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Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo
Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo
Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo
E-book519 pagine7 ore

Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo

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Info su questo ebook

1613, Roveredo, Grigioni. Tre giorni dopo aver impiccato un ladro in Valle Calanca, il boia viene misteriosamente ritrovato morto. Privo del suo Ministro di Giustizia, il Comungrande di Mesolcina cade preda di briganti, usurai, streghe e stregoni, che portano scompiglio nelle due valli. Le Autorità Giudiziarie assoldano così un nuovo carnefice, proveniente dalle terre confinanti con le Tre Leghe, per riportare l'ordine.
Il nuovo Ministro di Giustizia, personaggio misterioso e macabro ma denso di fascino, vivrà ai margini di una società che faticherà ad accoglierlo. Soltanto l'incontro a Roveredo con una meretrice – dal passato turbolento ma guaritrice esperta – farà sperimentare al boia sentimenti nuovi. Il suo spirito subirà una progressiva crisi di coscienza, che lo spingerà a rivedere l’utilità della propria funzione sociale e l’equità delle sentenze del Tribunale di valle.
Con Terra bruciata l'autore propone un romanzo dal profumo storico a cavallo tra realtà e finzione, dai ritmi spesso incalzanti, altre volte introspettivi e commoventi. La vicenda ruota attorno a quattro processi che si svolsero realmente tra il 1613 e il 1615 e i cui verbali – conservati negli Archivi di Circolo – sono stati trascritti fedelmente nell’italiano di oggi.
Il loro esame ha riportato alla luce nomi reali, personaggi storici, tradizioni popolari, presunti malefici, delitti efferati, torture atroci, assurde superstizioni e palesi ingiustizie del nostro passato, che hanno contrassegnato le valli alpine e tutta l'Europa.
Nel 2016, durante la sua stesura, l’opera “Terra bruciata” ha ricevuto il riconoscimento per la Creazione Artistica Professionale, conferito dalla Promozione della Cultura del Cantone dei Grigioni.

LinguaItaliano
Data di uscita4 dic 2017
ISBN9788897308805
Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo
Autore

Gerry Mottis

Nato nel 1975, originario della Valle Leventina, risiede tra Lostallo GR e Camorino. Ha studiato letteratura italiana e archeologia bizantina all’Università di Friburgo, ottenendo la Licenza in Lettere nel 2001.Insegnante di lingua italiana e storia presso le scuole medie di Roveredo GR e professionali superiori a Giubiasco.È scrittore dal 2000 e ha pubblicato sei libri, tra cui "Sentieri umani", 2000; "Un destino una nostalgia", 2003; "Il boia e l'arcobaleno", 2006; "Oltre il confine e altri racconti", 2010; "Altri mondi" 2011; e il primo romanzo storico "Fratelli neri. Storia dei primi internati africani nella Svizzera italiana", 2015.È regista per la compagnia teatrale "Siparios" di Lostallo dal 2005 e si occupa infine di consulenza linguistica per la trasmissione "La consulenza" su RSI RETE UNO con Antonio Bolzani.

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    Anteprima del libro

    Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo - Gerry Mottis

    In nomine Dei nostri Satanas Luciferi excelsi!

    Dall’inizio dei tempi ho reclutato adepti per tutte le terre emerse. Mi hanno lodato, adorato, onorato poiché in me hanno riconosciuto le forze delle Tenebre e, in cambio, hanno tratto il potere infernale, illimitato e supremo.

    Coloro che si sono prodigati a frenare il mio officio sulla terra mi hanno perseguitato in molti modi: hanno brandito spade e croci per annientarmi, mi hanno disdegnato e hanno tentato di relegarmi nelle profondità degli Inferi, negli abissi oceanici, dentro antri tenebrosi ove albergano i miei aiutanti disciplinati, i demoni.

    Mi hanno invocato in molti modi, tra i più stravaganti, in tutti i continenti; mi hanno assegnato nomi grotteschi e luminosi, come Lucifero, il portatore di luce, l’angelo più splendido del paradiso, lo spirito dell’aria, il ribelle caduto. I nomi infernali con cui invocarmi si sono susseguiti e aggiunti gli uni agli altri, per millenni, in ogni cultura del mondo: mi hanno chiamato Amon, Balaam, Coyote, Negral, Nija, Thamuz, Sedit, Rimmon, Pan, Tio, Metzli, Haborym, Euronymous, Gorgo, Chemosh, Adramelech, Melek Taus, Demogorgon, Dracula, Moloch, Loki, Hecate, Pluto, Sabazios, T’an-mo, Thoth, Naamah, Abaddon, Set, Ahpuch, Beelzebub, Cimeries, Sammael, Pwcca, Yen-lo-Wang, Midgard, Kali, Fenriz, Baphomet, e in tanti altri modi ancora.

    Io non sono venuto a portare il Male nel vostro mondo, come voi mi accusate di fare, ma per renderlo libero. Sono qui per svincolare l’uomo e la donna dalla schiavitù di pensiero, per donare la libertà di essere al di fuori della legge, vivere al di sopra del giudizio, regolarsi secondo la propria natura segreta, liberando il Piacere per la vita in tutti i suoi eccessi travolgenti.

    Io sono il Diavolo e reggo secondo nove principi: non sono astinenza ma appagamento, non sono ingannevole ipocrisia ma deturpata saggezza, non rappresento l’amore sprecato verso gli ingrati, sono la bontà per coloro che la meritano, non grido porgete l’altra guancia! ma rappresento la vendetta, sono la responsabilità per il responsabile, ritengo l’uomo un animale corrotto dal divino sviluppo spirituale e intellettuale; io sono e rappresento il Peccato come manifestazione suprema della gratificazione fisica, mentale ed emozionale; sono stato, sono e sarò il miglior amico che la chiesa abbia mai avuto, per tutti gli affari che le ho procurato nei secoli.

