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Mambilla Plateau: L’Africa di 40 anni fa vista con gli occhi e le esperienze di un giovanissimo geometra
Mambilla Plateau: L’Africa di 40 anni fa vista con gli occhi e le esperienze di un giovanissimo geometra
Mambilla Plateau: L’Africa di 40 anni fa vista con gli occhi e le esperienze di un giovanissimo geometra
E-book307 pagine4 ore

Mambilla Plateau: L’Africa di 40 anni fa vista con gli occhi e le esperienze di un giovanissimo geometra

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Info su questo ebook

Ognuno è artefice della propria fortuna

Un motto che condensa il messaggio di questo libro dedicato ai giovani, ma non solo. Volere è Potere.

C’è qualcosa di più affascinante per un giovane in cerca di affermazione personale che raggiungere ambiziosi obiettivi nella convinzione di poterci arrivare attraverso le proprie capacità?

L’Africa vista con gli occhi e l’esperienza di un giovane alle prime armi, chiamato alla sfida di un incarico e di un lavoro di respiro internazionale.

Il protagonista si confronterà con un mondo totalmente sconosciuto, tra vicissitudini di ogni tipo e un ambiente spesso surreale di un’Africa selvaggia degli anni Settanta. 

Un’esperienza che lo porterà ad avere il mondo ai suoi piedi, ma con una parte del cuore sempre attaccata alla sua terra natia.

Il romanzo si ispira alla storia vera di un migrante in terra d’Africa, dove la dura, difficile e avventurosa esperienza sarà il campo di prova per esprimere tutta la sua voglia di emergere, di partecipare a qualcosa di grande e importante e di viaggiare in cerca della sua realizzazione.

Perché in fondo basta crederci, osare e mettersi in gioco affrontando le affascinanti incognite che il mondo del lavoro riserva a ognuno di noi.
Tirar fuori quelle capacità che ci sono in noi e che neanche noi conosciamo.

Aprire gli occhi e sognare, lasciare andare la fantasia e abbandonarsi alla voglia di avventura e di crescita lavorativa e culturale che il mondo può offrire a chi ci crede e si cimenta.
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2017
ISBN9788894248234
Mambilla Plateau: L’Africa di 40 anni fa vista con gli occhi e le esperienze di un giovanissimo geometra

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    Anteprima del libro

    Mambilla Plateau - Diego Zussa

    Ognuno è artefice della propria fortuna

    Un motto che condensa il messaggio di questo libro dedicato ai giovani, ma non solo. Volere è Potere.

    C’è qualcosa di più affascinante per un giovane in cerca di affermazione personale che raggiungere ambiziosi obiettivi nella convinzione di poterci arrivare attraverso le proprie capacità?

    L’Africa vista con gli occhi e l’esperienza di un giovane alle prime armi, chiamato alla sfida di un incarico e di un lavoro di respiro internazionale.

    Il protagonista si confronterà con un mondo totalmente sconosciuto, tra vicissitudini di ogni tipo e un ambiente spesso surreale di un’Africa selvaggia degli anni Settanta. Un’esperienza che lo porterà ad avere il mondo ai suoi piedi, ma con una parte del cuore sempre attaccata alla sua terra natia.

    Il romanzo si ispira alla storia vera di un migrante in terra d’Africa, dove la dura, difficile e avventurosa esperienza sarà il campo di prova per esprimere tutta la sua voglia di emergere, di partecipare a qualcosa di grande e importante e di viaggiare in cerca della sua realizzazione.

    Perché in fondo basta crederci, osare e mettersi in gioco affrontando le affascinanti incognite che il mondo del lavoro riserva a ognuno di noi.

    Tirar fuori quelle capacità che ci sono in noi e che neanche noi conosciamo.

    Aprire gli occhi e sognare, lasciare andare la fantasia e abbandonarsi alla voglia di avventura e di crescita lavorativa e culturale che il mondo può offrire a chi ci crede e si cimenta.

    L’autore

    Diego Zussa, nato ad Arcade (TV) nel 1954, libero professionista, si cimenta con quest’opera nata dalla profonda conoscenza personale del continente africano di 40 anni fa. Il libro contiene un mix di elementi irresistibili per i lettori: storia, romanzo, sentimenti, adrenalina ed energia del suo giovane personaggio in terra d’Africa. Cronista e reporter per scelta personale, l’autore si è già cimentato in un libro di ricostruzione storica del X° anniversario Sezione Trevisani nel Mondo di Arcade edito nel 2014.

