenomeno visibile perfino a distanza a causa delle enormi nubi di vapore che si levarono accompagnate da un calore sempre crescente che divenne assai presto intollerabile.

    – È la fine – disse semplicemente Duare.

    – Non ancora – replicai, mentre volavamo il più in fretta possibile verso nord.

    Avevo scelto quella direzione perché la fenditura era un po’ a sudovest rispetto a noi e il vento soffiava da ovest, per cui se avessi puntato a est il calore sospinto dal venti ci avrebbe seguiti. La nostra sola speranza era a nord.

    – Abbiamo vissuto e la vita non può avere in serbo per noi nulla di meglio di ciò che abbiamo già goduto. Non ho paura di morire. E tu, Carson?

    – È una cosa che non saprò mai fino a quando non sarà troppo tardi – replicai sorridendo – perché finché avrò vita non ammetterò la possibilità della morte. Chissà come non mi pare che possa essere al varco in mia attesa… non da quando Danus mi ha iniettato il siero della longevità e mi ha detto che sarei potuto vivere anche mille anni. Vedi, sono curioso di scoprire se aveva ragione.

    – Sei molto sciocco, ma anche rassicurante.

    Enormi nubi di vapore nascondevano ormai ogni cosa verso sudovest, levandosi ad attenuare la luce solare, e potevo immaginare facilmente la devastazione abbattutasi sul mare, la miriade di cose viventi distrutte. Gli effetti della catastrofe cominciavano già a essere visibili sotto di noi, dove i rettili e i pesci più veloci stavano fuggendo davanti all’olocausto, e fuggendo verso nord! Quella prova d’istinto o d’intelligenza, quale che fosse, mi pervase di rinnovata speranza.

    La superficie dell’oceano pullulava di vita, nemici mortali correvano fianco a fianco e i più forti spingevano di lato i più deboli, i più rapidi scivolavano sopra i più lenti. Non so cosa avesse avvertito quelle creature, ma l’esodo era in corso anche molto avanti rispetto a noi sebbene la velocità dell’aereo fosse nettamente superiore anche a quella della più veloce creatura oceanica.

    Intanto la temperatura dell’aria aveva cessato di aumentare e questo mi dava la speranza che saremmo riusciti a fuggire se la fenditura nelle nubi non si fosse allargata e il sole non avesse raggiunto una più vasta area della superficie amtoriana. Poi il vento cambiò direzione e prese a soffiare in violente folate da sud, portando con sé un calore che era quasi soffocante mentre nubi di vapore condensato ci vorticavano intorno inzuppandoci di umidità e riducendo la visibilità quasi a zero.

    Presi quota nel tentativo di volare al di sopra di quel fenomeno, che però sembrava estendersi dovunque insieme al vento che si era mutato in bufera pur continuando a spingerci a nord lontano dal ribollire del mare e dal calore devastante del sole. Se soltanto la lacerazione nelle nubi non si fosse allargata avremmo potuto sperare di salvarci la vita.

    Abbassando lo sguardo su Duare vidi che aveva la mascella serrata e lo sguardo fisso davanti a sé con cupa determinazione anche se non c’era nulla da vedere tranne nubi di vapore. Non un solo gemito le era uscito dalle labbra, ma suppongo che il suo sangue si stesse facendo sentire, e dopo tutto lei era la discendente di migliaia di jong. Duare dovette avvertire il mio sguardo su di sé, perché mi guardò a sua volta e sorrise.

    – Abbiamo incontrato altri guai – commentò.

    – Se desideravi condurre una vita tranquilla hai scelto l’uomo sbagliato, Duare, perché io ho continuamente delle avventure anche se non è una cosa di cui vantarsi. Uno dei più grandi antropologi del mio mondo, che guida spedizioni negli angoli più remoti della terra e non ha mai avventure, sostiene che averne è segno di inefficienza e di stupidità.

    – Io non gli credo – replicò Duare. – Tutta l’intelligenza e l’efficienza del mondo non avrebbero potuto prevedere l’aprirsi di una lacerazione nelle nubi.

    – Ma un po’ più di intelligenza mi avrebbe probabilmente trattenuto dal tentare di volare fino a Marte… in quel caso però non ti avrei mai conosciuta, quindi nel complesso sono contento di non essere più intelligente di quanto io sia.

    – Lo sono anch’io.