    Quelle che voi avete ingiustamente chiamato streghe sono soltanto lo strumento illusorio del vostro potere corrotto. Io dico: beati coloro che sfidano la morte, per loro i giorni sulla terra saranno più lunghi; maledetti gli insulsi che hanno trascorso una vita ricca al di là della tomba, essi periranno nell’abbondanza!

    Beati siano coloro che credono in ciò che è bene per loro, le loro menti non saranno mai spaventate, per cui accoglieranno le fiamme del rogo, la mannaia del boia, la forca dell’impiccato e tutti i tormenti coi ferri roventi, le tenaglie, le catene, le lame dei terrifici aguzzini con la forza e il potere dei temerari, e la loro vittoria sarà il fondamento di una nuova Giustizia!

    Ricordate, voi milioni di disorientati: la bugia che viene riconosciuta come tale è già sradicata per metà, ma la bugia che è accettata come verità perfino dalle persone intelligenti è più pericolosa da combattere che una pestilenza progressiva!

    Regie Satana! ¹

    Indice

    Indice

    Sono detti stregoni per la grandezza dei loro delitti, cioè perché fanno il male più di tutti gli altri malfattori; essi sconvolgono gli elementi, per scatenare cioè grandinate e tempeste con l’opera dei diavoli. Dice anche che turbano le menti degli uomini sino alla demenza, all’odio e all’amore disordinato. Perdono le anime senza far sorbire alcun veleno, ma con la sola violenza delle formule.

    IL MARTELLO DELLE STREGHE, Capitolo I, Questione II,

    Il diavolo collabora con lo stregone?

    Indice

    I

    Il processo ai topi di Dorenza

    Fu la piena del marzo 1612 a portare le schiere fameliche di topi a Dorenza. Prima erano dilagate nei campi, scarnificando tutto, poi si erano riversate spaventevoli per le vie della città.

    Aveva piovuto per settimane. Il fiume Tobler si era ingrossato rapidamente fino a straripare, nero come la pece, infangando viali e sottoscala, cantine polverose e già ammuffite, taverne impregnate di odore acidulo di vino e di sudore. Le fetide contrade, ovunque ingombre di carcasse di animali randagi ed escrementi furono infine spazzate dalla corrente paludosa, ma ciò non portò gran beneficio alla popolazione. La lordura ripulita lasciò ben presto spazio ai topi – magnifici nuotatori – che ripopolarono avidamente le viuzze, insinuandosi in ogni pertugio con diabolica frenesia. Passata la piena, restò dunque la desolazione e in città trionfarono i ratti.

    Questi si misero subito a graffiare ovunque in cerca di cibo e di scarti, a rosicchiare con le loro insaziabili zanne, divorando di tutto: frumento, castagne secche, pagnotte, carni essiccate, legumi, verdure, insaccati, pergamene, carogne, persino il mobilio imbottito con la lana o le gambe dei tavoli di legno verniciato. Così, dopo aver depredato i campi dei disgraziati contadini che si spezzavano la schiena per tutta la settimana, e svuotati credenze e seminterrati d’ogni vitale avere, i peggiori nemici dell’uomo mutarono i loro malefici piani e principiarono ad addentare i cittadini.

    Occultamente in agguato negli angusti spazi tenebrosi, pizzicavano le braccia e le gambe dei passanti che si recavano chi dal panettiere, dal salumiere, dal maniscalco, oppure – segretamente – chi si spingeva alle vie delle veneri a pagamento. Aggredivano anche nel sonno gli ignari ubriaconi cui era annebbiato l’intelletto; abbandonati alla loro ubriacatura, giacevano addossati ai muri di pietra grigiastra e umida delle loro case circondati da eserciti ben organizzati. Venivano attaccati da ogni lato, finché i beoni non si riscuotevano e gridavano come ossessi, in preda a terribili presagi di morte, cercando di scacciare i roditori. A volte si lasciavano addirittura divorare da quelle fiere non opponendo resistenza alcuna, preferendo gli inferi a quella vita miserevole.

    Bramosi del sangue, come esseri posseduti da creature del male, i topi si accalcavano in schiere composte, silenziose, gli occhietti rossi e lucidi, scintillanti, in attesa; di certo li muoveva una forza arcana, un’intelligenza maligna e ragionata; era sufficiente uno squittio repentino, un fremito di baffetti irti, un convenuto segnale del muso appuntito e l’orda s’avventava ingorda sullo sprovveduto, lacerato da migliaia di rapidi denti acuminati.

    Nell’impeto dei pasti sanguinei i topi proliferarono, ingrassarono, divennero sempre più avidi e fecondi. Come la fiera dantesca, finito il pasto avevano più fame di prima. Si organizzarono in colonie compatte, fortificate, pronte a nuovi agguati. Persino i gatti randagi di quartiere, scheletrici e guardinghi per natura, non riuscivano a contrastare quelle diaboliche creature. Divorati due ratti ne ricomparivano quattro, otto, dodici, che rosicchiavano arti e zampe, membra e viscere, indistintamente, in un assurdo contrappasso.

    Fu il primo contagio a mettere in allarme Dorenza. Un anziano gottoso, sopravvissuto a un premeditato attacco topesco notturno, s’incancrenì in pochi giorni; l’alito imputridito, caddero i pochi denti, la pelle s’illividì, la carne principiò a marcire. Febbre? Peste? Nessuno ne aveva certezza. Nemmeno il medico locale; un beone, dedito più al gioco dei dadi e alle meretrici che alla sua nobile arte. Ritrovato rinsecchito addossato a un granaio, scurito in volto, le ascelle tumefatte, si gridò all’infezione. Per le vie della città, dai campanili, dentro i magazzini ormai vuoti, da vicolo a vicolo, da balcone in terrazza, rimbalzò il temuto presagio; l’infezione si stava diffondendo! I ratti stavano contagiando Dorenza!