    Evoca ed ispira, con questo romanzo, i giovani lettori alla ricerca all’estero di quella realizzazione personale agognata e sognata dove le più svariate opportunità lo rendono possibile.

    Diego Zussa

    Mambilla Plateau

    L’Africa di 40 anni fa vista con gli occhi e le esperienze di un giovanissimo geometra

    Diego Zussa, Mambilla Plateau

    © 2017 by Zeta Edizioni

    Zeta Edizioni

    Via Zara 12 – 31100 Treviso

    www.zetaedizioni.com

    Prima edizione: luglio 2017

    Tutti i diritti riservati – All rights reserved

    ISBN: 978-88-942482-3-4

    Grafica e e-book: www.treseditoria.it

    I personaggi di questo romanzo, così come i loro nomi e la loro personalità, sono del tutto immaginari e l’eventuale identità o somiglianza con qualsiasi persona realmente esistita o esistente va attribuita a una pura coincidenza non voluta dall’Autore.

    alla mia amata moglie

    Giovanna Corder,

    che mancherà per sempre

    1

    I fari squarciavano il buio della notte appena calata.

    Il taxi, come di consueto, correva veloce lungo la bretella per l’aeroporto di Fiumicino.

    Aveva appena lasciato la città di Roma. La Roma imperiale, la Roma caput mundi, la Roma città aperta, la Roma della bella vita e della mondanità internazionale.

    In quegli anni Settanta, la città era al centro della dolce vita felliniana. Un museo a cielo aperto che trasudava storia, splendore e potenza in ogni angolo. Forse potenza non è la parola appropriata, diciamo pure i resti del vecchio prestigio e dell’antica civiltà.

    Il fascino rimaneva tuttora intatto e indissolubilmente legato ai palazzi e alle piazze della città.

    Il taxi era arrivato nella tarda serata di una giornata particolarmente tiepida di un incipiente autunno. Il sole stava tramontando, colorando l’orizzonte sopra i tetti dei palazzi di un infuocato rossore. Una meraviglia della natura che regalava alla città di Roma serate e tramonti indimenticabili.

    Il ponentino sussurrava il suo alito leggero sopra la città.

    «Sono qui per il signor Sandri» aveva annunciato l’autista al citofono, dopo aver schiacciato nella lunga lista della pulsantiera condominiale il pulsante della Pladeco.

    «È arrivato il taxi per Fiumicino, posso salire?» aveva continuato, attendendo una risposta che era subito arrivata.

    «Salga pure, i bagagli sono pronti e il signor Sandri la sta aspettando» aveva risposto al citofono l’avvenente voce femminile della segretaria.

    Di bella presenza, con scuri capelli mossi e occhi castani, Margherita aveva ottenuto, a giusto merito, la segreteria della Società. Capace e intraprendente, era riconosciuta come l’anima coordinatrice delle molteplici attività internazionali che attendevano alla variegata struttura della Società.

    La Pladeco, acronimo di Planning Development Company, si era guadagnata fama internazionale nell’organizzazione dei piani di sviluppo agroalimentari in Paesi principalmente africani e asiatici, operando in stretto collegamento con la FAO e altri organismi sovranazionali che, prima di intervenire in grandi operazioni umanitarie nei Paesi sottosviluppati, finanziavano grosse campagne di ricerca e studio sul territorio. Studi che avevano lo scopo di analizzare, monitorare e documentare le peculiarità delle zone che meritavano di essere finanziate e sviluppate.

    E la Pladeco si era ritagliata una fetta di questo gigantesco business internazionale che muoveva miliardi di dollari e che alimentava gli appetiti umani anche nelle desolate e soleggiate terre d’Africa.

    Ed era l’Africa, la Nigeria, che stava attendendo l’arrivo del giovane Giorgio Sandri.

    2

    Margherita, una volta aperto la porta, mi aveva subito chiamato: «Giorgio, è arrivato il taxi per te».

    In un angolo dell’ingresso erano accatastate, una sull’altra, le cinque valigie piene di documenti, posta, progetti ed effetti personali. A queste, avevo appena aggiunto la mia valigia personale, stracolma di ricordi e di speranze.

