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Altro sballo
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E-book376 pagine5 ore

Altro sballo

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Info su questo ebook

Tutto potrà sembrare irreale a Fidarè, dai vecchi edifici ammuffiti dall’umidità, a Villa Gardenia, uno dei mausolei storici della città, abbandonato a se stesso e ai topi. Dal vociare che emerge dalle bancarelle che occupano il mercato, alla noia di quei ragazzi che vivono alla giornata e che hanno deciso che non c’è niente di sbagliato a trasgredire e sballarsi con la droga. Valerie Lefevre, detta anche la Monaca, è l’unica che non ha accettato di abbandonare se stessa, la sua fede e il suo futuro. Una storia intrigante, dove l’attualità del disagio giovanile si mescola sapientemente con il paranormale, la spiritualità. Una narrazione con un ritmo incalzante e coinvolgente, ricca di attesa e colpi di scena.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2015
ISBN9788898738939
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    Anteprima del libro

    Altro sballo - Gesuino Mura

    GESUINO MURA

    ALTRO SBALLO

    AmicoLibro

    Gesuino Mura

    Altro sballo

    Proprietà letteraria riservata

    l’opera è frutto dell’ingegno dell’autore

    © 2015 AmicoLibro

    via Oberdan 9

    75024 Montescaglioso (MT)

    www.amicolibro.eu

    info@amicolibro.eu

    Prima Edizione - novembre 2015

    Volare con i sogni per sentirsi liberi,

    esplorando un mondo che hai sempre

    evitato di affrontare,

    e aver paura di scoprire,

    che sei ciò che tu non conosci di essere

    PREFAZIONE

    Tutto potrà sembrare irreale a Fidarè, dai vecchi edifici ammuffiti dall’umidità, a Villa Gardenia, uno dei mausolei storici della città, abbandonato a se stesso e ai topi. Dal vociare che emerge dalle bancarelle che occupano il mercato, alla noia di quei ragazzi che vivono alla giornata e che hanno deciso che non c’è niente di sbagliato a trasgredire e sballarsi con la droga.

    Valerie Lefevre, detta anche la Monaca, è l’unica che non ha accettato di abbandonare se stessa, la sua fede e il suo futuro.

    Una storia intrigante, dove l’attualità del disagio giovanile si mescola sapientemente con il paranormale, la spiritualità.

    Quel disagio che è parte di una crisi più ampia che copre l’intera società: la precarietà dei valori, la perdita di simboli sociali condivisi, l’incertezza e la paura del futuro.

    Una narrazione con un ritmo incalzante e coinvolgente, ricca di attesa e colpi di scena.

    Carmen Salis

    PROLOGO

    Gli antichi rumori delle ruote ferrate avevano percorso per secoli la via del Teatro Vecchio ed erano rimasti ancorati alle pareti delle vecchie case.

    Nulla era cambiato, con il passare del tempo avevano conservato il loro battito diventando la vera anima di quel quartiere.

    Il vecchio quartiere della città di Fidarè.

    Gli stessi rumori diventavano incubi durante la notte: continuavano a vivere e a manifestarsi come dei fantasmi che trascinavano le catene della loro prigionia, cercando il varco per tornare nella vita terrena.

    Qualcuno raccontava delle pene e delle sofferenze patite da una bambina, lasciata dondolare su un’altalena sostenuta da catene lucide, dopo essere stata violentata e uccisa in una lontana giornata d’inverno.

    E quel fantoccio di carne aveva continuato a dondolare senza sosta, in attesa che qualcuno le desse pace e liberasse il suo spirito. C’era solo un modo per raggiungere l’intento: trovare il suo assassino, contribuendo a chiudere il varco dove il maligno era riuscito a penetrare. Tutte le notti lei tornava in mezzo alla gente e con lei gli incubi dei fantasmi che popolavano Fidarè.

    Il vecchio edificio ammuffito dall’umidità secolare era adibito a mercato generale. I pesanti cancelli di ferro battuto venivano chiusi alle quattordici pomeridiane tutti i giorni, consentendo ai padroncini delle bancarelle e alle agenzie di pulizia di rimettere tutto in ordine per il giorno successivo, dove si sarebbe tenuta un’altra giornata intensa, condita da un misto di povertà e speranza, di odori speziati e mosche svolazzanti.

    Le merci venivano rigorosamente allineate in bella vista nelle stesure di legno maschiato a malapena sorrette da cavalletti precari.

