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I delitti di Livorno: Il commissario Botteghi e l'omicidio del barone Corridi
I delitti di Livorno: Il commissario Botteghi e l'omicidio del barone Corridi
I delitti di Livorno: Il commissario Botteghi e l'omicidio del barone Corridi
E-book257 pagine3 ore

I delitti di Livorno: Il commissario Botteghi e l'omicidio del barone Corridi

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Info su questo ebook

Botteghi sta vivendo una profonda crisi autodistruttiva. Il rimorso per la morte della moglie e la paura che a causa sua altre persone care possano subire la stessa sorte, lo stanno consumando al punto di recidere qualsiasi legame. Quando però una donna lo supplica di indagare sulla morte apparentemente casuale del suo amante, venuto in possesso di un diario segreto appartenuto a Gustavo Corridi, il commissario non riuscirà a resistere e verrà risucchiato in una nuova indagine, legata al misterioso e irrisolto delitto del vecchio barone avvenuto secoli prima. Scoperto un elaborato enigma creato da cinque personaggi vicini a Corridi, allo scopo di proteggere una sua favolosa scoperta, il commissario dovrà fare i conti con chi ancora oggi è disposto a uccidere pur di mettere le mani sull’antico segreto del barone. In una frenetica corsa contro l’assassino, alla ricerca di indizi sparsi tra monumenti e ville storiche di Livorno, Botteghi dovrà anche fare i conti con i suoi tormenti, per ritrovare una propria dimensione; sarà disposto a scendere a patti con la parte più oscura della sua anima pur di riuscirci?

Diego Collaveri è stato musicista e arrangiatore professionista, prima di approdare come sceneggiatore a diverse società di produzione. Docente saltuario di sceneggiatura e storia del cinema, critico cinematografico a tempo perso. Attivo nel settore editoriale sin dal 2009 con diverse pubblicazioni, tra le quali Fango (La Corte Editore) e Nel Silenzio della Notte (Mursia), ha ricevuto numerosi premi per la narrativa crime. Per Fratelli Frilli Editori è autore della saga del commissario Botteghi: L’Odore Salmastro dei Fossi, Il Segreto del Voltone, La Bambola del Cisternino, Il Commissario Botteghi e il Mago – l’ultima illusione di Wetryk, Il passato ha un prezzo.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2022
ISBN9788869436482
I delitti di Livorno: Il commissario Botteghi e l'omicidio del barone Corridi

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    I delitti di Livorno - Diego Collaveri

    LIVORNO, 27 FEBBRAIO 1867

    La brezza notturna increspava l’erba muovendo onde fugaci, che correvano vivaci lungo i campi. L’odore del finocchio selvatico e della terra umida permeava l’aria di una armoniosa fragranza bucolica, inquinata solo da un lieve sentore acre di sterpaglie incenerite. Dalle alte ciminiere poco lontano, imponenti colonne di fumo si levavano verso il cielo confondendosi nella notte, adombrando il brillante scintillio del manto siderale. Un silenzio profondo dominava la campagna invernale, solo il richiamo lontano di un uccello notturno, infreddolito dalla rigida temperatura, osava turbare la tacita sacralità calata tutto intorno.

    Dalla strada sterrata, che scendeva l’argine verso il maestoso edificio non molto distante, si levò uno scricchiolio di ruote misto allo scalpitare degli zoccoli. La tenue luce di una lanterna, fissata con un’asta alla panca del calesse, illuminava appena un metro avanti al mezzo, lasciando all’istinto del destriero la sicurezza dell’andatura.

    Il conducente se ne stava con i gomiti poggiati sulle gambe, con le briglie lenti, sicuro che il cavallo conoscesse bene la via da percorrere.

    Il fioco bagliore della lampada rivelò, poco innanzi sulla carreggiata, la presenza di una figura che sembrava partorita all’improvviso dall’oscurità.