    L’autista le aveva prese a una a una, trasferendole nell’ascensore per portarle al piano terra. Lì fuori, il taxi attendeva con le quattro luci lampeggianti accese. Era infatti, come consuetudine, parcheggiato in doppia fila. La prima era sempre occupata dal caotico traffico della città e spesso dalle auto degli stessi impiegati del condominio.

    Avevo preso il mio bagaglio a mano e mi ero avvicinato alla porta del direttore, il dottor Viviani. Avevo bussato e atteso una risposta.

    «Entri pure, signor Sandri. Ho sentito che è arrivato il suo taxi. Ora potrà finalmente partire. Faccia buon viaggio e mi saluti tutti, lassù a Gembu».

    «Grazie» avevo risposto sommessamente.

    «Mi raccomando, fatemi sapere come procedono i lavori al Mambilla Plateau. Abbia cura di lei, è molto giovane, ma tenace e preparato e vedrà che ce la farà» aveva continuato il dottor Viviani.

    Lo avevo ringraziato ancora e gli avevo dato una forte e convinta stretta di mano.

    Ero giovane, ma anche determinato e sicuro. Sapevo che in me era stata riposta molta fiducia.

    Ma un velo di paura mi aveva offuscato per un istante la mente, sarei stato in grado di meritarla?

    Ero stato subito richiamato alla realtà dalla voce di Margherita: «Giorgio, il taxi ti aspetta». Mi aveva dato un bacio sulla guancia e mi aveva detto: «Vai! Buona fortuna… e in bocca al lupo».

    «Crepi» avevo replicato sicuro.

    Con un groppo in gola e un misto di incoscienza e presunzione, avevo preso a mia volta l’ascensore, ero sceso al piano terra ed ero salito sul taxi, carico all’inverosimile di bagagli.

    Oltre a badare a me stesso, avevo la grossa responsabilità delle valigie affidatemi. Ogni persona che andava o tornava dal cantiere del Mambilla Plateau doveva infatti fare da piccione viaggiatore e portare con sé una quantità incredibile di bagagli e corrispondenza.

    Seppur raggiunta da normali voli aerei, la Nigeria era pur sempre un difficile Paese africano in via di sviluppo, dove la corruzione regnava sovrana e nulla si muoveva, a qualsiasi livello, se non veniva abbondantemente oliato.

    Durante il lungo periodo in cui ero rimasto alla Pladeco mi avevano ampiamente descritto le condizioni socio-culturali e ambientali della Nigeria, Paese in cui ora stavo per andare, per svolgere il lavoro che mi attendeva al Plateau.

    3

    Appena girato l’angolo di Via Vittorio Veneto, il taxi aveva imboccato un largo viale. Era Via Bissolati, la strada delle compagnie aeree. Lì quasi tutte avevano un ufficio con vetrine ammiccanti e grandi sigle societarie. Ed era sempre lì, alla Nigeria Airways, che la Pladeco acquistava tutti i suoi biglietti aerei da e per il cantiere di Mambilla.

    I carnet dei biglietti erano immediatamente riconoscibili dal colore verde, lo stesso della bandiera della Nigeria, e spesso quel colore spiccava tra le carte di Margherita sulla scrivania. Risaltavano come tante mosche annegate in una tazza di latte. In quel momento, io avevo uno di quei biglietti nel mio bagaglio a mano e lo custodivo più che gelosamente, preoccupato di perderlo.

    Avevo compiuto da poco ventidue anni e mi apprestavo al mio primo viaggio in aereo. Il primo biglietto aereo, il mio battesimo del volo.

    Sebbene ne avessi visti tanti di quei biglietti nei lunghi mesi passati in ufficio, questo mi trasmetteva un’ansia diversa, una profonda preoccupazione, perché finalmente era arrivata l’ora della verità: l’ora della partenza per le ignote terre d’Africa, l’ora dello stacco ombelicale da quella terra dove tutti parlavano la mia lingua. Una terra che per lungo tempo non avrei più rivisto.

    Sapevo che in Nigeria la lingua ufficiale era l’inglese, anche se il Mambilla Plateau confinava col Camerun, in cui si parlava francese, lingua che io conoscevo decisamente meglio.

    Già, l’inglese. A scuola avevo studiato solo il francese, che avevo praticato anche nei miei viaggi giovanili in Francia, dove vivevano alcuni parenti di mio padre.