    Mani febbrili e menti offuscate dalla fitta nebbia e dallo smog percorrevano le stradine ancora semideserte, facce ancora inebetite dal sonno da sembrare murales scolpiti nella patina biancastra di quell’aria densa.

    La città di Fidarè si poteva definire una realtà in bianco e nero. Un vecchio film che raccoglieva la sua storia nel polveroso cassetto dei ricordi e lo continuava a proiettare instancabilmente di generazione in generazione.

    Tutto era irreale a Fidarè.

    Il ritmo, scandito da antiche abitudini, era come un orologio biologico che racchiudeva i più intimi palpiti delle generazioni succedutesi in ordinaria consuetudine.

    Tutte le mattine si ritrovavano al bar della piazza per farsi il grappino o una sambuca con la mosca. Tutte le mattine, le stesse storie.

    Nella piccola comunità erano considerati dei disadattati che a stento riuscivano a procurarsi da mangiare. Altri perditempo leggevano distrattamente il giornale lasciato dal barista a disposizione dei clienti sopra il frigo a pozzetto dei gelati.

    Ammiccanti pubblicità di mari lontani appese dietro la faccia rubiconda di Eugenio non bastavano a scalfire la monotonia dei suoi avventori, stanchi di sognare e di lavorare.

    I rumori iniziavano di lì a poco, la sveglia anticipava l’apertura delle saracinesche del macellaio e della merceria e infine, come tutte le mattine, il turbamento delle grida degli ambulanti che rompevano il silenzio con la cantilena delle loro proposte; le allegre canzoni e l’euforia della gente che si riversava sulla pubblica piazza per gli acquisti rimandati durante la settimana.

    All’angolo della piazzetta, il fiorista metteva fuori i suoi panchetti a gradino, dove venivano allineati i vasi dei fiori e di piantine gocciolanti.

    Le bancarelle del mercatino vicino erano già invase da nugoli di persone che passavano distrattamente in mezzo alle merci messe in bella mostra.

    Sembravano una nuvola di uccelli che migrava durante una giornata spazzata dal forte vento di maestrale. Frotte scomposte di persone che si muovevano in un magico rituale che si ripeteva tutti i santi giorni dell’anno, da un punto all’altro della piazza scambiando qualche chiacchiera qua e là.

    Tutta brava gente, forse solo apparentemente brava.

    Erano persone dedite al lavoro dal giorno della nascita in poi, nessuna vacanza e nessun lusso da esibire agli occhi degli altri. Tutta gente che da sempre faticava a trovare gli equilibri di fine mese.

    Non aveva ancora capito il senso dell’esistere, ma una cosa era ben chiara nella testa di Daniel.

    Non aveva intenzione di finire i suoi giorni in quel posto maledetto, e non aveva la benché minima intenzione di morirci come stava succedendo a loro.

    Mi sento più fortunato di chi mi aveva preceduto nell’ordine del tempo, pensò Daniel, ma ciò che lo spingeva a cercare di meglio erano senza dubbio la sua scaltrezza e la sua furbizia, spronate da un pizzico di sprovveduta arroganza.

    Fu con questi pensieri che lo sorprese a letto la mattina del ventisei aprile: ai pensieri che turbinavano nella sua mente si era aggiunta una pioggia battente che non aveva smesso di graffiare le tegole e le persiane della loro casa.

    In un attimo la piazza si svuotò, e tra il fuggi fuggi delle persone in cerca di un riparo, l’acqua precipitava dai teloni grigi delle bancarelle trascinando la polvere dei giorni passati, come un muto linguaggio di ammonimento, portando con sé illusioni e sogni.

    Tutto finisce, e gli abitanti di Fidarè non sembravano rendersi conto che la vita scorreva come l’acqua del tempo.

    Tutto finisce in fretta.

    La casa dove l’anima di Daniel aveva trovato alloggio alla sua nascita era una costruzione di tre piani ereditata dai nonni paterni.

    Edificata sessanta anni prima, sulle mura era scorso il tempo e sulle pareti rovinate dall’usura si era diviso in due il mondo reale e il suo parallelo.

    Maledetta pioggia, pensò Valérie Lefevre.

    Viveva appena fuori città, il tempo era veramente schifoso, l’umidità della notte aveva intessuto le lenzuola intorno alla sua pelle facendole diventare quasi una tunica. Si rotolò più volte sul letto ostinandosi a coprire il corpo seminudo con le lenzuola e con le coperte, dopo una notte di sballo in disco si sentiva a pezzi più che mai.