    Si decise allora di correre ai ripari, di barricarsi in casa, di sprangare botteghe e taverne; mentre il Podestà e i suoi alti funzionari meditarono su un intervento mirato. Si mandò a chiamare addomesticatori di animali dalle lontane province. Intabarrati e con i baveri rialzati, essi si presentarono dopo tre giorni con una carovana di carri e cavalli di razza che facevano sfoggio dei loro garresi poderosi, della dentatura perfetta. Smontati da cavallo mostrarono al Podestà il loro prezioso carico. Pochi accenni, alcuni gesti di intesa, quindi all’interno del carrozzone il pagamento in monete sonanti, con tanto di sigillo reale su carta stampata. Poco dopo le abili mani dei domatori pigliarono dai carri una moltitudine di gabbie miagolanti che deposero al centro della piazza, sotto gli occhi di una rada ma curiosa plebaglia. A un segnale del maestro domatore le gabbie furono aperte: ne sortirono centinaia di grossi gatti neri e bruni, grigi e rossastri, gli occhi iniettati di sangue, le zanne rilucenti, pronti a colpire, gnaulanti come esseri infernali. La poca gente si disperse con grida di terrore; i gatti – trascinati dal loro naturale istinto – s’infilarono in ogni pertugio fiutando ovunque le prelibate prede, dando vita a una straziante carneficina.

    Furono giorni in cui le strade si trasformarono in battaglia d’animali; un’accozzaglia di denti che affondavano e dilaniavano ratti. Il Podestà parve soddisfatto dell’opera dei magnifici felini. Ma la trionfante emozione durò poco; dopo l’abbondante scorpacciata i predatori si ritirarono dentro i fienili, oppure sui tetti, nelle cantine buie e silenziose a digerire il lauto pasto, sfiniti per lo sforzo profuso. Così, in poco tempo, le strade si ripopolarono di topi e la gente riprese a lamentarsi e a temere per un’incombente epidemia. I felini, costati alla municipalità un patrimonio, soddisfatti ripresero la via del ritorno verso le lontane province. C’è chi disse che se ne andarono schierati in file composte, per tre; altri invece giuravano che fossero stati divorati tutti dalle loro stesse prede, organizzatesi in nuovi schieramenti.

    In quello stallo, ove gli umani temevano per la propria vita, già ridotta al lumicino per la scarsità di alimenti e il nuovo proliferare dei topi in città (infruttuosi anche i tentativi di avvelenamento con l’arsenico), al colmo dell’esasperazione qualcuno avanzò la proposta che si dovesse agire formalmente, secondo le vie legali, al fine di risolvere in modo definitivo quella preoccupante faccenda.

    Fu allora che un certo Guglielmo Bohr, possidente terriero e primo commerciante di orzo nella città di Dorenza, cui erano stati completamente depredati alcuni granai, fomentato dall’ira dei suoi contadini venuti da fuori per reclamare con le forche e le zappe brandite a mo’ di spade e lance contro i ratti, si propose di denunciarli in giudizio. Fisico solido, tempra di uomo combattivo, illetterato come tanti ma ottimo calcolatore, si presentò una sera alla porta della canonica, accompagnato da suo fratello Domenico, un contadino robusto dal volto brunito e lo sguardo teso, nonché da un giovane garzone dall’aria allegra chiamato da tutti Il Bragone, poiché tutto l’anno portava delle braghe di tela tagliate al ginocchio, pure d’inverno, ma sempre pulitissime. Spiegò con poche parole la situazione al curato e la conseguente necessità che fosse un uomo di lettere a formalizzare le parole dell’angosciata popolazione.

    «Non sono di certo la persona più adeguata per questa mansione», commentò il parroco ottuagenario dopo averli pigramente invitati a sedere in un salotto ampio, ma scarno e freddo. «Sanno tutti che da quando ho scritto, dodici anni orsono, il certificato di buona condotta per l’asina del vescovo, poi assolta dall’ignobile accusa di aver sedotto alcuni alti prelati e quindi scampata alla pena capitale, a Dorenza tutti mi chiamano il consolatore degli animali. Da allora mi sono visto affidare d’ufficio la difesa di parecchie bestie che cercavano di sfuggire alle naturali leggi dell’obbedienza, del rispetto nei confronti del padrone, del lavoro. Ho dovuto scrivere arringhe di difesa memorabili, ma non pochi disgraziati animali hanno subìto orribili punizioni: la fustigazione, il rogo, l’impiccagione e i colpi di mannaia, gli stessi mezzi tremendi che toccano ai peggiori criminali ostili a Dio. Due settimane fa, prima di mandarla al rogo come una strega, hanno mutilato con la mannaia il grugno e la zampa anteriore a una scrofa in pubblica piazza – secondo la legge del taglione tuttora in vigore – rea di aver morsicato un uomo al braccio e al volto. Certi giudizi io non li comprendo proprio più, soprattutto dopo un secolo di rivoluzione culturale e religiosa. Voi sapete di che cosa sto parlando?»

    I tre uomini fissavano le labbra del parroco schiudersi e blaterare senza cogliere il senso delle sue oscure parole. Crollavano la testa in segno di approvazione, ottusamente.

    «Non parlo di Rinascimento, signori! Non parlo di Riforma cattolica!», continuò quasi febbrilmente l’anziano ecclesiastico. «Qui si parla di antropofagia! Quella povera bestia è stata mandata alla berlina mutilata e grondante sangue; è rimasta appesa per dodici ore prima di finire sul rogo!»

    Ora gli uomini parevano intimoriti; iniziava a sorgere il dubbio che il vecchio fosse stato invasato orribilmente.

    «Antropofagia!», ripeté l’anziano. «Significa divorare gli uomini!», fece con voce rauca. «Nessun animale creato da Dio divora gli uomini...» continuò il sacerdote, ormai esausto. «Dio ha particolare pietà per tutte le sue creature...»