    Ma l’inglese non lo conoscevo proprio. Solo le poche e semplici parole dei testi delle canzoni che avevo ascoltato da adolescente alla radio. Era la musica degli anni Sessanta e Settanta che dilagava nel mondo occidentale e che riempiva di 45 giri gli scaffali delle camere dei ragazzi. I mangiadischi e poi la svolta dei mangiacassette nei vecchi Philips neri con il tasto centrale e le sue molteplici funzioni: ascolto, registrazione, avanzamento e ritorno veloci.

    Superata Via Bissolati, il taxi si diresse verso Piazza dell’Esedra, poi in direzione delle Terme di Diocleziano e subito dopo alla Stazione Termini, lambendone la piazza. Termini era come un corpo estraneo che s’insinuava nel centro della città con la sua rete tentacolare. Lontana dai fasti e dall’architettura antica, la stazione si ergeva con il suo stile del periodo fascista ed era il cuore pulsante della città.

    Conoscevo bene questo percorso perché, durante tutto il periodo di attesa trascorso a Roma, avevo alloggiato in una stanza della pensione Principe Amedeo che si trovava nell’omonima via e distava circa centocinquanta metri dalla Stazione Termini.

    Era una strada che avevo fatto almeno due volte al giorno, andata e ritorno dall’ufficio, e ogni volta era una meraviglia fiancheggiare a piedi le Terme di Diocleziano. Era la storia, quella a cui si passava accanto: la si sfiorava, la si toccava con le mani.

    L’incombere delle alte mura in mattoni, allineati e in fuga da oltre duemila anni, mi dava un senso di inquietudine, di piccolezza. Parte dell’Esedra era scomparsa, distrutta, e solo la metà della sua grande cupola era ancora in piedi, a testimoniare la grandezza dell’impero.

    A Roma, tutto era una meraviglia per me, giovane ragazzo proveniente da uno sperduto paese del Veneto.

    Lì la vita era ancora agganciata all’agricoltura e faticava a rinascere dalla distruzione della Seconda guerra mondiale. Nel Veneto, la ricostruzione e l’industrializzazione si stavano affermando pian piano. Come tante piccole formiche, la gente veneta, alacre e solerte, industriosa e lavoratrice, stava ricostruendo una regione e un’economia che volevano affrancarsi dalla misera vita contadina sopportata passivamente per migliaia di anni. I latifondi, le grandi signorie e lo schiavismo della mezzadria avevano sottomesso le genti venete e le avevano relegate alla povertà di un’agricoltura misera e tribolata.

    Il dopoguerra e l’industrializzazione erano stati il motore della riscossa. In molti era cresciuto l’orgoglio e la determinazione di alzare la testa e reagire alla storica inedia pastorale e, con l’orgoglio, erano emerse anche le capacità di chi aveva osato ribellarsi all’endemica oppressione delle signorie.

    Era quello il periodo storico che da giovane avevo vissuto. Nato qualche anno dopo la fine della guerra, ero cresciuto durante quella rivoluzione in atto. Vivendoci dentro, forse non avevo ben compreso cosa stesse succedendo, come il mondo stesse cambiando. La luce e l’acqua stavano pian piano entrando nelle case, così come le strade asfaltate nei piccoli paesi agricoli. Qualche minuscola fabbrica si stava insediando, portando lavoro remunerato. Non più il lavoro servile dei campi, la mezzadria e la fatica su terre altrui, ma un nuovo lavoro che dava indipendenza e la possibilità di affrancarsi da una vita misera di tribolazioni e stenti, di famiglie numerose, povere e indigenti.

    4

    «Quale strada preferisce fare, signor Sandri?» mi chiese garbatamente il tassista. «Vuole che le faccia vedere un po’ la città, la Garbatella, l’Eur, prima di lasciare Roma?» continuò, attendendo una risposta.

    La sera calava lieve e il rossore del crepuscolo stava sparendo per lasciare posto all’oscurità dilagante che presto avrebbe inghiottito la città.

    «Mi porti pure dove ha detto» risposi sovrappensiero, «non conosco quelle zone e mi farà piacere vederle per portarne con me un buon ricordo» commentai.

    Il taxi si fermò al semaforo di un incrocio su Viale Cristoforo Colombo.

    Sulla destra sorgeva una piccola piramide rivestita in marmo di travertino. Lo stesso marmo del Colosseo. Non era molto alta, forse una decina di metri, ma era un punto fermo di uscita dalla città.

