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Black Love
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E-book163 pagine2 ore

Black Love

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Black Love è il primo capitolo dell'omonima trilogia. Alicia è una ragazza Somala, arrivata clandestinamente sulle coste siciliane con un piccolo gruppo di persone guidate da Faisal, il leader, che costringe la comunità a continuare a vivere clandestinamente, in un casale in campagna, a pochi kilometri da Noto, un paesino dove il tempo sembra essersi fermato all'età barocca. Joseph Delia è un membro dell'associazione sportivo-culturale "nido delle aquile", che da qualche tempo ha preso una piega violenta e razzista, pratica la boxe, come il resto dell'associazione, e tutti sono temuti e rispettati dalla gente del paese. Le vite dei due ragazzi sono legate da un destino così cupo e crudele da sembrare sadico. Lo sviluppo della storia lascia il lettore inevitabilmente senza fiato, in un percorso di amore e violenza, di razzismo e di cambiamento. Niente è come sembra, Alicia scoprirá quanto la vita possa essere dura e quanto la crudeltá della gente spropositata.
LinguaItaliano
Data di uscita10 ago 2017
ISBN9788822809896
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    Anteprima del libro

    Black Love - Cristian Mazza

    Prologo

    E così io avevo pensato di proteggerla.

    Bloccato in questa stanza sono impotente.

    Colpevole e non vittima io sono qui su questo letto e lei chissà dove.

    Se amarla è uno sbaglio, voglio che la mia vita sia un susseguirsi di sbagli.

    Le mie gambe torneranno a camminare ma, se non per raggiungerla, non ne varrà la pena.

    Loro sono di nuovo qui.

    «Non siamo l’isola che non c’è, lo scoglio di buona speranza, siamo l’eredità dei greci, dei romani, siamo filosofi, guerrieri e non crocerossine di gente che viene qua a rubarci il lavoro, la strada, le ragazze. Noi non siamo razzisti, non abbiate timore, non sentitevi in colpa quando vi dicono xenofobi. Noi siamo la cura necessaria a un sistema ormai malato, siamo la soluzione al problema, l’ultima speranza di salvezza dalla genuflessione del nostro paese allo straniero. Queste persone spacciano a ogni angolo delle strade senza che nessuno le prenda a calci in culo; furti, violenze, violazioni della legge di ogni genere. Quando un italiano, magari per necessità, commette gli stessi crimini, è probabile che marcisca in galera ma loro no, loro scappano dalla guerra; nella peggiore delle ipotesi finiscono in una comoda casa d’accoglienza. Tutti parlano, nessuno ha il coraggio di agire. Tutti storcono il naso ma poi abbassano la testa. La nostra cultura sta via via scomparendo, prima per l’imbastardimento della globalizzazione e adesso per le nuove invasioni barbariche. Noi non siamo lo Stato ma qui, a casa nostra, nel nostro piccolo non permetteremo tutto questo. Noi non siamo la Polizia, è vero, ma non siamo nemmeno come tutti i pavidi lì fuori che rimangono a guardare e a sfogare la loro rabbia sui Social Network. Noi siamo le aquile, siamo nati per volare in alto.»

    Ispirato o preparato a casa ma ad ogni modo empatico e chiarissimo il discorso del capo dell’associazione sportivo-culturale Nido delle aquile.

    Il capo era muscoloso ma leggermente in sovrappeso, rasato e perennemente abbronzato, indossava quasi sempre una giacca in pelle lucida e uno shemagh militare, il suo vero nome era Peter ma aveva imposto sin dal nascere dell’associazione che tutti lo chiamassero Leonida.

    Quel giorno, una mattina di marzo, stranamente a Noto non c’era il sole, addirittura pioveva a tratti e i ragazzi dell’associazione sportivo-culturale Nido delle aquile erano radunati nella loro sede ufficiale, che qualcuno di loro chiamava covo, altri tana, altri ancora nido.

    L’arredamento di fortuna e senza gusto sembrava avvertire chiunque si fosse avvicinato all’associazione: Ehi, bello, non siamo qui per giocare o per far festa; una scrivania scolastica anni Novanta, recuperata di sicuro senza chiedere il permesso da qualche liceo, una cartina dell’Italia, una bandiera con un’aquila, e la locandina del film 300.