    Sempre così da anni. Stessa compagnia, stessi bagni di alcool e tante cazzate a invadere lo spazio come aria fritta. Per la verità non era solo lei ad abusare, ma l’intera compagnia.

    La sera si partiva con il preciso obiettivo di lasciarsi andare, e dimenticare le troppe masturbazioni che incallivano la fantasia e le mani dei maschi.

    Due macchine a divorare l’asfalto fino al grande parcheggio della discoteca, dove come tutte le notti, all’apertura dei cancelli c’era sempre la fila ad aspettare.

    Il grande ingresso, con le luci abbaglianti che si riflettevano sugli enormi specchi, dava un senso di felice follia, come un parco giochi per adulti dove tutto era concesso. I due buttafuori erano sistemati uno alla porta d’ingresso e l’altro davanti alla tenda che separava la zona delle piste, dove si scalmanavamo come ossessi in preda a una maledizione invisibile.

    Malati, erano malati di protagonismo, ancor prima di nascere e senza rendersi conto che la vita sfuggiva loro dalle mani.

    La compagnia che frequentava viveva alla giornata. Tutti erano convinti che tutto quello che passava nel cervello era giusto, e che non c’era niente di sbagliato se ci si faceva di acido o di fumo.

    Era normale che la trasgressione diventasse l’unico modo di allontanarsi dal bigottismo che genitori o educatori scolastici imponevano loro.

    Oltre a Daniel che era considerato il capo della compagnia, c’era Brax.

    Nei segni particolari non era annotato alcun riferimento alla sua scarsa perspicacia e all’incredibile forza delle sue braccia e neanche alle sue perversioni. La sua testa rasata lo predisponeva a essere associato ai naziskin, ma non era per niente vero. Il suo carattere comunque non era dei più malvagi.

    E la cosa, detta a loro insindacabile giudizio, lo accomunava un livello medio di cattiveria, era talmente preso dalla voglia di scopare, che difficilmente trovava qualcuna disposta a ritrovarselo a letto.

    Ognuno di loro era caratterizzato da diverse convinzioni personali e dal proprio modo di vedere l’esistenza.

    Di solito Cresta non si perdeva neanche una serata di bagordi e di compagnia, era una ragazza dal carattere mite ma con un forte spirito di sopravvivenza, da riuscire a guadagnare in qualsiasi transazione commerciale dentro al gruppo.

    Io devo averci un riscontro, altrimenti non si fa nulla.

    E fu così che dopo essersi fatta pagare per aver fatto sesso orale con uno della compagnia, ricevette l’encomio del gruppo e relativo appellativo di Cresta.

    Riguardo all’altro maschio del gruppo non c’era molto da dire se non definirlo un vero e proprio cagasotto e nessuno della compagnia si sdegnò quando Olga lo soprannominò Fobia.

    Non a caso chiamato così da quando aveva rinunciato a una gita scolastica a Parigi pur di non salire su un aereo.

    Confermò la sua attitudine, rinunciando in età adulta a un rapporto sessuale senza preservativo per timore di prendere l’AIDS.

    Io se non ha il preservativo non lo faccio, né con lei né con nessuno.

    Poi c’era Olga detta Perfida.

    Qualcuno insinuava che fosse una figlia illegittima, ma nessuno di loro si era mai preoccupato di avere notizie più precise. La compagnia era contenta della sua presenza e della sua partecipazione emotiva e lei era ben felice di dare sollievo a tutti con la sua bocca.

    Era stata soprannominata la Perfida perché la sua proverbiale cattiveria era ben nota a tutti. La sua intima inclinazione la portò, con la crescita, ad accettare le regole del gruppo con una certa indifferenza.

    Luca, chiamato Lucas da tutti per il suo aspetto che lo faceva somigliare a un indio.

    La sua vita era scandita dalla ferrea disciplina scolastica che i suoi genitori applicavano anche dentro le mura domestiche. Era poco incline a lasciarsi andare di fronte a tutti, schivo e riservato, dovettero aspettare diversi anni prima di sapere la sua verità. Ma non fu lui a raccontarla. Fu la cronaca scolastica a metterla in piazza perché dopo essersi negato a una coetanea fu scoperto in un bagno della scuola mentre si baciava in bocca con un ragazzo della terza liceo.