    Il calore non stava più aumentando, ma la violenza del vento sì e ormai aveva raggiunto la potenza di un uragano che sballottava il nostro robusto anotar come se fosse stato una piuma. Io non potevo fare molto per evitarlo perché in mezzo a una tempesta come quella i comandi erano praticamente inutili, potevo soltanto sperare di avere una quota abbastanza elevata da evitare di essere mandato a sbattere contro una montagna, senza contare il pericolo costituito dai giganteschi alberi amtoriani che avevano un fusto lungo anche millecinquecento metri al fine di poter attingere con il fogliame all’umidità presente nella coltre interna di nubi. Non potevo vedere nulla al di là del muso dell’anotar e sapevo che dovevamo aver superato una notevole distanza sotto la spinta di quel vento spaventoso che ci spingeva verso nord, tanto che potevamo aver attraversato il mare ed essere adesso sulla terraferma, con la prospettiva di andare incontro alle montagne o a una gigantesca foresta. Nel complesso non ero molto soddisfatto perché preferisco vedere dove sto andando: se sono in grado di vedere, posso infatti fronteggiare quasi qualsiasi eventualità.

    – Cos’hai detto? – mi chiese Duare.

    – Non mi ero accorto di aver parlato, si vede che stavo pensando ad alta voce… comunque darei qualsiasi cosa per poter essere in grado di vedere.

    In quel momento, quasi in risposta al mio desiderio, nei vorticanti vapori che ci sovrastavano si aprì una lacerazione e ciò che vidi attraverso essa mi fece quasi saltare fuori della cabina per lo spavento, perché una scarpata rocciosa incombeva alta davanti e sopra di noi.

    Lottai per riuscire a cabrare e a cambiare direzione, ma il vento inesorabile continuò a spingerci verso il nostro destino mentre Duare rimaneva in assoluto silenzio, senza tradire neppure con un grido la paura che doveva senza dubbio provare.

    La cosa che mi sgomentò di più nella frazione di secondo che ebbi a disposizione per pensare fu l’idea che quella splendida donna potesse finire fracassata contro una stupida altura e ringraziai Dio per il fatto che io non sarei sopravvissuto per vederlo. Avremmo riposato insieme per l’eternità ai piedi della scarpata e nessuno nell’universo avrebbe saputo dove eravamo finiti.

    Eravamo sul punto di cozzare quando l’aereo si sollevò verticalmente a una dozzina di metri appena dalla parete rocciosa: come già aveva fatto prima, l’uragano stava di nuovo giocherellando con noi.

    Naturalmente ci doveva essere una spaventosa corrente ascensionale là dove il vento colpiva la parete di roccia e fu questo a salvarci insieme al fatto che avevo spento i motori non appena mi ero accorto di non potermi allontanare dal pericolo manovrando.

    Adesso ci levammo al di sopra di un vasto tavolato mentre brandelli di vapore fluttuavano intorno a noi come piccole nuvole: potevamo di nuovo vedere il mondo che ci circondava e respirare liberamente.

    Il pericolo era però tutt’altro che passato perché il tornado non aveva ancora esaurito la sua furia anche se non rischiavamo più di finire inceneriti in quanto la fenditura fra le nubi si era richiusa, come avevo potuto constatare scoccandomi un’occhiata alle spalle.

    Aprii un po’ la valvola di alimentazione nel vano tentativo di lottare contro gli elementi e di mantenere equilibrato l’anotar, ma continuammo comunque a fare più affidamento sulle cinture di sicurezza che sulla manovrabilità dell’apparecchio per la nostra salvezza, perché l’aereo girava su se stesso a tal punto da trovarsi spesso rovesciato e a noi non restava che pendere impotenti dalle cinture.

    Fu un’esperienza agghiacciante. Una corrente discensionale ci trascinava in picchiata verso il suolo e quando ormai sembrava che stessimo per fracassarci la gigantesca mano della tempesta ci scagliava nuovamente in aria.

    Posso soltanto cercare di indovinare per quanto tempo fummo un giocattolo nelle mani del Dio della Tempesta, ma in ogni caso il vento si placò un poco soltanto verso l’alba e allora ci fu infine permesso avere di nuovo un po’ di voce in capitolo per quanto concerneva la direzione del nostro destino. Anche così, però, dovevamo andare dove voleva il vento, perché non potevamo volare contro di esso.

    Non avevamo più parlato per ore perché ogni tentativo di conversazione era stato bloccato dal vento che aveva soffocato la nostra voce, e potevo vedere che Duare era quasi esausta a causa degli sballottamenti e della tensione nervosa, ma non c’era nulla che potessi fare al riguardo.