    L’uomo tirò leggermente a sé le strisce di cuoio nelle sue mani, accompagnando il gesto con un mesto suono gutturale che fece arrestare l’animale. Rimase qualche secondo a fissare ciò che bloccava il suo cammino, quasi infastidito, passandosi le grosse dita di una mano nella folta barba grigia. Le barre di ferro, poste sotto la panca di guida come ammortizzatori, cigolarono all’alzarsi del cocchiere, che con un sospiro svogliato scese dal mezzo.

    «Volevi vedermi?» fece udire la sua voce profonda.

    L’ombra annuì.

    «Non potevi proprio attendere fino a domani?» continuò scocciato il vetturino, infilando una mano nella tasca del panciotto ed estraendo un costoso orologio d’oro, finemente lavorato, per controllare l’ora.

    «No, barone» rispose secco l’altro individuo.

    «Come sei formale» ribatté l’uomo quasi divertito. «Sentiamo, che cosa vuoi?»

    «Lei mi deve rendere conto» affermò decisa la figura. «E lo farà adesso».

    «Come osi parlarmi così?» si adirò l’altro, avanzando infuriato fino a ritrovarglisi praticamente addosso. «Nessuno si permette di parlare così al Corridi! Specie tu, dopo tutto quello che...»

    Una lama sgusciò veloce da sotto il cappotto scuro del misterioso personaggio e lesta penetrò il panciotto del barone, strozzandogli le parole in gola. Gli occhi sembrarono uscirgli dalle orbite, mentre il volto s’infiammò di una acuta sofferenza. Corridi guardò in basso. La luce della luna, alta nel cielo, si rifletteva sul suo sangue fumante schizzato sul manico del coltello e sulla mano che glielo premeva dentro le viscere.

    Si appoggiò alle spalle dell’aggressore, sentendo le forze venirgli meno. Lo fissò con astio e odio, quasi volesse maledirlo in quell’ultimo rigurgito di vita.

    Con una ferocia animale, l’assassino estrasse l’arma per infliggere altri sei colpi rabbiosi al corpo dell’uomo.

    Lo sguardo del barone si spense, divenendo inanimato. Il corpo si afflosciò pesante come un sacco di patate, rovinando tra la polvere del selciato impastato del suo stesso sangue.

    Il carnefice fissò con rancore la sua vittima esanime per qualche secondo; poi scrutò intorno guardingo, accertandosi di non aver avuto testimoni. Si avvicinò al calesse e assestò uno schiaffo sulla coscia del cavallo, che partì all’impazzata verso la vicina Villa del defunto padrone.

    L’ombra si dileguò per i campi senza guardarsi indietro, svanendo al mondo nel buio della notte da cui era comparsa.

    Nell’aria adesso si riusciva a percepire anche l’odore ferruginoso del sangue sparso sulla terra. Dal ventre squarciato, l’anima del barone Corridi saliva al cielo tra i vapori causati dal freddo pungente, quasi soffiata via dall’alito gelido della morte.

    Il silenzio tornò sovrano su tutto il paesaggio.

    LIVORNO. OGGI

    Il forte boato, provocato dall’infrangersi della mia schiena contro dei bidoni per la differenziata, che caddero come birilli, rimbombò nello stretto vicolo.

    «E vedi di portare i soldi se vuoi rimettere piede qui dentro, vecchio ubriaco!» mi urlò l’energumeno che mi aveva appena usato come palla da bowling.

    Restai sdraiato supino tra la spazzatura, per niente infastidito dall’odore dell’immondizia. Continuavo a ridere ripensando alla t-shirt di circa tre taglie più piccola indossata dal buttafuori per evidenziare i muscoli. Spalancai gli occhi e restai preda del fascino alcolico della minuscola porzione di cielo che si intravedeva tra i tetti degli edifici intorno. Nonostante la distorsione psichedelica nelle orecchie, causata dalla sbronza, distinsi nel mormorio le risate di scherno delle persone in fila all’ingresso del locale, che avevano assistito alla scena. Mi decisi ad alzarmi, ma i miei sensi non erano molto d’accordo. Gattonai tra i sacchi maleodoranti fino a raggiungere il muro vicino, a cui mi aggrappai per tirarmi su tra l’ilarità generale e qualche stronzo che riprendeva con il cellulare.