    L’anziano socchiuse gli occhi. Pensarono che si fosse addormentato. I visitatori si guardarono l’un l’altro e fecero per allontanarsi, delusi, ma d’un tratto, rianimato, il parroco parlò di nuovo:

    «Nella vicina Svizzera», l’anziano parve recuperare una lontana memoria, «hanno processato un gallo, colpevole di aver deposto un uovo, sfidando così con arroganza le leggi della natura! Fu condannato a morte e mandato al rogo, poiché ritenuto il diavolo sotto mentite spoglie!»

    I tre uomini parvero ora perplessi e timorati.

    «A chi volete che importi se un diavoletto si mette a covare delle uova!», s’infervorì nuovamente il parroco, paonazzo per lo sforzo. Poi tacque; intercorse un lungo sospeso silenzio prima che riprendesse a parlare.

    «Ho visto impiccare cavalli e cani, bruciare vivi maiali e capre, tagliare la testa a un toro imbizzarrito colpevole di aver travolto e incornato il suo padrone. Pensavo di averle sentite tutte, ma ora voi mi parlate di denunciare degli stupidi roditori!»

    «Sullo Stelvio hanno processato in contumacia delle talpe che hanno danneggiato i raccolti e causato con ciò la morte di almeno cento individui!», azzardò il possidente terriero.

    Il parroco inarcò un sopracciglio.

    «È vero!», confermò l’agricoltore serissimo, notando la perplessità del prete.

    «Quelle bestiacce hanno portato alla miseria molte persone!», rincarò Guglielmo Bohr.

    «Sono state condannate dai Magistrati all’esilio,» si intromise il garzone, «poiché si è dimostrato che a causa dei loro cunicoli erba e ortaggi non potevano più germogliare.»

    L’ottuagenario ebbe un sussulto, un brivido che lo percorse lungo le braccia ormai tremanti.

    «Sentite», fece emettendo un respiro profondo, «se la situazione è tanto grave quanto dite, io sono bendisposto a trascrivere la vostra missiva di denuncia ai topi, ma non chiedetemi di apporvi il mio sigillo. Per quanto mi riguarda questa lettera potrebbe anche esser stata vergata dal diavolo in persona!»

    L’indomani il proprietario terriero, seguito da un nutrito gruppo di agricoltori induriti, depositò formalmente la denuncia presso l’autorità cittadina di Dorenza. Il Cancelliere Jacopo Tommasin lesse in tarda serata la missiva ai signori Giudici del Tribunale distrettuale che il giorno seguente informarono a loro volta il Fiscale, Pio Demottis, incaricato dell’accusa, e agli imputati assegnarono d’ufficio un avvocato difensore.

    Prima però di dare avvio ai dibattimenti, il Tribunale – accolta la richiesta dei contadini del Vicariato – fece affiggere alle mura che recingevano la città dei bandi ove si intimava ai topi di allontanarsi da Dorenza e dalle campagne circostanti, lasciando le terre agli agricoltori, a coloro cioè cui spettavano per diritto contrattuale e unici veri responsabili del sostentamento della popolazione. L’intralcio a tale mansione avrebbe comportato l’apertura di una procedura penale a carico dei roditori.

    Inutile dire che gli appelli passarono del tutto inosservati; anzi, i ratti si misero sfacciatamente a divorare con avidità la pregiata carta stampata affissa.

    Al colmo dell’esasperazione i Magistrati decisero allora di passare alle vie di fatto e di emettere una denuncia formale che fu letta per tre giorni di seguito da un banditore – all’alba, a mezzogiorno e al tramonto – in tutte le piazze pubbliche:

    L’illustrissimo Tribunale di Dorenza, nelle persone dei cinque eminentissimi Giudici, Gustavo Emmen, Lorenzo Martin, Emmanuele Kreise, Samuele Grosse e Piero Langenthal, emette il seguente atto di citazione in giudizio di una rappresentanza di topi provenuti dalle vicine terre del Tirolo, e intromessisi senza autorizzazione in città: ai sensi di legge dello Statuto civile e criminale cittadino s’impone agli imputati, che potranno costituirsi in gruppo autonomamente, di presentarsi alla magnifica Camera del Tribunale entro una settimana dalla lettura della citazione suddetta, per depositare la giustificazione della loro condotta operata deliberatamente ai danni della popolazione di Dorenza. Scaduto il termine di comparizione in Tribunale, si procederà con la requisitoria dello stimatissimo Fiscale che avanzerà le sue richieste di sanzione, le quali saranno coscienziosamente valutate dagli eminentissimi Giudici che, nel volgere di un massimo di dieci giorni, emetteranno la loro sentenza.

    Anche il secondo appello cadde nel vuoto. Il banditore si era sgolato durante i giorni prefissati e da subito aveva notato una scarsa disponibilità da parte dei topi che spadroneggiavano incontrastati per le vie e le piazze, rosicchiando e divorando febbrilmente, rovesciando e insozzando alimenti e suppellettili con le loro immonde feci, indifferenti alla citazione degli illustrissimi Giudici.

    Scaduto il termine per la comparizione in aula, si aprì dunque il processo un martedì mattina dell’aprile del 1612.

    Nella sala del magnifico Tribunale di Dorenza si radunarono i cinque illustrissimi Giudici, il Cancelliere, il Fiscale, altri funzionari garanti del corretto decorso della requisitoria e dello svolgimento del processo, nonché una nutrita schiera di cittadini agguerriti, capitanati da Guglielmo Bohr e da suo fratello Domenico.

    Il Giudice Gustavo Emmen diede la parola al Fiscale Pio Demottis che riassunse e precisò i capi d’accusa nei confronti dei topi.