    Intanto il sorgere del giorno mostrò un nuovo mondo che si allargava sotto di noi. Stavamo costeggiando un vasto oceano oltre il quale si allargavano grandi pianure, foreste, fiumi e in lontananza montagne incappucciate di nubi. Giudicai allora che fossimo stati spinti dalla tempesta per migliaia di chilometri verso nord, perché per la maggior parte del tempo il motore era stato alla massima potenza e quel vento spaventoso ci aveva sempre spinti di coda.

    Dove potevamo essere? Ero certo che avessimo attraversato l’equatore e fossimo giunti nella zona temperata settentrionale, ma non avevo idea di dove si trovasse Korva, e forse non lo avrei mai più scoperto.

    Capitolo terzo

    Il tornado si esaurì con pochi ultimi refoli di vento, poi l’aria si fece improvvisamente calma e fu come la pace del paradiso.

    – Devi essere molto stanco – osservò Duare. – Lascia che prenda io i comandi. Hai combattuto contro la tempesta per sedici o diciassette ore e non hai dormito per due giorni.

    – Se è per questo neppure tu. E poi, ti rendi conto che non abbiamo più mangiato né bevuto da quando abbiamo lasciato Vepaja?

    – Laggiù ci sono un fiume e dei capi di selvaggina – replicò Duare. – Non mi ero resa conto di essere assetata e anche affamata. e ho tanto sonno! Non so quale delle tre cose sia la peggiore.

    Girai dapprima in cerchio per controllare se ci fossero tracce di abitazioni umane, in quanto l’uomo era la creatura che bisognava sempre temere di più: dove non c’erano uomini si era sempre relativamente sicuri, perfino su quel mondo popolato da bestie feroci.

    In lontananza scorsi quello che sembrava essere un grosso lago oppure un braccio interno del mare, mentre sotto di noi c’erano piccoli tratti di foresta e alberi sparsi che punteggiavano la pianura su cui vidi pascolare alcune mandrie; calai allora di quota per scegliere la mia preda, inseguirla e abbatterla sparando dall’aereo: non era molto sportivo ma stavo cercando cibo e non divertimento.

    Il mio piano era eccellente ma non funzionò, perché gli animali si accorsero di noi molto prima che arrivassimo a tiro e fuggirono a precipizio.

    – Ecco la colazione che se ne va – commentai.

    – Insieme al pranzo e alla cena – aggiunse Duare, con un sorriso dolente.

    – L’acqua c’è ancora e se non altro possiamo bere – le ricordai, descrivendo un giro per andare ad atterrare vicino a un ruscelletto.

    Il manto erboso rasato a zero dalle mandrie al pascolo si stendeva fino al limitare dell’acqua e dopo aver bevuto Duare si stese su di esso per un momento di rilassamento e di riposo mentre io mi guardavo intorno alla ricerca di selvaggina, nella speranza che qualcuno degli animali che erano fuggiti nella vicina foresta ne uscisse di nuovo e mi permettesse di portare a termine l’inseguimento iniziato con l’anotar.

    Non dedicai alla mia inutile ricerca più di un paio di minuti, ma quando tornai a girarmi Duare stava già dormendo profondamente e non ebbi il cuore di svegliarla perché mi resi conto che aveva più bisogno di sonno che di cibo. Così mi sedetti accanto a lei per montare la guardia mentre dormiva.

    Quello era un angolo adorabile, tranquillo e pacifico, il cui silenzio veniva infranto soltanto dal mormorio del ruscello, e sembrava essere molto sicuro perché potevo vedere per un lungo tratto in tutte le direzioni. Il suono dell’acqua ebbe l’effetto di rilassare i miei nervi stanchi e mi adagiai parzialmente all’indietro, puntellandomi su un gomito in modo da poter montare lo stesso la guardia.

    Ero in quella posizione da circa cinque minuti quando mi successe una cosa straordinaria: un grosso pesce uscì dal ruscello e si sedette accanto a me, fissandomi intensamente per un momento. Non potevo capire cosa gli passasse per la mente perché un pesce ha un’espressione soltanto, ma siccome mi ricordava alcune stelle del cinema che avevo avuto modo di conoscere non riuscii a trattenere una risata.

    – Di cosa stai ridendo? – mi domandò il pesce. – Di me?

    – Assolutamente no – garantii, senza sorprendermi minimamente che un pesce parlasse. In qualche modo, mi sembrava del tutto naturale.