    Dovevo aver anche biascicato qualche minaccia di violazione della privacy, ma non aveva sortito l’effetto sperato, così optai per un approccio diverso. Mi prodigai in un grande inchino teatrale esclamando: «Ovvia, s’è fatto tardi. Sarà il caso vada» rendendo la mia performance eccezionale.

    Mi allontanai barcollando accompagnato da scroscianti applausi, o almeno così mi parve in quella realtà alternativa distorta dall’alcol.

    Facevo fatica a orientarmi e ogni poco mi fermavo appoggiando la schiena al muro per riprendere fiato. Infilai una mano in tasca alla ricerca del pacchetto di sigarette ma trovai una fetta di limone e un paio di cubetti di ghiaccio quasi squagliati.

    «Ma che cazzo» esclamai divertito gettandoli via, per poi agguantare finalmente ciò che volevo.

    Aspirai avidamente fino a sentire il fumo bruciarmi i polmoni.

    «Aaah» espirai soddisfatto spandendo il mio piacere nell’aria. Continuai a gustarmi la sigaretta, attendendo che la nicotina mi restituisse un briciolo di lucidità.

    Non riuscivo a pensare a niente, la testa mi girava impastando i pensieri tra loro come i panni dentro il cestello della lavatrice.

    Quando lanciai via il secondo mozzicone, mi resi conto che era passato parecchio tempo. Per fortuna cominciai a riconoscere dove mi trovavo.

    «Dai, su: casa non è lontana» mi incitai a proseguire, ma ad ogni passo sentivo le gambe talmente pesanti che mi sembrava di affondare i piedi nell’asfalto del marciapiede.

    Sbucai accanto al Palazzo dei Portuali, proprio di faccia alla Darsena che non degnai nemmeno di un’occhiata; non perché fossi troppo concentrato a non smarrire la strada, ma perché non ne avevo voglia. Non avevo più voglia del mare, non avevo più voglia di quella città, non avevo più voglia di tutta la mia vita.

    Mi trascinai barcollando lungo la strada, passando davanti al monumento dei Quattro Mori, simbolo di Livorno. Non c’era stata volta che, trovandomi lì, non mi fossi fermato ad ammirarlo, ma qualcosa si era rotto: il mio rapporto con tutto ciò che avevo intorno era cambiato. Provavo talmente tanta rabbia e rassegnazione da avvelenare ogni interesse verso tutto ciò che mi circondava. Bere mi aiutava a dimenticare; mi regalava quell’incoscienza capace di farmi scordare momentaneamente ogni tormento.

    Mi sentivo sconfitto: come poliziotto e come uomo.

    Durante il mio ultimo caso più rilevante, avevo di nuovo pestato i piedi a un gruppo spietato di uomini di potere che da sempre muovevano le losche trame in città. Non ho mai temuto la morte e di questo loro ne erano consci, ma sapevano anche quanto vivere in alcuni casi fosse una condanna ben peggiore. L’avevo già assaggiato con la tragica morte di mia moglie Nadia, uccisa a sangue freddo da una mano ignota in casa nostra. Oltre al dolore per la sua perdita, avevo dovuto subire anche il rancore di mia figlia Valentina, che me ne riteneva responsabile, per non parlare delle malelingue dei colleghi di cui persi la fiducia. Sapevo che quel mio calvario portava la firma di quegli individui, anche se non ne avevo le prove, per questo il lapidario ultimatum che mi avevano dato non era suonato come una vuota minaccia: mettici un’altra volta i bastoni tra le ruote e le persone a te vicine saranno le prime a scontarlo. Ho sempre creduto nei valori incarnati nella divisa che indossavo, ma non avrei mai immaginato che il prezzo per non tradirli sarebbe stato così alto e non ero più disposto a pagarlo. Se ero riuscito a sopravvivere a quel baratro in cui ero caduto, lo dovevo solo al sostegno e all’affetto di alcune persone che mi volevano bene: Mariella, la mia cara e odiosa amica d’infanzia; Mantovan e Busdraghi, i miei fidati agenti, la mia ritrovata famiglia; per non parlare di tanti altri che mi gravitavano intorno e facevano ormai parte di me. Non avrei mai permesso che la loro vita fosse in pericolo per colpa della mia testardaggine; perché non avevo voluto girare la testa dall’altra parte, perché non ero stato capace di ricacciare in gola l’orgoglio. Li avrei protetti in qualsiasi modo, anche se questo avesse voluto dire consumarmi l’anima.