    «Il 18 marzo dell’anno del Signore 1612 nella città di Dorenza si è verificato un evento del tutto straordinario, causato dall’incessante pioggia che ha imperversato per settimane: il fiume Tobler è esondato e ha invaso la città; ogni via, ogni angolo, cantina, taverna e negozio, ogni singola abitazione e devastando le scorte dei raccolti già ridotte per l’annata siccitosa. Sfruttando al meglio l’ingrossamento delle acque, migliaia di topi provenienti dalle limitrofe campagne (verosimilmente originari del Tirolo) hanno approfittato di questa sciagura per raggiungere la nostra magnifica città provocando altra devastazione. L’illustrissimo Podestà di Dorenza, il signor Valentin Vonsalis, spinto dall’esasperazione dei suoi concittadini ridotti in miseria a causa di questa devastante invasione, ha fatto intervenire degli addomesticatori di felini per eliminare i fastidiosi roditori dal suolo municipale, temendo anche per un imminente ampio contagio di peste. Nonostante gli sforzi profusi e i molti soldi investiti, la municipalità ha riconosciuto la tenacia di questi esseri e, bendisposta, ha accolto la denuncia da parte di un gruppo di abitanti di Dorenza nei confronti dei roditori, agendo nel pieno rispetto delle leggi, affiggendo dei bandi di avvertimento e, in seguito, citando in giudizio gli imputati. Ignorati sia i bandi sia le citazioni in Tribunale, gli illustrissimi Giudici hanno deciso di aprire in data odierna il processo ai topi, affidando all’umile servo e sottoscritto Fiscale Pio Demottis di formulare il decreto di accusa e di proporre una sanzione ai sensi degli Statuti civili e criminali in vigore. Dando seguito alla distinta richiesta del Tribunale e dei signori Giudici, enumero di seguito le colpe degli imputati:

    – i topi, sfruttando abilmente l’esondazione del fiume Tobler, e senza autorizzazione alcuna, hanno violato i confini politici del ministero di Dorenza, introducendosi nella città in modo del tutto illecito;

    – i topi si sono resi colpevoli di numerosissime e gravissime infrazioni all’interno della città: vandalismo, depredazione di oggetti e abitazioni, furto di ogni sorta di genere alimentare, aggressione ai danni indistintamente di bambini, giovani, donne, uomini, anziani, trasmissione del contagio di malattie infettive tra cui la temutissima peste, omicidio intenzionale di simili, di felini, di uomini e anziani indifesi;

    – i topi sono rimasti indifferenti nei confronti di tutti gli appelli e dei bandi affissi che li esortavano a lasciare la città e a ritornare alle loro tane nelle discoste province da cui derivavano; nonostante la bontà della proposta che non comportava punizione alcuna essi hanno, al contrario, bistrattato con arroganza tali annunci, divorandoli;

    – i topi non hanno risposto ad alcuna citazione, né si sono mai presentati presso il magnifico Tribunale di Dorenza per giustificare la loro condotta, come intimato per mezzo del banditore dagli illustrissimi Giudici per tre giorni consecutivi, tre volte al giorno.

    Elencate le colpe di cui si sono macchiati i topi, si formula la richiesta di punizione commisurata ai fatti menzionati: ai sensi dell’articolo 37 degli Statuti criminali della giurisdizione di Dorenza, per i reati di intrusione non autorizzata, vandalismo, saccheggio, contagio, aggressione, omicidio intenzionale, si propone la pena capitale per affogamento nel fiume Tobler di una rappresentanza di cento topi adulti in buona salute.»

    Espletata la richiesta formale di condanna dei topi da parte del Fiscale si passò alla fase dell’esame testimoniale. Il Giudice Emmen convocò ad uno ad uno i testi e diede avvio all’interrogatorio secondo la formula canonica del diritto civile e penale. Il primo cittadino chiamato alla sbarra fu il depositario della denuncia.

    «Nome e cognome.»

    «Mi chiamo Guglielmo Bohr.»

    «Età?»

    «Trentanove anni.»

    «Residenza?»

    «Abito a Dorenza, in Larna

    «Pseudonimo o soprannome?»

    «Mi chiamano Lo Zecca

    «Per quale ragione?»

    «Perché reco sempre con me alcune monete nuove di zecca.»

    Ne recuperò un paio dal taschino e le fece tintinnare nella sua mano destra, con un ampio sorriso di compiacimento.

    «Stato civile?»

    «Maritato, ho sette figli.»

    «Professione?»

    «Commerciante di orzo per la città di Dorenza.»

    «Dove svolge la sua attività?»

    «Principalmente nella mia bottega in Larna

    «Possiede beni patrimoniali?»

    «Sì.»

    «Può elencarli?»

    «Posseggo dodici appezzamenti di terra fuori Dorenza, quattro stallaggi e la casa in cui abito.»

    «È già stato interrogato in altri processi civili o penali?»

    «No.»

    «Ha già subìto accuse o condanne nel corso della sua vita?»

    «No, signore.»

    «Ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche?»

    «No.»

    «Si dà atto» stabilì il Giudice in tono deciso e formale «che il signor Guglielmo Bohr si è presentato a testimoniare spontaneamente per riferire circa le accuse rivolte ai topi. Si proceda alla sua deposizione.»

    Il Fiscale si avvicinò allo scranno dove sedeva il commerciante. Lanciò un’occhiata frettolosa all’avvocato difensore dei roditori e sbuffò, quasi beffardamente:

    «Può deporre la sua testimonianza.»

    Dopo un breve silenzio, rotto dal brusio di sottofondo provocato dalla curiosa frenesia dei presenti, Bohr parlò:

    «Mi sono presentato a testimoniare a nome dei miei contadini e della popolazione tutta, stanchi di vivere nella miseria e di farsi depredare ingiustamente. Da sempre queste terre ci hanno fornito il nutrimento necessario a sfamare i nostri figli e nessuno si era mai lamentato finora, anche se a volte ci siamo trovati in situazioni assai precarie. Sappiamo che il clima è spesso inclemente, le tasse da versare ai Signori sono cresciute in questi anni e, che Dio ce ne scampi, dalla Natura abbiamo subìto ragguardevoli danni; basti ricordare la tempesta nell’estate dell’anno passato che ha sradicato i boschi di Faroppa, oppure le numerose frane abbattutesi sui latifondi di Gannen e le innumerevoli esondazioni del fiume Tobler, tra cui quella del mese scorso che ha devastato la nostra magnifica città con le conseguenze avversissime che tutti noi conosciamo e che siamo qui oggi a denunciare.»