    In mezzo al gruppo e come ultimo arrivo aveva preso posto lei, Valérie Lefevre, nata in uno sperduto paesino d’oltralpe. I suoi genitori, i coniugi Lefevre, Sabine e Mathieu erano degli atipici genitori, anche loro di origine francese.

    La Monaca, era l’appellativo che le diedero i nuovi amici italiani.

    CAPITOLO PRIMO

    Il tono della sua voce, con quella tipica erre moscia, riportava alla memoria le immagini di un mondo trasmesso dai film ad ambientazione francese.

    Tutti in città amavano ricordare e raccontare il primo giorno della famiglia Lefevre a Fidarè.

    Arrivarono in tarda mattinata dall’unico ingresso che portava al centro del paese, con una macchina lucente dalla capote sollevata. A detta di tutti avevano l’aria di chi stava cercando un posto al sole in cui fermarsi per sempre, e la loro ammirazione nel guardare la piazza centrale sembrava voler dare conferma che il luogo corrispondeva all’idea che si erano fatti del paese dei loro sogni.

    Fermarono l’auto nella piazza centrale. Gli occhiali scuri e l’abito chiaro del signor Mathieu, il padre, esaltavano le linee del viso e ne pronunciavano ulteriormente il naso aquilino. Ma la vera nota positiva, agli occhi di chi in quel momento affollava la piazza, era la donna che era scesa dalla macchina, indossando con molta eleganza un leggerissimo abito color crema.

    La giacca di lino copriva con dolcezza la camicia rosa tenuta insieme davanti da coloratissimi bottoni rossi. Il tono della pelle del viso si sfumava sulle calze color carne che vestivano le sue gambe e che terminavano in due bellissime scarpe di vernice rossa. Mentre gli orecchini, scintillavano colpiti dai raggi del mattino conferendo maggior splendore ai suoi capelli biondi.

    Nel viso dei presenti si leggeva di tutto. E nel cervello di tutti stava scritta la muta volontà di quello che ognuno di loro avrebbe fatto con una donna come quella.

    Ma la risposta era molto banale: niente di più di quello che già faceva con il signor Mathieu, suo marito.

    Sesso e amore a tutte le ore, in ogni luogo della casa e fuori, durante le loro passeggiate nelle campagne della Toscana e dentro la vasca profumata di aromi e di sali del Mar Morto

    Alla vista di tanto amore e ben di Dio e dell’incedere delle gambe con lo spacco vertiginoso. Davanti a quel paradiso, mostrato dalla donna con serena provocazione, i presenti ammutolivano e quella torrida piazza si annebbiava.

    Quella figura elegantemente vestita rimase impressa negli occhi dei più e in tanti la conservarono nei ricordi come una delle più belle donne che erano giunte in quel paese desolato di provincia. Il suo accavallare le gambe senza pudore alcuno, il suo sguardo compiacente verso le attenzioni di chi non le staccava gli occhi di dosso, avevano fatto passare in secondo piano la presenza della bambina con i lunghi capelli castani tenuti insieme in una piccola coda colorata da un fiocco rosso.

    Lei: Valérie Lefevre.

    Si stabilirono in città e dopo un paio di mesi comprarono una tenuta con un vigneto grandissimo e vi presero dimora, coltivando i terreni e dedicandosi a una vita molto riservata.

    Nessuno seppe mai, perché una serena famiglia francese si fosse trasferita dalla sua patria natia in un tranquillo paese della Toscana.

    Qualcuno mormorava, ed erano i soliti bene informati, che la partenza era dovuta a problemi con la giustizia. Altri sostenevano di essere a conoscenza di problemi di salute che aveva avuto la bambina.

    Per chi viveva ai confini della noia e della rottura di palle che la vita presentava, il loro gruppo era ciò che di meglio poteva offrire il mercato della provincia toscana.

    L’obiettivo principale della compagnia era frequentare la scuola con i migliori risultati e scappare la notte, a squarciare le gomme delle utilitarie: ma questo ben presto non bastò, e qualcuno iniziò ad andare giù pesante in tutte le manifestazioni. Ci furono le prime vetrate frantumate dei negozi e i primi furti alle casse, e questo succedeva a danno dei supermercati dei paesi circostanti o in città, nei luoghi dove non li conosceva nessuno.

    L’equilibrio dei compagni di Valérie stava nel vivere l’ambivalenza della loro incapacità di adattamento alle regole imposte dai loro educatori.