    Davanti a Leonida c’erano tutti i componenti dell’associazione: un piccolo gruppo di otto ragazzi. Joseph Delia sedeva di fronte al capo, ambiguo come sempre, oscillava anche quel giorno tra la noia di chi ha sentito decine di volte quei discorsi e l’interesse di chi ci crede davvero, o di chi si sforza di crederci per rimanere coerente con se stesso. Accanto a lui c’erano i pericolosi fratelli Sergi: Alessandro, alto e moro, agilissimo nonostante la sua altezza, incriminato all’età di sedici anni per maltrattamento animale, in particolare per combattimenti clandestini tra cani, pluridenunciato per reati minori. Fabio, il maggiore, più basso ma molto più forte fisicamente, completamente assoggettato al fratello, sposò la causa e le idee nazionaliste dell’associazione da quando loro padre fu licenziato da un’azienda agricola per dare posto a manodopera straniera, più vantaggiosa. Come sempre dietro tutti c’era Alex, un ragazzotto basso e grassoccio, con problemi di vista, oltreché di autostima. Entrato nel gruppo inizialmente solo per il desiderio di stare sempre insieme a Joseph, che lo aveva salvato da un’aggressione da parte di un gruppo di rom, aveva via via trasformato una presunta idea comune in uno stile di vita inconsapevole: salutava chiunque col saluto creato da Leonida, ovvero il pugno destro che toccava la spalla sinistra e rimaneva fermo lì per qualche secondo. Il suo hobby preferito era esaltare Joseph e pregare che diventasse lui il capo dell’associazione. Francesco, un ragazzo altissimo, poco più di Alessandro, aveva perso l’occasione di diventare un nome importante nella boxe nazionale a causa del fatto che era completamente monopolizzato dal capo. Leonida era fidanzato con sua sorella, per cui, oltre a un esagerato timore, aveva di lui anche un dovuto rispetto.

    Moana, cattiva fino all’osso, amante del capo e a lui devota, Carlo, l’idealista del gruppo, il più colto, lui creava la propaganda dell’associazione e dava spunto a Leonida per i discorsi da affrontare, raramente prendeva parte all’azione ma era quello il suo ruolo ed era molto rispettato.

    A Giuliano, infine, non importava molto delle idee; era un ragazzo solo e aveva trovato nel gruppo una famiglia.

    Dopo il discorso, si alzarono tutti in piedi gridando ed esaltandosi, l’atmosfera si fece più informale, alcuni si precipitarono ad abbracciare il leader mostrando il più possibile approvazione, Moana lo tirò a sé e lo baciò con eccitazione provocando lo sguardo infastidito di Francesco ma, non appena questo lo incrociò con quello di Leonida, abbassò gli occhi completamente sottomesso.

    Dopo poco smise di piovere, ognuno salì sulla propria moto tranne Alex, che non aveva neppure la patente, e Giulio, che guidava soltanto autovetture, e si salutarono.

    Leonida salì sulla moto di Francesco, suo inseparabile accompagnatore, e si diresse a casa della famiglia di quest’ultimo dove lo aspettava la fidanzata Marika, ignara dell’esistenza dell’associazione.

    Marika era una bellissima ragazza prossima alla laurea in biologia; tutti, in paese, si chiedevano perché avesse ceduto ai corteggiamenti di Leonida, considerato dai più un delinquente.

    I fratelli Sergi andarono a casa ma erano troppo gasati, il discorso di Leonida quel giorno era stato più convincente del solito; non avevano fame, sniffarono una pista di cocaina e andarono di corsa a esercitarsi a sparare in campagna utilizzando come bersagli cartelli segnaletici presi illecitamente qua e là.

    Joseph andò a casa e si mise comodo, la sua stanza era piena di riferimenti all’associazione: un poster raffigurante una grande aquila con le ali spiegate e gli artigli che reggevano la Sicilia, una T-shirt appesa al muro con la scritta: Nido delle aquile boxing team. Accarezzò il cane, accese una sigaretta, diede qualche pugno al sacco che pendeva dal tetto al centro della stanza, aprì un’agenda che utilizzava per segnare appuntamenti e pensieri e iniziò a scrivere:

    Non so più che pensare, siamo noi i lupi, affamati di vendetta, frustrati per la nostra condizione economica precaria, che cerchiamo un capro espiatorio al nostro fallimento come uomini, o sono loro, i veri colpevoli del collasso del nostro sistema economico? Peter è sempre convincente, non si può negare che quello che ha detto stamattina corrisponde a una possibile realtà dei fatti ma, anche se si volesse negare, rimane comunque un pensiero silenzioso... quello che fa rumore, quello che conta, è solo il pensiero di Leonida.

    Stette qualche minuto a riflettere, poi gettò con noncuranza l’agenda sotto al letto e poco dopo si addormentò.

    Il tramonto, in genere, rimanda sensazioni di serenità ma la calma del mare piatto e quella luce fioca rendevano spettrale l’atmosfera e infondevano ancora più paura dopo giorni di sopravvivenza estrema, insieme ma da soli, nel buio del mare che non perdona, che non ha perdonato nemmeno stavolta e che, puntuale, ha strappato figli dalle braccia delle madri, dei fratelli, degli amici, attirandoli avidamente a sé come un settantenne dell’alta borghesia afferra l’ultimo boccone a un banchetto prima che il cameriere possa portar via il vassoio.