    Guglielmo Bohr fece una pausa e misurò l’attenzione della Giuria, del Fiscale, del Cancelliere – che stava appuntando le sue note – e quella della gente indignata accalcata sul fondo della sala.

    «Sono i topi la nostra disgrazia!», riprese con tono severo nel silenzio ora pesante dell’aula. «Questi esseri immondi hanno progettato già da mesi di distruggerci! I miei contadini, che daranno conferma di quanto dico, mi hanno segnalato una situazione intollerabile. Con le loro tane e gallerie i topi di campagna hanno divorato le radici, distruggendo buona parte delle giovani pianticelle che non daranno più frutto alcuno. Sfruttando la piena del Tobler e la sua esondazione si sono poi riversati a Dorenza e hanno continuato imperterriti a divorare fino all’ultimo granello di cibo...»

    «Dica cosa hanno portato via a lei!», s’intromise l’avvocato difensore, balzando in piedi agitato, roteando in modo strano i suoi bulbi oculari. «Delle generalità sappiamo già tutti!»

    Il possidente terriero s’innervosì.

    «Come ho già ripetuto più volte, nei miei stallaggi sono stati depredati ben quaranta sacchi di orzo. I ratti si sono subdolamente intrufolati da un’apertura consumata nel legno più tenero e si sono arrampicati con destrezza sino alle impalcature più alte, rosicchiando tutto. Hanno infine insozzato le mietiture coi loro escrementi lasciando unicamente desolazione e fetore!»

    «E in città? E in città?», chiese febbrilmente l’avvocato.

    «In città è accaduta la stessa cosa!», s’infuriò Guglielmo Bohr, paonazzo, rimboccandosi le maniche sgualcite. «Sono penetrati nella mia cantina e hanno devastato tutto; hanno divorato mobili, tappeti, tessuti, carte stampate, svuotato le credenze di ogni alimento che possedevo: pane, ortaggi, pesci essiccati, salsicce... Non è rimasto più nulla! Ed è tutta colpa di quei mostri!», concluse scompigliandosi con un gesto nervoso i lunghi capelli cinerini.

    Dal fondo della sala si alzarono dei buh di ribrezzo e di scherno. Il locale fu presto saturo di voci e richiami, grida e proteste, lamentele, insulti, pernacchie, peti e qualche bestemmia sussurrata.

    «Silenzio! Silenzio!», gridò subito imperioso il Giudice, ergendosi in tutta la sua autorità togata. «O faccio sgomberare l’aula del Tribunale!»

    Ritornò una calma precaria.

    «Ha altro da aggiungere?», chiese il Fiscale.

    «Ho terminato», dichiarò Bohr.

    Un vivace seppur breve applauso accompagnò il suo rientro tra il pubblico.

    «È chiamato a testimoniare Rudolf Demattei», proruppe con autorità il Magistrato, infastidito dal rumoreggiare della folla accorsa in aula.

    Si avvicinò un giovane dal volto segnato dalla fatica, serio, con la barba incolta rossastra, le spalle larghe e squadrate, le gambe snelle e nervose, il cappellaccio di paglia calcato in testa.

    «Se lo tolga prima di testimoniare...», gli ingiunse il Giudice.

    Il giovane, non uso agli interrogatori, un rospo in gola, si sedette e si levò il cappello con mano tremante.

    «Nome e cognome.»

    «Rudolf Demattei.»

    «Età?»

    «Ventiquattro anni.»

    «Residenza?»

    «Abito a Dorenza, in Menn

    «Pseudonimo o soprannome?»

    «Per tutti sono Il barba giovin

    «Per quale ragione?»

    L’uomo si accarezzò con un sorriso beffardo la folta barba rossastra.

    «Stato civile?», proseguì il Giudice senza dargli peso.

    «Ho moglie e una bambina.»

    «Professione?»

    «Contadino.»

    «Dove svolge la sua attività?»

    «Nelle terre dell’eminentissimo Guglielmo Bohr.»

    «Possiede beni patrimoniali?»

    «No.»

    «È già stato interrogato in altri processi civili o penali?»

    «No.»

    «Ha già subito accuse o condanne nel corso della sua vita?»

    «No.»

    «Ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche?»

    «No.»

    «Si dà atto» concluse con la stessa formula il Magistrato «che il signor Rudolf Demattei si è presentato a testimoniare spontaneamente per riferire circa le accuse rivolte ai topi. Si proceda alla sua deposizione.»

    «Può parlare» lo invitò Demottis, notando il suo impaccio a riferire.

    «Io posso solo confermare...» iniziò titubante il giovane contadino, «quanto appena detto dall’onorevolissimo signor Bohr. I ratti hanno sterrato ovunque, in campagna. Hanno fatto delle tane profonde neanche fossero talpe. Hanno scavato gallerie, divorato le radici delle nostre semine... Quest’estate non raccoglieremo nulla!»

    Fece una pausa e osservò i volti dei signori Giudici, impassibili. Tra la folla invece ci fu un fremito scomposto.

    «Molti di noi moriranno di fame... ve lo garantisco!», affermò con durezza, le ciglia folte increspate. «Quelle bestiacce ci hanno condannati... a una morte lenta!»

    «Perché ha deciso di presentare la sua accusa?», chiese l’avvocato difensore dei ratti.

    «Perché... perché...» blaterò goffamente il contadino, «perché mi è stato chiesto...» aggiunse con timidezza.