    Appoggiai una mano al muro per riprendere fiato, schiacciato da quei pensieri.

    Alzando la testa mi resi conto che ero già sugli Scali d’Azeglio, a pochi metri dal portone del palazzo dove abitavo. Dovevo essere davvero sbronzo per non essermi accorto di aver incrociato un bar poco prima, dove avrei potuto farmi un ultimo giro.

    Una sommessa sensazione vibrava nell’aria, come il ronzio di una frequenza minore appena percettibile. Erano giorni che la sentivo. La conoscevo bene: era l’insofferenza che provavo di solito quando venivo pedinato, ma me ne fregava talmente poco che avevo deciso di ignorarla totalmente. Anzi: meglio se mi accoppavano, almeno tutto questo tormento sarebbe finito e nessuno avrebbe più rischiato.

    Mi sembrò che l’ascensore impiegasse un’eternità per arrivare all’ultimo piano; le scale di pietra, per salire l’ultimo livello fino al mio appartamento, le feci gattonando.

    Aperta la porta trovai ad accogliermi il caos di sempre. Non sapevo più nemmeno quando fosse stata l’ultima volta che avevo dato una pulita. Sul pavimento c’erano sparse non so quante buste di carta di consegne a domicilio: mi ero completamente assuefatto a questa nuova comodità. Ero diventato l’incubo dei fattorini, non solo perché non lasciavo mai un centesimo di mancia, ma anche perché, dopo essersi fatti quelle scale scomode per arrivare qui, li trattavo pure di merda. Sfilai il soprabito e lo lanciai verso una sedia, mancando clamorosamente il bersaglio. Andai per liberarmi di un po’ dell’alcol che avevo in corpo, alleggerendo la vescica. Da quanto mi faceva schifo vedere la mia faccia, avevo rotto con un pugno lo specchio del bagno. Sette anni di disgrazia che andavano a sommarsi a un totale ben più consistente: non mi sarebbero bastate due vite per smaltirla.

    Franai rovinosamente su tutto ciò che era sopra al divano.

    Chiusi gli occhi, continuando a percepire la stanza girare.

    Poi finalmente sprofondai nello stato di privazione sensoriale che tanto agognavo.

    Un suono lontano salì dal nulla, divenendo feroce. Quei colpi insistenti finirono per rimbombarmi nei timpani.

    Provai ad aprire gli occhi ma mi facevano male persino le palpebre. La luce del giorno abbagliava ferocemente dalla finestra, sintomo che l’alba era ormai passata da un pezzo.

    Biascicai qualcosa, amalgamando bestemmie a parole incomprensibili.

    Quel rumore divenne più familiare: qualcuno bussava con insistenza.

    Scivolai sul pavimento per poi gattonare facendomi largo nel caos sparso in giro, fino a raggiungere la porta, a cui mi aggrappai per tirarmi su.

    La stanza prese a girare come su di un ottovolante.

    «Sì?» risposi con un rantolo.