    – Sei Carson di Venere – aggiunse il pesce, e la sua era un’affermazione, non una domanda.

    – Come lo sai?

    – Me lo ha detto Taman. Mi ha mandato perché ti guidassi a Korva. Là ci sarà una grande processione e tu e la tua principessa percorrerete su un possente gantor i viali di Sanara fino al palazzo del jong.

    – Sarà molto bello – dissi – ma nel frattempo vorresti per favore dirmi chi mi sta punzecchiando la schiena e perché?

    A quel punto il pesce improvvisamente scomparve e nel guardarmi intorno io vidi una dozzina di uomini armati in piedi intorno a noi, uno dei quali mi stava pungolando la schiena con una sorta di forcone a tre punte. Accanto a me Duare si stava sollevando a sedere con un’espressione costernata sul volto e io balzai subito in piedi, soltanto per trovarmi minacciato da una dozzina di lance mentre altri due guerrieri puntavano il loro tridente contro Duare. Avrei potuto estrarre la pistola ma non osai usarla perché prima che riuscissi abbatterli tutti uno di noi due avrebbe potuto restare ucciso e io non potevo correre rischi, con la vita di Duare in gioco.

    Nel guardare i guerrieri mi resi improvvisamente conto che c’era in loro qualcosa di molto strano e inumano: avevano le branchie, così marcate che la loro spessa barba non era in grado di nasconderle, e le mani e i piedi avevano le dita palmate. Ricordai allora il pesce che era uscito dal ruscello e mi aveva parlato… mi ero addormentato e stavo ancora sognando! Quel pensiero mi strappò un sorriso.

    – Perché stai sorridendo? – chiese uno dei guerrieri. – Ridi di me?

    – Stavo ridendo fra me – replicai – perché ho fatto un sogno molto divertente.

    – Cosa ti prende, Carson? – intervenne Duare, fissandomi con gli occhi dilatati. – Che ti succede?

    – Nulla, tranne che è stato molto stupido da parte mia addormentarmi e vorrei potermi svegliare.

    – Ma tu sei sveglio, Carson. Guardami! Dimmi che stai bene.

    – Vuoi dire che vedi anche tu quello che vedo io? – domandai, accennando ai guerrieri.

    – Abbiamo dormito entrambi, Carson, ma adesso siamo svegli… e siamo prigionieri.

    – Sì, siete prigionieri – confermò il guerriero che aveva già parlato in precedenza. – Ora venite con noi.

    Duare si alzò e si avvicinò maggiormente a me senza che cercassero d’impedirglielo.

    – Perché ci volete fare prigionieri? – chiese al guerriero. – Non vi abbiamo fatto nulla. Ci siamo persi in quella grande tempesta e siamo atterrati in cerca di cibo e di acqua. Lasciateci andare per la nostra strada, non vi abbiamo fatto nulla di male.

    – Vi dobbiamo portare a Mypos, dove Tyros deciderà cosa fare di voi – fu la risposta. – Io sono soltanto un guerriero e non spetta a me decidere.

    – Chi sono Mypos e Tyros? – insistette Duare.

    – Mypos è la città del re, e Tyros è il re – spiegò l’uomo, usando il termine jong.

    – Pensi che allora ci lasceranno andare?

    – No – rispose il guerriero. – Tyros il Sanguinario non libera nessun prigioniero. Voi diventerete schiavi. Può darsi che l’uomo venga ucciso, subito o in seguito, ma Tyros non ucciderà te.

    Quei guerrieri erano armati con tridenti, spade e daghe, ma non avevano armi da fuoco, quindi pensai di vedere una possibilità di far fuggire Duare.

    – Io li posso tenere a bada con la mia pistola – sussurrai – mentre tu corri verso l’anotar.

    – E poi? – volle sapere lei.

    – Forse potrai trovare Korva. Vola verso sud per ventiquattr’ore, un lasso di tempo entro cui dovresti arrivare all’oceano, poi punta a ovest.

    – Lasciandoti qui?

    – Probabilmente riuscirò a ucciderli tutti e allora tu potrai atterrare e prelevarmi.

    – Rimarrò con te – rifiutò Duare, scuotendo il capo.

    – Cosa state sussurrando? – ci domandò il guerriero.

    – Ci stavamo chiedendo se ci permettereste di portare il nostro anotar con noi – spiegò Duare.

    – Che ce ne faremmo di una cosa

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1