    Il loro modello di vita aveva iniziato a subire i primi cambiamenti a dodici anni, quando alcuni dopo aver letto che a sniffare trementina ci si sballava, avevano lasciato vuoti gli scaffali della ferramenta e dei colorifici, e se a questa si mischiava qualche canna comprata con pochi spiccioli messi insieme dalle bravate e recuperata da Vito, conosciuto come il droghino del paese, la loro esistenza si colorava di sfumature sempre più incerte.

    E fu così che iniziarono a scannarsi, assaporando i colori dell’arcobaleno, passandosi il mozzicone di bocca in bocca, incuranti di tutto e di tutti.

    E nello stesso periodo che iniziarono anche le loro visioni magiche.

    Cercavano la distrazione a tutti i costi, la differenza da ciò che era giudicato il perbenismo finto della società. Allontanandosi da quella che era la normale concezione della vita imposta da persone che li castravano con tutte le loro raccomandazioni.

    Non fare questo e quello, non andare di là e non frequentare quell’altro, stai attento e mi raccomando se hai qualche problema parlane con noi.

    Palleeeeeeeeeeee.

    L’urlo uscì dalla gola di Daniel e si mischiò al tenue paesaggio circostante.

    Grandi palle propinate a valanga sulle nostre giovani vite e sulle nostre idee, imbottendoci di bigottismo provinciale, continuò a inveire Daniel.

    "Mi raccomando, non fare stronzate", ammoniva sempre mio padre, quasi a voler confermare che era capace di fare solo quelle.

    Che cazzo ne possono sapere loro dei nostri pensieri e delle mie frustrazioni? Eh Monaca, che cazzo ne sanno? domandò mentre traballava su se stesso.

    Dai Daniel non essere eccessivo, in fin dei conti sono i tuoi genitori!

    Non capisci che non ho scelto io di vivere in questa merda di ambiente? Sono costretto a vivere qui, non per mia scelta, in questa merda, dove loro avevano deciso e scelto di farmi nascere e diventare grande. Potevano scegliere una grande città, o addirittura emigrare in America o in una metropoli australiana. La provincia mi sta stretta, non dà scampo al cervello, e questo mi costringe a cercare rifugio nella droga e nella felicità impossibile.

    Valérie pensò che sotto certi punti di vista non avesse tutti i torti.

    La fantasia non era una cosa che riuscivano a tenere a freno. Come poteva pensare un adulto di riuscire a mettere il guinzaglio ai pensieri che attraversano la mente di un giovane ragazzo che cresce, che sente il suo corpo cambiare, con gli ormoni a mille. Non bastava masturbare la carne, non bastava manipolare il proprio corpo per mettere a tacere l’irrefrenabile impulso di lasciarsi andare alla vita, e prenderla per mano, torcendo il collo alle idee stantie di chi li aveva preceduti.

    Sì papà. Certo mamma, continuò Daniel, ironizzando sul suo quotidiano comportamento.

    Va bene zio. Certo che torno presto.

    Mà, stai tranquilla, se faccio tardi in pizzeria vi telefono.

    Poi c’erano i clienti del negozio di papà.

    Buongiorno signore, a presto signora.

    Prego? Come desidera signora.

    A sua disposizione signore!

    Lo sproloquio di termini rispettosi si alternava con costante tiritera fino a far mancare il respiro. Poi arrivava la sera dedicata a combattere e vincere l’insicurezza del loro infantile pianeta.

    Ma quale pizzeria! Cosa credevano che mangiare la pizza in quel fumoso locale di merda di Enzo fosse l’unica cosa che potevano fare? Certo questa era la loro convinzione.

    Vecchi tempi da pizza e patatine e magari un caffè. Non erano sulla stessa lunghezza d’onda del proprio cervello. Loro arrivavano dagli anni sessanta, e proprio loro che propinavano consigli su come dovevano vivere avevano iniziato a scoprire le prime droghe.

    Brutti bastardi.

    Perché loro si erano goduti le loro trasgressioni? Perché là non concedevano niente?

    Ma per chi li prendevano?

    Per loro tutti quanti erano degli emeriti deficienti che non avevano cervello e che non dovevano andare e fare ciò che si sentivano, quando loro avevano fatto sempre i propri comodacci.

    Droga libera.

    Sesso libero.

    Donna è bello.

    E tutte le altre espressioni che assumevano i connotati di una libertà negata.