    «Commissario, sono io» mi arrivò dall’altra parte la voce di Busdraghi. «È un’ora che la cerco, mi stavo preoccupando».

    «E di che?» replicai contrariato.

    «Ci hanno chiamati sulla scena di un delitto» spiegò l’agente. «Il vicequestore è incazzato nero perché non si è presentato. Mi ha ordinato di, testuali parole, trascinare il suo culo al lavoro e poi portarlo da lui, e il tono non era da invito a prendere un tè».

    Sbuffai scocciato: ci mancava anche Mancusi.

    «Sì, sì; ho capito» affermai sconsolato, andando a prendere il soprabito. Quando mi chinai per raccoglierlo sentii le tempie infilzate da due stilettate assestate con forza. Presi il cellulare dalla tasca: quaranta chiamate. Forse togliere la suoneria non era stata una mossa astuta, o magari sì visto che almeno non ero stato disturbato.

    Il display indicava le dieci passate da venti minuti. Mi sforzai di ricordare a che ora fossi rincasato, per poi ritenerlo irrilevante.

    Quando aprii la porta, il tanfo esalato dall’interno investì Busdraghi, che fece un passo indietro schifato.

    «Porco cane, commissario» si lamentò. «Ci tiene dei gatti morti lì dentro?»

    «Due minuti di riscontro e va via» affermai facendo sbattere l’uscio dietro di me.

    Il mio agente mi guardò severo, come un genitore che non crede più all’ennesima scusa del figlio che da mesi non mette a posto la camera.

    La macchina sfrecciò veloce per le strade di Livorno.

    Fissavo al di là del finestrino senza soffermarmi su niente, preda del menefreghismo e del mal di testa atroce che mi stavano logorando.

    «Commissario, ma un po’ di colazione? Un caffè?» propose materno Busdraghi, soprannominato da me Panzer per la sua notoria delicatezza caratteriale, nonché per la fissa per gli addominali che però, nonostante i tanti esercizi, ancora non si erano decisi a palesarsi.

    Cercai di pensare all’ultima volta che avevo messo qualcosa di solido sotto i denti.

    «Prima leviamoci ’sta rottura di palle, poi mi offri un caffè» affermai sfacciato.

    L’auto inchiodò in una traversa di via Garibaldi, una delle zone più depresse della città. Con il tempo, il cuore popolano del centro si era visto soppiantare da un’orda di stranieri che avevano colonizzato la zona, spingendo molti a svendere i propri appartamenti pur di trasferirsi. Livorno era da sempre una città multietnica, che si fregiava di un’apertura insita nel DNA dalle Leggi Livornine, provvedimenti legislativi emanati tra il 1591 e il 1593 dal Granduca di Toscana Ferdinando I de’ Medici atte a richiamare persone di qualsiasi etnia o credo religioso per commerciare e far così proliferare la città. Se al tempo questo aveva sicuramente favorito lo sviluppo economico e culturale, le ultime ondate estere si erano portate dietro anche i disagi sociali di qualsiasi altra realtà metropolitana, che si erano sommate alle preesistenti: microcriminalità, droga, sfruttamento della prostituzione, e tutte le altre belle cose che mi facevano guadagnare il pane ogni giorno. L’aspetto più triste però era in realtà che, essendo comunità chiuse e molto selettive, avevano elevato intere strade a territorio privato, tanto da renderci difficile persino il rispetto della legge. Al tempo stesso lo Stato appariva debole e disinteressato proprio nelle aree dove serviva di più percepirne il polso, per questo i cittadini non si sentivano protetti. Era una piramide di responsabilità che scaricava il proprio peso relegandolo al gradino inferiore, sempre più in direzione della base. Il malcontento serpeggiava così tra gli abitanti che lo indirizzavano verso le forze dell’ordine, che a loro volta si rendevano conto di non essere supportate dai vertici, ritrovandosi a gestire una sovrabbondanza di interventi senza fondi, senza personale, spesso senza nemmeno carburante per le volanti.

