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Il parco
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E-book112 pagine1 ora

Il parco

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“Un buon tema è come un sole, un astro intorno al quale gravita un sistema planetario del quale molte volte non si ha notizia finché lo scrittore di racconti, astronomo di parole, non ce ne rivela l'esistenza”. Julio Cortàzar. Renato Schembri, per questi racconti, ha scelto più astri: l'imprevisto, l'a-normalità, le relazioni umane in varie sfaccettature. I personaggi sono persone all'apparenza normali, quali ogni città può avere e riconoscere tra i suoi abitanti; accade loro, però, in questi racconti, un fatto improvviso, scardinatore di certezze, che fa emergere lati oscuri insospettati e rende consapevoli della discrasia tra l'essere e l'apparire. Mary Zarbo – Literaid

Nella raccolta di racconti 'Il Parco' di Renato Schembri la sofferenza individuale è correlata e legata a doppio filo con i drammi e le sofferenze sociali.
Leggendo alcune storie possiamo osservare il mondo  in cui viviamo attraverso gli occhi di creature fragili, vulnerabili; sono persone descritte in un contesto sociale difficile, che reclama giustizia, riparazione e ricostruzione.
On. Angelo Capodicasa - Deputato Nazionale.

La psicoterapia non può essere efficace se la comprensione intellettiva non è accompagnata da una comprensione affettiva, emotiva ed empatica del dolore del paziente. In questo senso, Renato Schembri fa conoscere la sofferenza psicologica da una prospettiva utile per chi svolge un lavoro clinico sui processi psichici di dissociazione: la fa comprendere “dall'interno”, da una prospettiva intrapersonale, con la descrizione del tormento che le anime dei pazienti vivono, sentono, soffrono nel rapporto con il loro mondo, qualche volta sopravvivendo, qualche altra volta soccombendo con esiti catastrofici.
Franco Manno – Psicoterapeuta,Psichiatra

Una testimonianza di partecipazione per le forme di dolore altrui, lontana per grazia naturale dal sensazionalismo e dalla morbosità che spesso inondano i servizi “realistici” dei media.
Cristiana Ciampa Tzomo – Monaca Buddhista

Renato Schembri si aggira negli spazi delle sue narrazioni con una scrittura precisa, di grande perfezione stilistica, attenta alla parola. Le storie imboccano sempre interessanti trame che si sviluppano tra un mondo immaginario, legato spesso alla malattia mentale, e una realtà solidificata. Una scrittura forte, carica di senso, da non leggere prima di spegnere la luce della notte.
Beatrice Monroy – Scrittrice, autrice (RadioRai)
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2013
ISBN9788867558025
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    Anteprima del libro

    Il parco - Renato Schembri

    Bromberg

    Il mio paziente

    Conobbi Luis circa un anno fa a New York, sul tetto panoramico dell’Empire State Building. No, no… non proprio. Per l’esattezza lo incontrai per la prima volta il giorno prima all’aeroporto Barajas di Madrid, dove aspettavo di imbarcarmi con la mia famiglia, dopo uno scalo, su un volo per l’America.

    L’incontro avvenne a causa di uno scambio di valigia, un comunissimo trolley color verde. Fu mia moglie ad accorgersi che la valigia non era la nostra quando mia figlia Elena, nell’attesa della partenza, le chiese di poter sfogliare i fumetti giapponesi che aveva portato dentro al trolley.

    Nella valigia c’erano pennelli di tutti i tipi: grandi, piccoli, nuovi, usati. Sulla maniglia non trovammo nessuna targhetta con il nominativo del proprietario. La targhetta ben compilata con i miei dati, però, c’era sulla mia. In fondo alla valigia, sotto i pennelli, intravidi un foglio di carta. Marianna si tolse il foulard che le avevo appena regalato per non rischiare di macchiarlo. Slittando con la punta delle dita tra i pennelli prese quel foglio di carta. Me lo passò. Tra gli scarabocchi senza senso individuai alcune righe: Finalmente trovo il coraggio di scriverti questa lettera....

    Perché fai quella faccia? Che c’è scritto? Mi chiese Marianna.

    Leggi. Che significa secondo te? Le passai il foglio.

    Non ci fu il tempo di darci una risposta perché Elena da una distanza ravvicinata ripeteva con una voce da robot:Mieifumettimieifumettimieifumetti....

    Mi allontanai con lei alla ricerca di un’edicola per comprare dei fumetti in sostituzione di quelli smarriti. Mia figlia Elena li avrebbe presi anche in lingua cinese pur di avere tra le mani i disegni dei suoi personaggi preferiti. Dovetti uscire fuori dalla sala di imbarco perché le edicole si trovavano soltanto all’ingresso dell’aeroporto. Comprammo i fumetti e poi ci intrattenemmo nella libreria che si trovava lì accanto. C’erano dei libri che attirarono la mia attenzione: raccoglievano citazioni significative di autori di tutto il mondo su argomenti di psicologia e di scrittura. Erano tradotti nelle principali lingue europee, anche in italiano. Aprii a caso una pagina e trovai queste righe:

    Fra il vento del mare, le voci allegre e chiassose della gente e il verde delle onde gonfie, l’infelicità riconosceva l’infelicità, la malattia fiutava la malattia. Ma non era poi una cosa così strana, gli esseri umani non si incontrano sempre in questa maniera?

    Yukio Mishima, Musica.

    Mentre leggevo sentii annunciare il mio nome attraverso un altoparlante. Non riuscii a capire cosa dicesse il messaggio ma il mio nome lo avevo inteso chiaramente. Acquistai il libro delle citazioni e ritornai nella sala di attesa con Elena.

    Trovai mia moglie che parlava con un ragazzo vestito con dei pantaloni rossi ed una camicia di jeans.