    Questi erano i cartelli dei nostri genitori, sproloquiava Daniel, i loro cartelli campeggiavano dalle loro foto giovanili e durante le disordinate manifestazioni. I fumogeni della polizia attenuavano i contorni delle loro immagini che si buttavano a capofitto contro le barricate in divisa o che scappavano per le strade per non venire schedati dalle forze della polizia politica. Loro erano vivi dentro quando le canzoni dei Beatles e di tutti i proseliti della beat generation inneggiavano alla libertà.

    Perché a loro questi diritti di essere e diventare se stessi era stato concesso dai loro padri?

    Perché a loro venivano propinati concetti comportamentali completamente diversi che facevano a botte con la realtà? Loro lottavano per l’indipendenza e per avere la possibilità di vivere il mondo circostante dal loro punto di vista.

    La vita e l’affermazione personale avevano fatto dimenticare che un figlio quando cresce è come un prodotto in scadenza perché passato il momento che determina la sua crescita non può più tornare indietro; e non rimane altro da vivere che il rimpianto di non essere stato se stesso e di non aver vissuto la sua personale creazione come un evento unico e irripetibile.

    Erano all’orgasmo esistenziale e non sapevano come fare per sentire la loro presenza. Oltre allo studio, si ritrovavano in birreria, a scolare al bacio qualsiasi porcheria che capitava a tiro o a scambiarsi le canne sottobanco o in bagno dove si ritrovavano a fumare in piccoli gruppi chiusi dalla stessa porta.

    Off Limits! era la sigla di presentazione.

    Era come un cartello stradale che poneva dei limiti, per gli stronzi e per tutti quelli che non condividevano quella visione della vita, per tutti i benpensanti che morivano e soffocavano dalla voglia di diventare come loro. Loro che non avevano le palle per lasciarsi andare e diventare parte di quel gruppo.

    Dopo aver bevuto ed essersi presi di mira con insulti gratuiti, uscivano all’aria fresca. Spuntavano le marce dei motorini fino a che il rumore delle marmitte non si confondeva con quello dei camion e delle macchine che passavano sotto il ponte dell’autostrada.

    Il fascino della notte era ancora più intenso, e si fermavano ad ammirare le interminabili file di macchine che sfrecciavano con i fari accesi, seguendole con lo sguardo fino a che scomparivano nel buio intenso della notte.

    Chi erano quelle persone che non si fermavano per riposare? Cosa li spingeva a viaggiare a centocinquanta chilometri orari in piena notte?

    Perché avevano la necessità di attraversare il buio come antichi guerrieri e davano l’impressione di voler combattere quella massa informe che sembrava inghiottirli in una via senza ritorno?

    I viaggiatori della notte erano in un certo qual modo dei loro simili e, come loro, sembravano vivere un’eterna fuga da qualcosa che li faceva stare male nella loro vita quotidiana. Anche loro cercavano una verità diversa da quella che vivevano, perché se fossero stati felici di stare accanto ai loro affetti, non avrebbero attraversato uno spazio sconosciuto, e se avessero avuto di che vivere non avrebbero dovuto viaggiare la notte.

    Cercatori di sogni, guerrieri moderni alla ricerca della felicità.

    Fu in una di queste notti senza senso e senza amore, che nacque l’idea di sentire il sapore del mondo invisibile con preghiere sataniche ripetute in coro più volte.

    Sono alla nostra portata, disse con convinzione Daniel.

    E vedendo l’aria perplessa di qualcuno insistette a dare maggior peso alla sua affermazione.

    Vi dico che è possibile e questo ci può aiutare ad avere un approccio più immediato verso quel mondo che tanto lontano non è.

    Per prima cosa provarono con le semplici orazioni. Ma questo contribuì a far mettere le mani avanti a Valérie che prese le distanze da quelle manifestazioni che non erano del tutto sconosciute alla sua persona, ma non ritenne di dover dare spiegazioni del suo atteggiamento.

    Dagli altri ci fu un unanime consenso supportato dalla frequenza con la quale si tennero le prime sedute spiritiche e tutte le altre che seguirono fino a cogliere le prime soddisfazioni.

    Le prime risposte dall’ignoto non tardarono ad arrivare, e con queste la passione si fece sempre più viva.

    Accedi alle mie suppliche o potente Signore delle Tenebre. Imploriamo con sincera fede il tuo aiuto, offrendo in cambio quanto io valgo e il mio sangue per dissetarti.