    La piccola e ormai non più sovraffollata barca partita dalla Libia era appena arrivata nelle coste siciliane, una vecchia imbarcazione azzurra, malmessa, inadatta a qualsiasi tipo di viaggio, sprovvista di spazio cabinato toccò il bagnasciuga della costa sicula, tra Noto e Portopalo, approdando su una spiaggia tipicamente invernale, sporca, cosparsa di legni trascinati dagli alberi. I profughi contarono i vivi, presero quello che poterono dei propri effetti personali, un uomo si distaccò dagli altri fuggendo chissà dove, chissà perché. Faisal, il leader della piccola comunità somala, li radunò a sé e, chiedendo loro di fare silenzio, iniziò a parlare:

    «Ascoltate! Qui non siamo i benvenuti, sappiamo bene cosa ci aspetta! Se non rimaniamo uniti e non iniziate a stare zitti finiremo con l’essere separati e sbattuti chissà dove,e credo che nessuno di voi voglia questo…anche io, come voi, sono sfinito e non ho più lacrime per gli amici che non e l’hanno fatta,ma adesso è il momento di pensare a noi. Questo posto è pieno di casali abbandonati, di campi nomadi, di edifici in disuso, dovremo fare parecchi chilometri camminando ma, alla fine, troveremo una sistemazione senza attirare l’attenzione della polizia locale. Avete la mia parola! Mio cugino è stato arrestato dopo due giorni dal suo sbarco. Nessuno, tra i suoi familiari, sa per certo dove sia adesso, e nemmeno se è ancora vivo. Io non voglio fare la sua stessa fine e, di certo, nessuno di voi. Forse tu sì, Alicia?» Faisal volse lo sguardo verso una ragazza visibilmente debilitata, come tutti gli altri, del resto, che non era riuscita a smettere di piangere la morte di una cugina di qualche anno più grande, deceduta il giorno prima dello sbarco a causa di una febbre provocata da chissà quale infezione.

    Alicia, pian piano interruppe il pianto e scosse il capo in risposta alla domanda retorica di Faisal, si asciugò le lacrime e alzò gli occhi al cielo. Il gruppo tornò sulla barca a raccogliere ogni indumento, oggetto e materiale che potesse essere utile, poi la smantellò in pochissimo tempo e ne seppellì i pezzi nella sabbia.

    I ragazzi del Nido delle aquile si allenavano quasi ogni giorno in palestra, si addestravano a boxe e con i circuiti d’allenamento militare e, al contempo, impartivano lezioni ad allievi dilettanti, autofinanziando l’associazione.

    Quel giorno, all’Action Fitness Club, erano presenti Joseph, Alex e i fratelli Sergi. Si allenavano in coppia: Alessandro e Fabio praticavano estenuanti riprese di sparring, separate appositamente da un non sufficiente tempo di recupero, per mettere a dura prova le loro capacità fisiche, mentre Joseph si preoccupava di migliorare le qualità tecniche dello scoordinatissimo Alex e, durante uno dei minuti di recupero quest’ultimo, sperando di ottenere l’approvazione dei suoi amici, disse ad alta voce: «Quanto sarebbe bello se i colpitori fossero dei negri!»

    «Ma falla finita e allenati che stai diventando uno scaldabagno» lo zittì subito il compagno d’allenamento.

    A quel punto Alessandro, che nonostante fosse impegnato a colpire il fratello aveva percepito la discussione, replicò subito: «Beh, che ha detto di male? Alex, sta’ tranquillo che un giorno di questi ti portiamo con noi, i colpitori come li vorresti tu esistono veramente e sono gratis ed è molto, molto più divertente. Ce n’è di tutti i tipi, neri, gialli...» concluse ridendo di gusto.

    «Lasciate stare Alex, non deve andare da nessuna parte» asserì stizzito Joseph.

    «Che fai, comandi, ora?» esordì Leonida sorprendendoli alle spalle. «Fammi fare le figure, va’.»

    Joseph fece segno ad Alex che in un lampo andò a sedersi permettendo al capo di prendere il suo posto.

    Camminare nel buio è divertente e avventuroso per i ragazzini della comunità somala, diversamente la pensavano le ragazze e i membri più anziani che, incerti e impauriti, spingevano lenti i passi dietro alla guida sicura di Faisal il quale, chilometro dopo chilometro, li rassicurava sulla vicinanza del loro traguardo.

    Alicia teneva stretto a sé il più piccolo del gruppo, un minuto bambino di appena undici anni, tanto giovane quanto acuto.

    «Credo che stiamo sbagliando, dovremmo andare dalla polizia e dire le cose come stanno. Non ci lascerebbero in mezzo alla strada, mia mamma mi ha detto che questo è un paese civile» le sussurrò il bimbo.

    «Sì... è così. Chissà, magari lo faremo presto» rispose insicura Alicia non abbastanza a bassa voce da non farsi sentire da Faisal che le si avvicinò da dietro e chiamandola a sé sussurrò:

    «Alicia, sorella mia, ho promesso a queste persone di tenerle al sicuro dai pericoli che conosciamo benissimo, vi sto conducendo in un luogo che nessuno verrà mai a rivendicare…poco fa pensavo di essere stato chiaro con tutti, ma non sono il vostro re e, se non sei d’accordo con le mie indicazioni, puoi lasciare subito questo gruppo, ma da sola, e nel momento in cui andrai via non sarai più la

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