    Mi chiamo Riccardo Mambri, dissi, anche lei italiano?

    Sì, italiano. Mi scusi per l’inconveniente.

    Aveva il viso pallido, i capelli lunghi e disordinati. Sembrava imbarazzato, come a volersi scusare di qualcosa.

    Non si preoccupi, disse mia moglie, può capitare a tutti di scambiare una valigia.

    Veniamo da Roma. Sono uno psichiatra, vado a New York per un convegno. Mia moglie e mia figlia Elena…. Dissi per fare le presentazioni ma Elena era già seduta con gli occhi appiccicati al suo fumetto.

    Beh, io tolgo il disturbo. Scusate ancora per lo scambio delle valigie. Tagliò corto.

    C’era qualcosa nel suo modo di parlare che comunicava un senso di imprevedibilità, di istintualità.

    Lo vidi salire la scaletta di coda dello stesso Boeing sul quale ci stavamo imbarcando noi. Lo intravidi ancora per qualche secondo all’arrivo, a Newark, mentre facevamo la fila alla dogana.

    A Manhattan soggiornammo al Chelsea Hotel, sulla ventitreesima. Era stata mia figlia Elena a scovare quel posto che, diceva, era stata la residenza di alcuni suoi idoli musicali. Il giorno dopo, il congresso avrebbe avuto inizio soltanto nel pomeriggio, così, io, Marianna ed Elena facemmo un giro turistico in città. Era un periodo importante della mia vita con Marianna. Cristo Santo se lo era. Avevamo rischiato di perdere Elena, perderla per sempre. A peggiorare le cose ci si era messo pure quel coglione di mio padre... .

    Il viaggio insieme, in occasione di un congresso, era il nostro tentativo di fare capire a nostra figlia quanto l’amavamo, quanto era importante per noi. Speravamo servisse a farle dimenticare il casino che era successo.

    Andammo con un taxi a Time Square e da lì raggiungemmo a piedi l’Empire State Building. L’ascensore ci fece schizzare veloci fino alla terrazza panoramica. Elena corse verso la balconata nella zona Sud e ficcò la testa tra un’inferriata e l’altra. Marianna sembrava ubriaca alla vista di quella sterminata quantità di grattacieli che copriva il campo visivo.

    Mia moglie è una donna forte che mi ha sostenuto nei momenti di difficoltà: il trasferimento a Roma dopo la tragedia dei nostri amici e, adesso, il tentativo di rapimento di ... . Dio mio!

    Marianna mi abbracciò e mi baciò.

    Ero tra le sue braccia quando vidi quel ragazzo mettere un piede sulla balconata e balzare su con l’evidente intento di commettere una pazzia. Aveva dei pantaloni rossi ed una camicia di jeans. A terra, ai suoi piedi, un trolley verde uguale al mio... Sì! Era lui, il ragazzo con il quale c’era stato lo scambio di valigia il giorno prima, all’aeroporto di Barajas. Ecco cosa significavano quelle parole scritte sul foglio finalmente trovo il coraggio di scriverti questa lettera... : aveva intenzione di suicidarsi!

    Alcuni turisti tedeschi lanciarono delle urla, gli uomini della sicurezza si precipitarono sulla terrazza.

    Il ragazzo con i pantaloni rossi era sul punto di scavalcare l’inferriata. Faceva dei movimenti lenti, misurati. Qualche altro secondo e la sua morte sarebbe stata certa.

    Non lo faccia, non faccia pazzie! Gridai e corsi verso di lui sbrogliandomi dall’abbraccio di mia moglie che ancora non aveva compreso la tragedia che si stava consumando.

    Il ragazzo si girò con un movimento semplice, come se qualcuno lo avesse chiamato per strada.

    Intanto, tutt’intorno a lui si era riempito di guardie. Gridavano parole concitate che sembravano uscite fuori da un telefilm.

    Il pensiero andò a mia figlia. Avrei voluto evitarle di assistere a quel dramma terribile: un uomo che si butta giù dalla terrazza di un grattacielo. Un ricordo che avrebbe potuto imprimersi nella sua memoria per sempre.

    Venga giù, la prego, venga giù. Ci siamo conosciuti ieri all’aeroporto di Barajas. Venga giù.

    Si voltò ancora, quando ormai aveva superato con una coscia l’inferriata e stava per scavalcarla con l’altra. Bastò quell’attimo a permettere ad una guardia di saltargli addosso. La gamba sinistra restò incastrata tra una sbarra e l’altra e un intero gruppo di poliziotti, adesso, lo tirava giù. Mi avvicinai per liberargli la gamba, dissi qualcosa alle guardie per chiedere di non tirare così forte visto che ormai era bloccato ma parlavo in italiano e quelli non mi potevano capire. Sembravano più impegnati a fare il placcaggio in una partita di rugby che non a salvare la vita di un uomo.

    Inevitabilmente l’osso della gamba cedette e si ruppe. Ero vicino e potei sentire il suono, come quando si spezza una canna, un giunco.

    I poliziotti si accorsero solo a quel punto di ciò che avevano provocato.

    Gli liberarono la gamba dall’inferriata, lo fecero scendere, lo portarono dentro.

    Sì, era lui. Il ragazzo che avevo conosciuto il giorno prima all’aeroporto di Barajas, non c’erano dubbi.

    Presi il trolley che era rimasto vicino al parapetto e lo portai all’interno. Feci segno alle guardie che era di proprietà del ragazzo. In cambio ricevetti dei gestacci ed una gran quantità di parole incomprensibili.

    Non so per quale motivo, tirai fuori dal portafogli il mio biglietto da visita con l’indirizzo di Roma e riuscii a metterlo in mano a quel ragazzo che aveva tentato di togliersi la vita. Non feci neppure in tempo a scriverci

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