    «Ecco» disse l’autista, «ora prendiamo a destra Via della Magliana e poi proseguiremo sulla bretella per l’aeroporto. Ci vorranno almeno quaranta minuti, perché come vede il traffico è sempre molto intenso. Ma tanto lei non ha fretta, vero?, il suo aereo partirà alle due di questa notte» aggiunse l’autista.

    Già! Le due di questa notte pensai.

    «Va bene, la ringrazio. È molto gentile a farmi compagnia in questo breve viaggio» risposi.

    E poi mi immersi nei miei pensieri, in quello che mi stava succedendo e che mi accingevo a fare. Con gli occhi persi, mi sentivo cullato dal dondolio del taxi che correva, vedevo il buio della sera calare e il paesaggio scorrere fuori dai finestrini.

    Un tumulto di pensieri mi affollava la mente.

    Che ci faccio qui?

    Dove sto andando? Da solo poi!

    La ditta non aveva mandato nessuno ad accompagnarmi in questo mio primo viaggio, di notte, in un aeroporto intercontinentale, con una montagna di bagagli da custodire e spedire. E per di più ero inesperto. Eppure avevano avuto fiducia in me.

    Vedrà che ce la farà, mi ritornavano in mente le parole del mio capo, il dottor Viviani.

    La decisione l’avevo presa molto tempo prima, poco dopo aver completato il servizio militare in artiglieria da montagna a Pontebba, nel Friuli.

    Il servizio militare mi aveva plasmato e forgiato, ora ero pronto a prendere decisioni importanti per la mia vita.

    Già, la decisione! Voglio andare in Africa.

    Qualcosa di più importante degli amici, dell’amica del cuore, della famiglia, si era impossessato di me.

    L’imperscrutabile attrattiva dell’avventura e dell’ignoto mi aveva coinvolto e circuito.

    Per me l’Africa era la meta.

    5

    Avvolto nel buio e assorto nei miei pensieri, mi vedevo scorrere davanti, come in un film, il mio passato di giovane adolescente nel piccolo paese veneto.

    Il periodo della gioventù e degli studi era trascorso tra il parco e gli alberi di una prestigiosa villa veneta, proprietà di nobili veneziani. I miei genitori ne erano i custodi storici.

    Sportivo per natura, ero appassionato di tennis. Mi era facile praticarlo perché il campo si trovava all’interno del parco della villa ed era sempre a mia disposizione nei momenti liberi. Il gioco mi veniva naturale, plasmando il mio fisico già atletico.

    Nella fattoria dove vivevo veniva gestita l’azienda agricola, costituita da centinaia di ettari di terreno, divisi in più poderi sparsi nel territorio comunale e coltivati da una quindicina di mezzadri. A quei tempi, la mezzadria era ancora una pratica comune. La sudditanza al padrone, il proprietario dei terreni, era totale. Le famiglie coloniche erano numerose e nei loro grandi fabbricati vivevano contemporaneamente almeno tre generazioni.

    Un bel gruppo di amici e i festini in villa riempivano le giornate festive e le vacanze scolastiche, mentre tutto scorreva nella più assoluta normalità. Il paese era piccolo e non c’erano motivi o accadimenti importanti che turbassero il quieto scorrere del tempo e delle stagioni.

    Le estati erano calde e assolate, gli inverni lunghi e freddi. Nessun agio, nelle abitazioni, a mitigare i picchi di afa o gelo. Tutto era naturale e abituarsi non era un peso. Sopportare era un dovere.

    Io però guardavo avanti.

    Completati gli studi di geometra, avevo iniziato a inviare richieste di lavoro all’estero, tramite i Consolati del Sudafrica, dell’Australia, del Canada. Ma i riscontri tardavano ad arrivare. E senza un lavoro o un visto d’ingresso, in quei Paesi era impossibile emigrare.

    La svolta avvenne quando diventai collaboratore d’ufficio del mio professore di Topografia, l’ingegner Tramontini.

    Tramontini era stato un pilota di caccia durante la Seconda guerra mondiale. Un pezzo d’uomo alto e simpatico, con un carattere dolce e gioviale, ma all’occorrenza anche serio e burbero. Si era sposato molto tardi e aveva una figlia ancora piccola che spesso tenevamo in braccio mentre lavoravamo al tecnigrafo o alla scrivania.