    Salii a fatica i cinque piani di quel palazzone anteguerra senza ascensore, con le scale ancora in pietra. Quando gli altri poliziotti mi videro arrivare, trafelato e con un aspetto non proprio sveglio, non riuscirono a trattenere delle risatine di scherno.

    Busdraghi gli passò davanti con il mento alto e l’espressione strafottente di chi non si abbassa a tali provocazioni.

    La casa doveva appartenere a degli anziani, si intuiva chiaramente dall’arredamento.

    Dopo un breve corridoio, entrai nella stretta cucina e Mantovan, che era già lì, tirò un sospiro di sollievo vedendomi. Per terra giaceva il corpo di un uomo di una certa età. In sottofondo sentii da una stanza accanto un pianto disperato.

    Bertini, capo della scientifica e mio vecchio amico, stava chino sul corpo.

    «Ah, ti sei degnato di venire a lavorare?» mi bacchettò con piglio truce sulla sua espressione da scimmiotto.

    «Che abbiamo?» andai al sodo guardandomi attorno.

    «Maschio, 74 anni. Ferita da arma da taglio nel torace, all’altezza del cuore, probabile causa della morte» mi ragguagliò, mostrandomi l’arma del delitto riposta in un sacchetto di plastica trasparente.

    Scrutai bene l’ambiente, sebbene apparentemente non sembrasse. Anche se avevo la mente annebbiata, il mio cervello analizzò in modo cristallino la scena del delitto.

    «È stata la moglie a chiamare questa mattina l’ambulanza» mi informò il mio agente, che per la giovane età chiamavo il ragazzo. «Ha detto aver trovato il marito sul pavimento quando si è alzata. Ai paramedici, quando sono arrivati, ha detto che si era sentito male, ma quando lo hanno girato e hanno visto il coltello... »

    «È stata lei» sentenziai lapidario.

    Bertini sollevò la testa e si mise a ridere. «Non sei un po’ troppo affrettato?»

    Sospirai sconsolato.

    «La signora soffre di problemi psicotici, sicuramente demenza associata a episodi aggressivi» cominciai a spiegare. «Era la vittima a controllare che prendesse regolarmente i suoi farmaci, ma negli ultimi giorni deve essersene dimenticato e lei è esplosa all’improvviso, rimuovendo dopo l’accaduto».

    Il silenzio cadde nella stanza, avevo gli occhi di tutti puntati addosso.

    «E come fai a esserne così sicuro?» mi punzecchiò Bertini.

    «Ai paramedici la signora ha detto che il marito aveva avuto un malore e scommetto che è caduta dalle nuvole quando l’hanno informata che era stato pugnalato» spiegai guardando Mantovan, che annuì confermando la mia ricostruzione. «Ecco perché è ancora sotto shock: non ricorda quanto accaduto ed è un tipico sintomo di chi soffre di quel genere di disturbi. Sono certo che in bagno o in camera da letto troveremo i farmaci che prende, in modo da avere un’idea più precisa sulla sua patologia».

    A quelle parole, Busdraghi scattò alla ricerca di prove.

    «Il marito era solito appuntare ogni giorno le medicine che le somministrava» ripresi avvicinandomi a un calendario appeso a una parete, con sopra delle scritte accanto ai numeri rossi dei giorni. «Nell’ultima settimana però la cadenza non è più costante come nelle precedenti: deve essere accaduto qualcosa» proseguii avvicinandomi a un canterale dove erano appoggiati dei fogli. «Queste ricette mediche sono recenti e sono a nome Otello Panzacchi, non a quello della moglie. A giudicare dalla tipologia di medicinale prescritto, mi viene da supporre che anche la vittima cominciasse ad avere problemi di memoria, sicuramente causati dall’età».

    I presenti si sporsero per vedere i reperti che stavo indicando.

    «Il corpo è accasciato a fianco alla sedia, davanti al

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