    Ci fu un sussulto dell’avvocato.

    «Le è stato chiesto... da chi?», fece aggrottando la fronte.

    «Da chi vuole quelle bestiacce tutte... morte

    Questa volta scoppiò un applauso fragoroso. Fischi e ululati si mescolarono alla cagnara. Il Giudice ebbe un bel da fare per riportare l’ordine in aula, benché coadiuvato da alcune guardie municipali che allontanarono i più facinorosi.

    «A lei cosa hanno distrutto in città?», chiese il difensore appena ritornò un po’ di calma.

    «Mi hanno rovinato tutta la farina.»

    «Null’altro?»

    «No.»

    Dopo la deposizione di Rudolf Demattei fu ascoltata ancora una decina di testimoni. Tutti contadini, giovani e anziani, scottati dal sole e bruciati dalla miseria, che esponevano con gesti insulsi e un vocabolario approssimativo quanto già ripetuto: i topi erano la causa della disgrazia di tutti, avevano divorato le messi in campagna e questo, di lì a poco, avrebbe comportato la miseria in città; inoltre, i ratti si erano macchiati pure di molteplici saccheggi e aggressioni domestiche, portando alla disperazione se non alla morte più cittadini.

    A fine di giornata il Giudice Gustavo Emmen chiamò a deporre un’anziana signora, vedova da poche settimane. Si presentò ingobbita, come se un pesante fardello le gravasse fatalmente sulle spalle; vestita di nero, con una lunga gonna smessa che nascondeva ogni forma del corpo macilento, l’anziana parlò guardandosi sempre le scarpe smunte.

    «Sono la vedova Samman, fu Roman Samman», dichiarò.

    «Cosa la spinge a testimoniare qui oggi in questo processo», chiese il Fiscale.

    «L’omicidio di mio marito.»

    Si levò un brusio inquietante, una ventata gelida.

    «Quando accadde?»

    «Il venerdì di due settimane orsono.»

    «E com’è avvenuto?»

    «Il mio povero marito è stato aggredito e ucciso.»

    Mormorio concitato.

    «Da chi?»

    «Dai topi.»

    «Come fa a esserne certa?», intervenne l’avvocato difensore dei roditori.

    «Mio marito non aveva nemici...», affermò con fierezza la donna. «Era un buon uomo. Buon marito. Buon padre. Lavoratore instancabile.»

    «Nessuno dubita di ciò, signora», giudicò l’avvocato difensore inarcando in modo impercettibile il labbro superiore, «ma da lì a credere che...»

    «Non offenda la memoria del mio compianto marito!», s’accalorò l’anziana in un moto di stizza, pur continuando a guardarsi le scarpe, il peso della vecchiaia sulle spalle. «Io so di cosa sto parlando...»

    «La prego», intervenne il Fiscale, «ci spieghi come sono andati i fatti...»

    «Due settimane or sono», iniziò a narrare la vedova, «mio marito non è rientrato la sera dalla taverna, dove era solito consumare qualche bicchiere di vino prima di cenare coi dodici figli. Io mi sono allarmata e ho mandato i più grandi a cercarlo...»

    La donna ebbe un leggero cedimento e il suo discorso fu rotto da alcuni singulti.

    «Mio marito è stato trovato...» disse con uno sforzo supremo, «agonizzante, addossato alla parete esterna della taverna, fatto a pezzi dai ratti che... lo stavano ancora divorando mentre i suoi occhi disperati chiamavano aiuto...»

    «E i suoi figli cosa fecero?», chiese il difensore.

    «Hanno allontanato i topi col fuoco delle torce e... hanno trasportato a casa il padre morente.»

    «Quando è morto suo marito?», chiese Demottis.

    «L’indomani mattina... dopo una notte di tremenda agonia...»

    «Ha detto qualcosa prima di morire?.»

    La donna trattenne a fatica lacrime amare.

    «Ha detto... che non esiste giustizia alcuna su questa terra.»

    Il pubblico rumoreggiò di nuovo dal fondo della sala, ma più compostamente. La vedova si alzò dal suo scranno e si allontanò, lo sguardo rivolto al suolo, incurante delle commiserazioni degli abitanti di Dorenza.

    Il Giudice attese pazientemente che l’anziana fosse uscita e che la folla di curiosi si fosse placata, poi diede la parola al patrocinatore dei topi.

    «L’avvocato difensore può disporre.»

    «Chiamo a deporre Hernest Maierfranz», dichiarò con un ghigno l’avvocato.

    Il Magistrato e tutti i membri della Giuria ebbero un sussulto. Il pubblico si zittì a quell’annuncio, gli astanti si guardarono l’un l’altro increduli; Hernest Maierfranz era tra di loro! Che diavolo avrebbe detto quel vecchio pazzo?

    Il testimone emerse da un angolo buio – come se uscisse da un abisso invisibile, un altro mondo fatto di mistero – e si trascinò fiero sotto lo sguardo attento di tutti verso lo scranno riservato agli interrogati. Si sedette composto e rispose con inquietante flemma ai primi appelli di Demottis.

    «Nome e cognome.»

    «Hernest Maierfranz.»

    «Età?»

    «Cinquantotto anni.»

    «Residenza?»

    «Abito a Dorenza, fuori le mura, in una capanna.»

    «Ha uno pseudonimo o un soprannome?»

    «Gli amici mi chiamano El Marin, poiché adoro le onde del mare, anche se qui non c’é; ma la maggior parte di questi», e additò la folla in fondo alla sala, «alludono a me col nome di Grifón

    «Per quale motivo?»

    «Sembra che io sia molto... graffiante», disse il vecchio con tono cinico.

    «Stato civile?», proseguì il Giudice.

    «Vivo da solo.»

    «Professione?»

    «Mi piace definirmi un pensatore libero

    La folla rise. Maierfranz indicò col dito l’uno e l’altro, a caso, che aveva riso, senza proferir parola; allora nell’aula piombò un silenzio gravido di timore.