    Dopo le preghiere riprendevano a farsi le canne con la stessa disinvolta curiosità. E con la stessa morbosità si dibattevano nei valori esistenziali che rimanevano puntualmente senza risposta, agonizzanti anch’essi in un labirinto senza risposte.

    Chissà come sarà il nostro avvenire?

    La domanda ruppe l’incantesimo che solo la notte può creare.

    Ehi Monaca, che ti succede? biascicò Brax. Già stanca di vivere o vuoi che andiamo a casa mia per predirti il futuro?

    Cos’è, ti sei messo a leggere le carte o tu sei capace di leggere la lampada della fattucchiera? rispose.

    Se è per predire il tuo futuro non ho bisogno di arrivare fino a casa, cara amica mia, perché io so già cosa diventerai!

    Sentiamo ‘sta cazzata!

    Diventerai una troia! ridacchiò Brax E se vuoi, bella come sei, possiamo metterci in affari.

    Stronzo bastardo, perché non ci porti tua sorella! Ne ho piene le palle di queste vostre battute del cazzo!

    Guarda che non c’è niente di male perché è un lavoro come un altro.

    Smettila di fare lo stronzo.

    Dai ragazzi! Piantatela di fare aria dalla bocca come se fosse il culo. E tu Brax smettila di trattare male la nostra Monaca, tanto non te la dà!

    Daniel! Non ti ci mettere, perché spacco il culo anche a te. Eh, la cosa non ti riguarda perché non la do a lui, ma neanche a te. Io prima devo studiare, disse Valérie mentre assumeva un tono serioso, e iscrivermi all’università. Poi credo che mi troverò un lavoro lontano da qui e, da questo posto che anche io potrei definire di merda. Me ne voglio andare via, non voglio più tornare qui neanche da morta. Vorrei solo conoscere il mondo in modo diverso da quello che ci propinano a scuola. Mi farò il culo per studiare, ma voglio diventare dottoressa in Psicologia alternativa e girare ogni continente, fare ogni Master che mi permetta di andare oltre i programmi che insegnano abitualmente nelle università. Mi piacerebbe frequentare i corsi che tengono gli sciamani indiani e vivere la magia dei popoli del Sud America.

    Ma lo sai che per avere le visioni si drogano?

    Credo che al di là della droga, abbiano dei poteri che permettono loro di vedere oltre, al di là della nuvola di fumo che si forma nel loro cervello.

    Fanno bene, intervenne Lucas.

    La loro sensibilità e la loro conoscenza del popolo delle anime li mette nelle condizioni di leggere nell’aria gli eventi che si manifesteranno, perché nelle pagine del passato riescono a individuare il futuro che verrà.

    Cazzo! Monaca, non sembra, ma ne sai tantissimo!

    Voi non sapete che leggono la storia del passato, e sono in grado di mettersi in contatto con le anime dei morti.

    Per questo motivo noi facciamo le sedute spiritiche. Vogliamo diventare come loro! esordì Daniel.

    Ehi Monaca, ma non dirmi che ti sei fatta di brutto!

    Siete degli ignoranti, e siete afflitti da un male incurabile che si chiama deficienza acquisita.

    Ehi, a sentirti sembra che la tua decisione sia una cosa veramente seria.

    Certo che lo è, rispose con convinzione Valérie.

    Eh dai, che da qui, tu non vai da nessuna parte, e poi senza di noi ti sentiresti persa.

    Ci telefoneremo tutti i giorni, vero Monaca?

    No! A me non frega un cazzo. Se parti finisce tutto, rispose Olga con vigore. E non mi frega niente di sentire chi molla questo buco, anche se tu lo definisci di merda, io qui ci sono nata e ci voglio vivere fino alla fine dei miei giorni. Questa è la mia terra e, quando lascerò che la vita scorra lontano dal mio corpo, voglio tornare a essere la polvere del luogo di dove sono nata, altrimenti la mia anima si perderebbe in posti sconosciuti e, non saprebbe ritrovare il luogo delle sue radici.

    Olga! Non parlare di radici, perché se dovesse nascere una pianta nel luogo dove ti seppelliscono veniamo a fumarcela tutta, tanto sarà di roba buona.

    Voi non mi prendete sul serio, ma per me è importante, il tono stizzito di Olga si fece più duro. "La mia tesi è che dobbiamo morire dove siamo nati, e di questo sono convinta, siamo nati in questo buco

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