    Parlava spesso con enfasi della sua esperienza di pilota. Ora era in pensione, da molto tempo ormai aveva lasciato il servizio effettivo. Gli piaceva raccontare dei suoi combattimenti aerei, delle cabrate, delle virate, di quando aveva cacciato i piloti della RAF inglese sopra il territorio italiano o nel Mediterraneo. Mimava sempre con le mani le evoluzioni dell’aereo, ricordando i mitragliamenti con le sue brownings.

    Non mi disse mai, però, quanti aerei avesse abbattuto. Era un argomento che lo turbava, provocandogli dolore.

    Ma lui era lì ed era sopravvissuto.

    L’ingegner Tramontini aveva un fratello che lavorava per la Pladeco di Roma. Un fratello più anziano che aveva passato una vita nelle terre e nei cantieri africani.

    A quei tempi, si stava aprendo un interessante cantiere nel Mambilla Plateau, in Nigeria, e avevano bisogno di un giovane topografo per eseguire un importante studio di fattibilità per lo sviluppo agroalimentare del Plateau.

    I finanziatori erano niente meno che lo stesso governo della Nigeria e la FAO.

    A quel punto tutto si fece più chiaro e certo. Avevo finalmente trovato la chiave di volta per le mie aspirazioni.

    Durante gli studi di geometra, la topografia era stata la mia materia preferita, e la Pladeco cercava un giovane topografo.

    Bingo!

    Per me si stava aprendo la concreta possibilità di andare in Africa.

    6

    Sembrava che a quel punto la strada fosse in discesa. Tutto coincideva alla perfezione.

    Era troppo bello per essere vero.

    L’ingegner Tramontini era intimamente felice di poter aiutare il suo pupillo, del quale aveva conosciuto, sia a scuola sia nel suo studio d’ingegneria, le doti tecniche e la dirittura morale.

    Avevo dalla mia una raccomandazione di ferro e un’incredibile coincidenza astrale. Non potevo mancare questa opportunità.

    E la chiamata alla fine arrivò.

    «Buongiorno, signor Sandri» disse una voce matura e decisa all’altro capo del telefono.

    «Sono il dottor Viviani, della Pladeco di Roma» proseguì la voce, «mi ha parlato molto bene di lei l’ingegner Tramontini, nostro valido collaboratore. Stiamo cercando un giovane geometra topografo da mandare nel nostro nuovo cantiere nel Mambilla Plateau, in Nigeria».

    Non stavo più nella pelle, il cuore cominciò a battere forte, ma cercai di celare l’ondata di emozione che mi stava travolgendo.

    «Le può interessare una collaborazione con noi?» continuò il dottor Viviani.

    Non volevo essere troppo precipitoso e rispondere d’impulso. Non mi sembrava molto professionale. Optai così per una risposta più formale: «La ringrazio per la telefonata, anche l’ingegner Tramontini mi ha parlato molto bene di lei e della Pladeco. La ringrazio ancora, dottor Viviani, per il suo interesse nei miei confronti». E aggiunsi: «Tramontini mi ha già fatto un quadro di massima dell’intera operazione, ma quale sarebbe il mio compito nello specifico?»

    «Lei, in qualità di topografo, sarà preposto a tutto ciò che è inerente alla cartografia da produrre e ai rilievi topografici da eseguire sul posto» mi disse il dottor Viviani. «È un lavoro difficile e impegnativo, ma avrà validi collaboratori. Non si preoccupi. Siamo una bella squadra» continuò.

    «Sono disponibile e ben motivato, penso di poter dare il mio contributo per il lavoro che mi ha esposto» risposi.

    «Bene» fece il dottor Viviani. «Le prepareremo un posto nel nostro ufficio romano, in Via Vittorio Veneto, in attesa che arrivi il suo visto d’ingresso. Perché, come sa, senza visto non le sarà possibile entrare in Nigeria, nel nostro cantiere».

    Lo aveva già definito nostro cantiere, pensai subito. Ero già parte della squadra. Non ci potevo credere. Il mio futuro aveva una salda certezza di permanenza in Africa.

    «L’aspetto lunedì prossimo. Si presenti alla segretaria Margherita. Vedrà che si troverà bene. Arrivederci» e così dicendo il dottor Viviani chiuse la comunicazione.

    La telefonata mi aveva raggiunto un mercoledì pomeriggio. Era una bella giornata di inizio aprile del 1976.

    "Come dirlo ai

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