    «Possiede beni patrimoniali?»

    «La mia capanna è l’unico bene di cui dispongo.»

    «È già stato interrogato in altri processi civili o penali?»

    «Sì.»

    «Ha già subito accuse o condanne?»

    «Sì.»

    «Ricopre o ha ricoperto cariche pubbliche?»

    «Sì, ma come l’illustrissima Giuria saprà, sono stato allontanato...»

    Il Giudice sorvolò su quest’affermazione sarcastica e pronunciò la formula rituale:

    «Si dà atto che il signor Hernest Maierfranz si è presentato a testimoniare spontaneamente per riferire circa le accuse rivolte ai topi. Si proceda alla sua deposizione.»

    Il vecchio pensatore lasciò passare alcuni istanti prima di parlare; assaporò la riverenza turbata di tutti i presenti, avvocati compresi. Sembrava respirare a fatica, ma tutti sapevano che stava solo riscattando energie da un baratro profondo al quale solo lui aveva misteriosamente accesso.

    «Proceda!», si spazientì allora Gustavo Emmen, in nervosa attesa.

    «I topi sono dei fierissimi nemici dell’uomo», esordì con tono franco Maierfranz.

    Dal fondo della sala si levarono dei timidi buh, zittiti subito dallo sguardo fulminante del pensatore italiano.

    «Sono esseri che perseguitano accanitamente l’uomo da migliaia di anni, dandogli una caccia spietata. Coi loro denti aguzzi e la loro implacabile ingordigia, questi esseri così minuscoli e apparentemente indifesi hanno la capacità di suscitare la peggiore ferocia, una collera indefinibile negli uomini, forse perché sono più abili di noi a procacciarsi il cibo, a proteggere la propria prole, a superare le avversità dell’ambiente che li circonda, ad adattarsi a condizioni estreme, a ingannare facilmente i loro predatori, a sopravvivere con scaltrezza fuori dal comune.»

    Maierfranz s’interruppe: un topolino stava attraversando furtivamente la sala per scomparire dentro una fenditura della parete dietro il tavolo della Giuria, totalmente ignara – come pure il pubblico presente – di quell’episodio bizzarro. Maierfranz s’interruppe, sorpreso anche da un altro fatto del tutto inconsueto: l’arrivo del parroco, il consolatore degli animali, che se ne stette in disparte, guardingo e fiero, attirando tuttavia su di sé l’attenzione della gente e dei giudici.

    Il teste, compiaciuto, rise beffardamente e proseguì:

    «Malgrado ciò, chi di voi potrebbe contestare la leggiadria di un topolino, il suo aspetto elegante, la sua indole briosa, la sua scaltrezza? C’è persino chi ne tiene in gabbia alcuni per esibirli agli amici potenti, ai commercianti ricchi, alle vicine di casa bizzarre. E allora cosa temiamo veramente da questi esseri col loro musetto appuntito, i baffetti sensibili, il bel pelame grigiastro, le zampette armoniose e scattanti? Temiamo i loro denti? La loro ingordigia? Oppure temiamo il... contagio

    I presenti trattennero il fiato, preoccupati, e iniziarono a scrutarsi l’un l’altro, a esaminare la carnagione olivastra, a ispezionare in tralice la colorazione dei bulbi oculari dei vicini, a subodorare gli eventuali fetori della malattia... Persino i Giudici non si trattennero dall’esaminare manifestamente i propri colleghi.

    «Non allarmatevi, signori!», affermò Maierfranz con fervore. «Anche se vi fosse un contagio effettivo le autorità non direbbero nulla, i medici vi rincuorerebbero per non rischiare di venir fatti a pezzi; tutti negherebbero l’evidenza pur di non veder crollare l’attività economica della città. Siete tutti sani!, griderebbero i banditori per le piazze. Non vi è nulla da temere! Se l’epidemia dilagasse, i corpi dei cadaveri si ammucchierebbero nelle strade che diverrebbero deserte, si chiuderebbero le botteghe, le osterie, le chiese, e nessuna legge sarebbe più rispettata. Imperverserebbe il panico; il timore dei vivi e dei morti, la paura dei vicini e dei mendicanti, perfino dei propri figli e dei propri vestiti. Persone di cuore diverrebbero di marmo, allontanerebbero senza pietà qualsiasi ammalato, persino i propri cari, relegandoli fuori le mura come i lebbrosi, a morire di una morte silenziosa e dimenticata. Tutto diverrebbe proibito, fuorché per i topi!»

    L’aula fu percorsa da un brivido che s’impossessò di membra e di corpi, persino dell’ambiente spettrale che si era venuto a creare con la testimonianza del vecchio pensatore; scricchiolavano le travi di legno dell’aula penale, cigolavano le ante degli armadi addossati alle pareti, gemevano le imposte alle finestre scosse da improvvise folate di favonio.

    «Voi sapete bene, signori», si rivolse ai Giudici il vecchio pensatore con palese ironia nella voce, «che un animale piccolo consuma più energia di un animale grande, ed è per questa ragione che deve nutrirsi continuamente, ingurgitando cibo quasi pari alla metà del proprio peso. Per tale motivo, tuttavia, il piccolo roditore vivrà meno, ma metterà al mondo molti più suoi simili salvaguardando la specie con sempre nuove generazioni di topi...»

    «La prego, sia più conciso, signor Maierfranz», intervenne infastidito uno dei Giudici, l’eminentissimo Emmanuele Kreise. «Questa è una sala di udienze, non di dissertazioni accademiche.»

    «Sarò certamente breve», rispose il vecchio pensatore con un sorrisetto sarcastico, «se non fosse che...» e fece una pausa teatrale, leggendo raccapriccio e preoccupazione sui volti di tutti i presenti, «ai fini della giustizia è necessario conoscere significativamente gli imputati del reato denunciato;

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